Fonte: Associated Press

IL REGNO UNITO METTE A RISCHIO LA VITA DEI RIFUGIATI LGBTQI+, L’ITALIA LO FA GIÀ DAL 2019

9 Giugno 2022

Lo scorso aprile il Governo del Regno Unito, guidato da Boris Johnson, ha presentato un piano per la gestione dei richiedenti asilo destinato a far discutere: Londra ha deciso di “esternalizzare” i richiedenti asilo spedendoli in Ruanda, a circa 6400 chilometri di distanza. Il primo volo dovrebbe partire il 14 giugno.

Il piano rientra pienamente nell’approccio tenuto in questi anni da Priti Patel, importante esponente politica dei Conservatori che dal 2019 ricopre il ruolo Home Secretary (grossomodo l’equivalente del Ministro dell’Interno italiano). Patel è già “famosa” da tempo per le posizioni molto dure assunte contro le persone che hanno tentato di arrivare sulle coste del Regno Unito dalla Francia, tramite imbarcazioni di fortuna. D’altronde, soprattutto negli ultimi anni, la questione migratoria ha infiammato il dibattito politico in UK – basti pensare alla campagna anti-immigrati montata per fomentare il voto pro-Brexit e alla retorica platealmente razzista usata per anni da Nigel Farage.

Con questa scelta di trasferire i richiedenti asilo a migliaia di chilometri di distanza e da un continente all’altro, però, l’esecutivo Johnson ha deciso di compiere un passo decisamente estremo. Un conto è assumere un atteggiamento più restrittivo nelle normative che disciplinano il diritto d’asilo e i requisiti per l’ingresso legale in UK, altro conto è un’esternalizzazione così netta e in un Paese terzo, peraltro molto lontano, di tutto il procedimento per valutare nel merito se il richiedente asilo X abbia diritto o meno a vedersi riconosciuta qualche forma di protezione. 

Mancano ancora molti dettagli sulla parte operativa del piano e non c’è sufficiente trasparenza su alcuni aspetti fondamentali per capire quali richiedenti asilo verranno “delocalizzati” in Ruanda – Paese che ha accettato di buon grado il compito dietro il pagamento di circa 120 milioni di sterline – ma questa Migration and Economic Development Partnership ha già incontrato la ferma opposizione dell’UNHCR (l’Agenzia ONU per i Rifugiati), di moltissime ONG, dei principali partiti di opposizione e anche dell’Arcivescovo di Canterbury. 

Nel Memorandum firmato tra l’esecutivo di Londra e quello di Kigali ci sono vari passaggi che destano perplessità, tra cui il riferimento agli sforzi fatti dal Regno Unito per ricollocare 25mila rifugiati siriani, 20mila afghani e soprattutto per garantire la cittadinanza ai cittadini di Hong Kong in fuga dalla repressione di Pechino. Traduzione: siccome sono stati bravi ad accogliere un po’ di persone in fuga da situazioni di pericolo e/o persecuzione adesso possono trattare in modo inumano e degradante altre categorie richiedenti asilo.

In questo quadro deprimente a livello generale ci sono alcune specifiche categorie che, qualora venissero effettivamente trasferite in Ruanda, rischierebbero davvero la vita. A dirlo è l’Equality Impact Assessment pubblicato dallo stesso Home Office. Nella valutazione operata dal governo di Londra viene messo nero su bianco che “[…]in relation to Rwanda, as analysed above, there are concerns over the treatment of some LGBTQI+ people […]”, ma che la situazione verrà analizzata caso per caso in base al monitoraggio che verrà condotto nei prossimi tempi.

Una rassicurazione insufficiente. Le persone LGBTQI+ che scappano dal proprio Paese di origine per il timore di subire (o perché hanno già subito) trattamenti persecutori rientrano a pieno titolo tra i soggetti tutelati dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Sono soggetti esposti a particolari condizioni di vulnerabilità e queste specificità vanno prese debitamente in considerazione prima di esporre un rifugiato a situazioni di pericolo effettivo. 

È inammissibile che il Regno Unito, tenuto al rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale, abbia messo in piedi un meccanismo di “esternalizzazione” disumano e approssimativo, che non tiene conto delle necessità specifiche di tutela di alcuni gruppi di richiedenti asilo e rifugiati.

Fonte: Adnkronos

Se il quadro descritto vi preoccupa sappiate che l’Italia non è messa molto meglio. Fortunatamente non abbiamo un accordo come quello siglato tra UK e Ruanda, almeno per ora, ma anche noi abbiamo delle leggi che mettono a rischio la vita dei richiedenti asilo LGBTQI+ provenienti da ben 13 Paesi.

Colpa di Salvini? No, è tutta farina del sacco dell’attuale Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che non è mio parente, quel sincero progressista che paragonava le ONG ai taxi del mare per intenderci. Nella crisi agostana che nel lontano 2019 portò al passaggio dal governo Conte I (sovranista e populista) al Conte II (sedicente europeista e progressista) è passata inosservata l’entrata in vigore del cosiddetto “Decreto Paesi Sicuri”, nel mese di ottobre.

Con questo decreto sono stati individuati i seguenti “Paesi di origine sicuri”: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia  del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.

Sostanzialmente se il richiedente asilo proviene da uno di questi Paesi si scarica su di lui/lei l’onere di provare – in tempi più brevi rispetto alla procedura standard – i “gravi motivi” per cui il Paese da cui è scappato non è sicuro, vigendo per le autorità italiane una sorta di “presunzione di sicurezza” generica. Inoltre le Commissioni Territoriali, gli organi competenti per la valutazione delle richieste di protezione internazionale, non sono obbligate a motivare in fatto e in diritto le decisioni di diniego. E l’eventuale ricorso da parte del richiedente asilo in tribunale non sospende l’efficacia esecutiva dell’espulsione derivante dal diniego stesso.

Secondo l’ASGI – Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione – questo decreto ha comportato una sostanziale e drastica diminuzione delle garanzie giuridiche dei richiedenti asilo, lo scoraggiamento della presentazione delle domande, una riduzione degli esiti positivi delle stesse e il tentativo di scoraggiare i connessi ricorsi giurisdizionali.

Stante questa situazione complessiva non proprio incoraggiante, per i richiedenti asilo LGBTQI+ la cosa si complica ulteriormente: Tunisia, Algeria, Marocco, Senegal e Ghana sono Paesi che criminalizzano l’omosessualità, ma che l’Italia considera “Paesi Sicuri”.

Un richiedente asilo LGBTQI+ proveniente da questi Paesi si troverebbe in una situazione paradossale: meno garanzie procedurali per presentare la richiesta d’asilo, maggiori difficoltà nel provare la situazione di pericolo effettivo e tempi minori per far valere i propri diritti in sede giudiziaria in Italia, con il rischio concreto di essere rispedito nel Paese in cui rischia(va) di essere perseguitato in virtù del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere.

Nel 2019 l’Associazione Certi Diritti ha lanciato una petizione su All Out chiedendo di sospendere l’applicazione del Decreto Paesi Sicuri per modificarlo in modo adeguato, ma la richiesta è rimasta inascoltata. Nel 2019 a presentare delle interrogazioni sul tema furono Riccardo Magi, deputato di +Europa, e la senatrice Monica Cirinnà del Partito Democratico: né il parlamentare di opposizione né la parlamentare appartenente alla maggioranza giallorossa sono riusciti a cambiare la situazione. 

Tra l’altro il Decreto Paesi Sicuri – anche se non se ne è accorto nessuno – è stato in “prima pagina” pochi mesi fa: per far fronte all’emergenza profughi determinata dall’invasione russa in Ucraina, proprio il Paese colpito dall’attacco di Putin è stato giustamente “sospeso” fino al 31 dicembre 2022 dalla lista dei Paesi Sicuri. Ciò dimostra che, volendo, possono essere fatte delle scelte politiche rapide, precise e circostanziate sul tema dei cosiddetti “Paesi Sicuri”: sarebbe opportuno sospendere dalla lista anche quei Paesi impropriamente definiti “sicuri” che criminalizzano le persone LGBTQI+, almeno finché non saranno offerte garanzie migliori dalla normativa italiana.

Il Decreto Paesi Sicuri, di tutta evidenza, è un classico esempio di normativa securitaria sostanzialmente inutile: peggiora le condizioni di vita di alcuni richiedenti asilo pur di far sembrare il politico di turno uno con la mano ferma sull’immigrazione. Il risultato è un provvedimento che non va a sanare le molte storture presenti nel nostro sistema di gestione dei flussi migratori, dell’accoglienza e dell’integrazione fin dalla Bossi-Fini.

A pagare un caro prezzo per queste operazioni di “marketing securitario” sono le garanzie processuali e i diritti umani di chi non ha colpe e ha pochi mezzi per difendersi. Purtroppo, essendo un’iniziativa presa agli albori del Conte II, le firme “celebri” del progressismo italiano – solitamente molto attente ai diritti dei migranti quando al Viminale c’era Salvini – su questo tema sono state stranamente silenziose o disattente.

Ma come abbiamo imparato nel 2017 con i Decreti Minniti-Orlando, che hanno cancellato il secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che fanno ricorso contro un diniego e che hanno contribuito alla narrazione delle ONG come organizzazioni para-criminali, quando si tratta di approvare leggi che comprimono i diritti dei migranti, la destra italiana detta sicuramente la linea normativa e culturale, ma PD e M5S fanno la brutta copia. 

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