IL FALSO CULTO DEGLI IMPRENDITORI – COME FUNZIONA L’INNOVAZIONE

29 Ottobre 2020

Nell’epoca di Facebook, Google, Tesla si è sempre di più diffuso il culto dell’imprenditore come una persona dotata di visione e coraggio in grado di creare società miliardarie e rivoluzionare la vita di noi tutti. Si tratta di una visione in qualche modo riconducibile a quella dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, che vedeva nell’imprenditore e nella sua capacità di andare oltre i limiti del suo tempo la driving force dell’innovazione tecnologica e, quindi, della crescita economica. Che l’innovazione tecnologica giochi un ruolo fondamentale nella crescita economica, questo è appurato. Solow, uno tra i primi a studiare sistematicamente la crescita economica, si concentrò sulla funzione produzione: 

Y=f(L, K)

la funzione Y quindi dipende da due variabili, il capitale e la forza lavoro. Ma quando cercò di adattare questo suo modello alla realtà, si accorse che una variazione delle due quantità non era in grado di spiegare il 90% del fenomeno. Per questo inserì da fuori un termine, correggendo il modello: 

Y= A(t) f(L,k)

dove A misura l’innovazione tecnologica. Questo modello è altresì detto Teoria Esogena, perchè appunto inserisce forzatamente l’innovazione tecnologica. 

Siamo quindi tutti d’accordo che un qualche tipo di innovazione tecnologica sia la driving force della crescita economica. 

Il problema è: come avviene questa innovazione tecnologica?

La teoria sopra riportata- quella dell’imprenditore che da solo spinge l’innovazione in territori inesplorati- non solo è alquanto naif, ma difficilmente si riscontra nel mondo reale. Si basa infatti su un modello capitalista a là Robinson Crusoe, in cui la funzione del singolo è centrale nello sviluppo economico. Come osserva John Kenneth Galbraith, se nel mondo di Adam Smith la figura dell’imprenditore risulta centrale, nel mondo moderno le aziende non sono più espressione di una singola persona ma di una tecnostruttura, cioè un team di persone altamente qualificate non solo a livello tecnologico ma anche di marketing, direzione d’impresa e via discorrendo. 

Quindi il ruolo del singolo è molto meno accentuato rispetto a prima. 

Ma l’azienda, da sola, può fare innovazione? 

La risposta, anche in questo caso naif, è sì. Qui interviene la cosiddetta Market Pull Theory, cioè l’idea secondo cui l’innovazione sia semplicemente dovuta a un riconoscimento dei bisogni, nelle parole di Rosenberg e Mowery. Le singole aziende sul mercato, riconoscendo i bisogni della popolazione, si orientano sulla ricerca cercando di soddisfare ciò che desiderano i consumatori. Ma anche questa teoria, nonostante sia affascinante, non tiene al confronto con la realtà: questa teoria viene superata dal concetto di paradigma tecnologico, espresso per la prima volta in un paper di Giovanni Dosi (per le critiche si veda il Paper ). 

Che cosa è quindi che porta all’innovazione? Per cercare di capirlo, mi concentrerò su un caso notevole e specifico, che tutti noi ormai consideriamo paradigmatico: la Silicon Valley. 

Quello che ha reso la Silicon Valley ciò che noi oggi conosciamo è una simbiosi tra le aziende presenti sul territorio, l’università di Stanford (in particolare il dipartimento di Ingegneria Elettronica) e il governo Federale. 

Discutere di quanto lo Stato influisca sulle dinamiche della Silicon Valley è un tema spinoso, proprio perchè la Silicon Valley ci sembra il regno del capitalismo più sfrenato, un ambiente ideale per i Venture Capitalist pronti a inondare di fondi le aziende più innovative e promettenti. Ma questa è solo una parte, conclusiva, della storia.

L’intervento dello Stato è infatti di vitale importanza.

In primo luogo, finanziando la ricerca di base. Come disse infatti Venner Bush in un report per il presidente Roosevelt del “The Endless Frontier”: “la ricerca di base non è commerciabile per definizione, non riceverebbe l’attenzione adeguata se lasciata all’industria”. Questo è ancora comprensibile all’interno dell’interpretazione mainstream dell’economia: la ricerca fatta dalle industrie è sub-ottimale e per questo il governo deve intervenire per correggere questo fallimento di mercato, puntando sulle esternalità positive derivanti dalla ricerca. 

Sull’importanza della ricerca di base nello sviluppo di bene che poi sono diventati parte integrante nella nostra vita quotidiana c’è sicuramente il Computer. Se i primi esempi di calcolo meccanico sono da rintracciarsi nel lavoro di Pascal, la vera spinta che portò al Computer non venne soltanto dall’ingegneria quanto da un problema sollevato dal tentativo di formalizzare l’intera matematica, impresa mastodontica che David Hilbert lanciò alla comunità matematica e che Godel distrusse nel 1931 con i suoi Teoremi di Incompletezza. Da qui prese ispirazione Alan Turing che nel 1936 risolse il Entscheidungsproblem servendosi della nozione, da lui sviluppata, di Macchina Universale di Turing. Secondo le parole di John Von Neumann fu proprio grazie agli studi di Turing che gli fu possibile concepire l’architettura di Von Neumann, forse il passo più importante nello sviluppo del computer. 

Non si tratta soltanto, però, di soldi alle università per la ricerca. Durante la seconda guerra mondiale e successivamente con la Guerra Fredda si è creato un vero e proprio network tra università, governo centrale e agenzie governative come il DARPA, che come afferma Mariana Mazzucato ha giocato un ruolo centrale nello sviluppo di buona parte della tecnologia di cui disponiamo oggi. 

Il governo inoltre finanzia attivamente aziende innovative prima che il mercato si interessi a questo, spesso in un progetto più ampio- i Mission Oriented Project, come l’allunaggio dove il governo americano attraverso la Nasa ha lavorato con ditte private, ad esempio IBM, per ottenere risultati fondamentali. Uno degli imprenditori più celebrati di questi anni, Elon Musk, non è il prodotto soltanto dell’azzardo di certi Ventur Capitalist, quanto di una strategia più ampia messa in atto dal governo

Alla base quindi del successo della Silicon Valley ci sarebbe questa triplice alleanza tra governo centrale, università di Stanford e aziende. Un ambiente prospero quindi per la ricerca in cui alcuni paletti che avevamo considerato centrali in economia vengono meno: come fa notare Yuko Harayama, le industrie della Silicon Valley non sono in competizione tra di loro ma spesso e volentieri si uniscono per esplorare possibilità di mercato. 

Per comprendere meglio come ciò sia alla base dell’innovazione è necessario abbandonare pertanto la visione mainstream dell’economia e approdare ai modelli evoluzionisti, su cui si concentrano molti esperti di economia dell’innovazione. In questa teoria, nata per spiegare al suo interno il ruolo di istituzione e governi e il comportamento delle aziende nell’innovazione, proprio il network e gli incentivi governativi giocano un ruolo fondamentale. 

Non si può però pensare che soltanto l’intervento governativo- sulla falsa riga di quanto fatto in Italia e nel vecchio continente nella seconda metà del novecento- sia abbastanza per sostentare la crescita: lo Stato può funzionare da catalizzatore ma deve funzionare assieme ai tecnici e agli imprenditori in un sistema di economia mista, che tenga assieme la libertà di impresa e il valore pubblico. 

Il rischio infatti è quello che diceva, paradossalmente, Peter Thiele, libertario e venture capitalist: un innovazione che punta soltanto al lato del consumo e benessere del singolo. Parafrasando Thiele: pensavamo che il progresso significasse viaggi nello Spazio e invece abbiamo Twitter. L’innovazione deve tornare a funzionare come soluzione ai problemi a cui stiamo assistendo: lotta al cambiamento climatico, nuove tecnologie di cura per tumori etc.

Questo, ripeto, deve essere fatto in simbiosi tra stato e privato, individuando quali sono i problemi che, come umanità, vogliamo risolvere.

Ma la funzione dello Stato non finisce qui. Se da una parte è appurato, come spiego nella parte precedente dell’articolo, che lo Stato debba avere un ruolo fondamentale nello stimolare l’innovazione attraverso progetti che puntino al bene comune, allo stesso tempo deve essere consapevole delle conseguenze che la rivoluzione digitale porterà. Non si sta parlando della rivoluzione che porterà nelle nostre vite, sempre più interconnesse e meno localizzate, quanto nel mercato del lavoro e nei rapporti di classe. Per questo oltre a svolgere una funzione di catalizzatore, lo Stato deve ripensare a La Cura delle persone. 

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