Matt Brown/ Flickr

SALVATE IL SOLDATO CHARLIE

29 Ottobre 2020

Il 2 settembre iniziava il processo ai quattordici sospetti complici degli islamisti francesi dietro gli attacchi alla rivista satirica e a un supermercato ebraico a Parigi. Per l’occasione Charlie Hebdo aveva ripubblicato, in un numero speciale, le contestate vignette sull’Islam che provocarono la violenta reazione dei musulmani integralisti. Il direttore editoriale, Laurent Sourisseau, rimasto ferito nell’attacco, in un editoriale allegato alla pubblicazione, ha scritto: «Non ci arrenderemo mai. L’odio che ci ha colpito è ancora lì e, dal 2015, ha avuto il tempo di mutare, cambiare aspetto, passare inosservato e continuare silenziosamente la sua spietata crociata». In copertina il titolo “Tout ça pour ça” (“Tutto ciò a causa di queste”). Quarantaquattro giorni dopo, il 16 ottobre, il diciottenne di origini cecene Abdouallakh Anzorov decapitava il professore di storia e geografia Samuel Paty, all’uscita di scuola nel cuore di una tranquilla città della regione parigina, Conflans Saint-Honorine.

Tout ça pour ça”.

Il giovane ceceno non frequentava la scuola dove insegnava Samuel Paty, ma era venuto a sapere che il professore aveva mostrato alcune vignette del profeta Maometto nudo, durante una lezione di educazione civica, attraverso i social network. L’evento è stato raccontato da un’allieva tredicenne a suo padre, Brahim Chnina. L’uomo ha in seguito postato tre video. Nel terzo ed ultimo accompagnato anche dall’integralista Abdelhakim Sefrioui, ben noto alla polizia, in cui il professore veniva definito “delinquente”. Ventuno giorni prima, il 25 settembre, un diciottenne pakistano colpiva con un’ascia una coppia di giovani ferma in strada, in boulevard Richard Lenoir, di fronte alla sede di Charlie Hebdo.

A una settimana dall’attentato, il 2 ottobre, Macron presentava le misure per «difendere la Repubblica e i suoi valori e garantire il rispetto delle promesse di uguaglianza ed emancipazione»: i “cinque pilastri” contro l’islamismo radicale. «La nostra sfida è lottare contro coloro che escono dai binari in nome della religione, proteggendo quelli che invece credono nell’Islam e sono cittadini a pieno titolo della Repubblica», ha detto Macron durante il suo discorso di presentazione. Da subito si sono generate molte polemiche nella comunità islamica: secondo i critici, anziché promuovere l’integrazione, le sue parole hanno creato ancora più divisione e discriminazione verso tutti i musulmani, inclusi i moltissimi non appartenenti all’ala radicale e i circa 5 milioni di francesi che seguono questa religione. Il presidente del Pakistan, Imran Khan, ha detto che «l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è un’ulteriore polarizzazione» tra religioni diverse e aggiunto che Macron sta «scegliendo deliberatamente di provocare i musulmani». Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha reagito all’annuncio di Macron insultandolo apertamente: «ma che problema ha quel tizio chiamato Macron con l’Islam e con i musulmani? Macron ha bisogno di cure mentali».

In questo contesto di tensione massima è poi uscito l’ultimo numero di Charlie Hebdo, nel quale viene attaccato direttamente il presidente turco. Il disegno lo ritrae mezzo nudo mentre alza la gonna a una donna vestita con il tradizionale velo islamico, scoprendole il sedere. Nel mostrare ai lettori il didietro della donna, Erdoğan, con la lingua di fuori, esclama “Uuuuuh, il profeta!”. D’altronde l’aveva detto Macron, alla Sorbona, durante la cerimonia funebre di Paty: «non rinunceremo alle caricature, ai disegni».

Le autorità turche hanno immediatamente rinnovato le proteste, scagliandosi contro la pubblicazione della vignetta incriminata, accusando la rivista di “razzismo culturale”. In particolare, Fahrettin Altun, capo dell’ufficio-stampa di Erdoğan, ha tuonato: «la campagna anti-islam del capo di Stato francese Macron sta producendo i suoi frutti! Condanniamo i vomitevoli sforzi di quel periodico di propagandare il suo razzismo culturale e il suo odio», mentre il ministro turco della Cultura e del Turismo, Serdar Çam, ha definito i redattori di Charlie Hebdo dei «bastardi». Martedì nella capitale del Bangladesh, Dacca, hanno manifestato oltre 40mila persone. Sulla prima pagina di un giornale iraniano, Macron è stato definito “il diavolo di Parigi”, mentre fuori dall’ambasciata francese di Baghdad, in Iraq, i manifestanti hanno dato fuoco alle sue foto e alle bandiere della Francia. Secondo il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, Macron sta abusando della stessa libertà di espressione che difende con forza per insultare e diffondere il «culto dell’odio che era stato rafforzato ed esportato dai regimi coloniali».

Anche in Italia, mentre su Twitter sta circolando molto l’hashtag #MacronSaySorryToMuslims, si è accesa sui social la discussione intorno alla vignetta, che è diventato in alcuni casi dibattito sulla satira. C’è chi la trova offensiva, c’è chi afferma che non si tratti più di scherno ma di semplice affronto, chi invece sostiene che la satira è sempre satira, l’esame di coscienza per eccellenza.

In fondo, sgradevoli lo sono sempre state, le vignette di Charlie: per scelta e per passione. Ruvide e pungenti, macabre e irrispettosi. Si sono scagliate contro déi, capi e santoni. Contro tradizioni, Stati e mafie. Tutti noi ricordiamo le vignette dedicate al crollo del ponte Morandi, quelle per le quali in Italia “nessuno era più Charlie”, per le quali i panni dei paladini della libertà, finito il moto solidale, iniziarono a farsi scomodi. E nemmeno in quella occasione tardarono le proteste sui social: «questa sarebbe satira? Per me c’è solo una parola: schifo», aveva commentato il leghista Rixi, mentre Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia, aveva addirittura chiesto al Ministro agli Esteri Moavero di convocare l’ambasciatore francese a Roma.

Ma Charlie è rimasto indomabile ed insopportabile, spesso volgare e senza freni, senza alcun rispetto per niente e per nessuno. Nemmeno per i morti. Loro che la morte l’hanno vissuta nel più crudele dei modi. La verità è che Charlie di vignette ciniche e riuscite ne ha fatte diverse: su tutte la serie dedicata al piccolo Aylan, figlio di profughi siriani morto in mare, la cui foto divenne simbolo della tragedia dei migranti e che la rivista commentò con battute provocatorie, per molti disumane, ma che lasciavano emergere i pregiudizi di un Occidente connivente, razzista, capitalista e ipocritamente commosso. Altre, similmente crudeli, sono arrivate con più difficoltà e poca incisività, sfiorando lo sberleffo gratuito.

Ma la satira sarà sempre lo specchio nel quale chi guarda scopre la faccia di tutti tranne la propria. Ed è in virtù di ciò che ciascuno di noi sospende a giorni alterni il “territorio franco” che le si concede, in ragione delle proprie idiosincrasie. In ragione della propria indignazione che va sfoderata contro Charlie, ogni volta che Charlie tocca un tema che ci riguarda. La satira deve pigiare un po’ il pedale, sempre, e viene accettata e compresa da chi maggiormente sa accettare le proprie mancanze e le proprie storture.

Il 19 ottobre Bret Stephens scriveva sul NYT Fanatics shouldn’t kill people, and writers and artists shouldn’t needlessly offend fanatics. It’s a compromise that is fatal to liberalism. It reintroduces a concept of blasphemy into the liberal social order. It gives the prospectively insulted a de facto veto over what other people might say. It accustoms the public to an ever-narrower range of permissible speech and acceptable thought. Our compromised liberalism has left a generation of writers weighing their every word for fear that a wrong one could wreck their professional lives. The result is safer, but also more timid; more correct, but also less interesting. It is simultaneously bad for those who write, and boring for those who read. It is as deadly an enemy of writing as has ever been devised“.

Ieri hanno mandato a fanculo Dio, l’esercito, la Chiesa, lo Stato. Oggi il presidente turco e domani chissà. In leggerezza e in ferocia. In certi casi fallendo il bersaglio, in certi altri dicendo la verità. Soprattutto quella che fa più male.

Tout ça pour ça“.

2 Comments

  1. Io trovo che rispondere a volgarità come si trovano su Charlie Hebdo con coltelli e mannaie sia estremamente riprovevole e segno di inciviltà, profonda inciviltà. A ciò l’occidente pur confuso e preoccupato da tante crisi, deve dare risposta puntuale. Anche un giornale irriverente al punto da sconfinare nella volgarità a volte (troppe) gratuita, deve essere tutelato in nome di una civiltà che usa la critica e il confronto-scontro ma mai la truce e gratuita fanatica violenza.

    • Il suo commento mi trova in perfetto accordo. La questione, già di per sé delicata, oggi si interseca però ad altri doverosi ragionamenti di natura politica. In “linea di principio” sono d’accordissimo con lei: ma fino a che punto è valida la “linea di principio” quando si parla di scacchiere internazionale? Quando l’interlocutore è a tal punto distante dalla nostra parola, tanto da considerarla inaccettabile e profondamente offensiva? Qui si dovrebbe inserire il discorso, da lei sollevato, di una risposta dell’Occidente quale forma, quale insieme di valori. In questo senso il mio articolo e ragionamento non possono che essere profondamente superficiali, ma spero meritevoli di approfondimento.

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