Dopo aver a lungo lavorato per il KGB, fino a diventarne il direttore nel 1998 (quando aveva cambiato nome in Consiglio di Sicurezza Federale), Vladimir Putin venne nominato Primo Ministro nell’agosto 1999, per poi succedere a Boris El’cin come Presidente della Federazione Russa nel dicembre dello stesso anno.
In realtà Putin non era nuovo al mondo della politica: era stato infatti membro dello staff del Presidente El’cin dal 1996 e, prima ancora, aveva ricoperto diversi incarichi nell’amministrazione municipale di San Pietroburgo.
Fin dal suo primo mandato Putin ha cercato di ergersi a leader forte, autorevole e di caratura internazionale. Lo scopo era semplice: invertire il processo che aveva portato la Russia a perdere quello status di superpotenza contraltare degli Stati Uniti detenuto per tutta la Guerra Fredda, rilanciando l’azione diplomatica, stringendo legami con Cina, India, Bielorussia e cercando alleati in Europa, così da bilanciare il peso statunitense sul continente.
Certo, quando la diplomazia non è bastata, Putin non si è fatto problemi a mostrare (ai propri concittadini prima ancora che al mondo) i muscoli. Il primo terreno di scontro fu la Cecenia, una piccola repubblica appartenente alla Federazione Russa situata al confine con la Georgia. Qui il neo-nominato Primo Ministro diede il via alla seconda guerra Cecena, combattuta tra il 1999 e il 2007. Guerra che portò a decine di migliaia di morti (sia militari che civili), presentando elementi premonitori di quello che sarebbe stato il modus operandi che Putin avrebbe applicato anche in futuro. Pensiamo solo a come, per meglio controllare il fronte interno, il governo pose sotto il proprio controllo l’informazione attraverso un sistema di pressioni e minacce sui giornalisti, fino agli arresti coatti. Pressioni che furono applicate anche ai giornalisti stranieri, fino al bando dell’American Broadcasting Company (meglio nota come ABC), una delle reti televisive più importante degli Stati Uniti.
Nel 2008, poi, l’invasione della Georgia, per riportare all’ordine uno stato dell’ex blocco sovietico lentamente spostatosi verso Occidente. Tra le motivazioni addotte dagli invasori: la tutela dell’autodeterminazione degli osseti del sud e degli abcasi che rivendicavano l’indipendenza. Ci volle solo qualche giorno prima che i russi prendessero il sopravvento sulle unità georgiane, permettendo l’indipendenza de facto per le due autoproclamate repubbliche.
IL PLURALISMO SOTTO CONTROLLO
A un anno circa dalla sua elezione nelle strade si iniziarono a vendere ritratti e altre effigi con la sua immagine. In un regime democratico la carica dovrebbe venire prima della persona: un capo di stato in carica non dovrebbe propagandare sé stesso e, soprattutto, non dovrebbe tendere ad associare in modo così stretto le sorti dello stato al suo destino personale. Il culto dei leader è qualcosa che troviamo in tutte le situazioni di forte centralizzazione e verticalizzazione del potere, ossia quelle situazioni in cui si tende ad accumulare tutte le responsabilità decisionali in una persona sola. E sono le immagini dei leader le prime che vengono colpite quando il regime crolla: le immagini, ad esempio, sono quelle di Baghdad, 2003, quando, in diretta televisiva, venne abbattuta la statua di Saddam Hussein.

Ma la deriva autoritaria non si ferma certo alla glorificazione del leader, alla sua idealizzazione. Una delle prime cose che un aspirante dittatore deve fare è chiudere il rubinetto della polifonia in modo che una sola voce possa emergere: la sua. Se infatti si limita sempre più il confine di ciò che si può dire, pensare e immaginare, le persone si troveranno sempre più naturalmente a vivere la propria condizione, che diverrà naturalmente immodificabile. Come la rana che si scoprì, ad un tratto, stecchita nell’acqua bollente.
Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (un’associazione internazionale fondata a New York nel 1981 che difende la libertà d’informazione) a partire dagli anni ‘90 sono stati almeno 50 i giornalisti assassinati a causa del loro lavoro. Questo triste primato ha reso la Russia uno dei paesi più pericolosi per i giornalisti. Il caso più noto alle cronache internazionali è quello dell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya, famosa per le sue forti prese di posizione contro le azioni della Russia in Cecenia e uccisa nell’atrio di casa con quattro colpi di pistola.
Ma la repressione non si ferma agli omicidi, alle aggressioni a giornalisti, agli attacchi contro le redazioni o all’uso della magistratura per colpire editori e testate non allineate. Dal 2012, in coincidenza con l’inizio del suo terzo mandato, Putin ha approvato una serie di leggi volte a colpire l’indipendenza e l’autonomia degli apparati d’informazione. Sotto il pretesto del contrasto al terrorismo, all’odio religioso e della protezione dei bambini, il Cremlino ha imposto un clima di terrore tale da portare ad una preventiva autocensura da parte dei media.
Questi presupposti ci permettono di capire più facilmente la deriva abbracciata negli ultimi giorni dal Cremlino, con l’approvazione di una legge che punisce con la detenzione (fino a 15 anni) giornalisti e blogger che parlano di guerra, con la chiusura di alcune testate straniere (come l’inglese BBC) e la censura dei social, sfociata poi nell’annunciata disconnessione da internet: l’unico modo per limitare l’eco delle immagini e dei video che arrivano dall’Ucraina.
Infine la repressione delle manifestazioni non virtuali, pacifiche e pacifiste, in diverse piazze del paese. Anche se è dal 2014 che le proteste e i sit-in non autorizzati sono stati vietati per legge, la cifra delle persone arrestate è eccezionalmente alta: 14 mila, secondo uno dei pochi media indipendenti rimasti in Russia, OVD-Info.
Putin, in Ucraina, non sta giocando solo una partita militare ma, soprattutto, una battaglia politica e simbolica. Nonostante negli anni abbia zittito i giornali, represso le proteste e azzerato l’opposizione politica la sua leadership è costantemente messa in discussione. Le proteste si sono moltiplicate, portando negli ultimi anni i suoi indici di gradimento ai minimi storici, sempre se di minimi si può parlare quando l’approvazione si aggira al 60%. Solo la storia ci dirà se il Cremlino si è impantanato in una guerra logorante che, alla lunga, andrà a erodere ulteriormente il consenso e la credibilità di Putin, che al momento si trincera alle spalle di una narrazione di assoluto dominio sulla impotente Ucraina.
D’altronde si chiedeva il saggio: ma siamo proprio sicuri che il potere logora solo chi non ce l’ha?