“SE IL NOSTRO SANGUE DEVE SCORRERE, CHE SCORRA PER TUTTA LA CITTÀ”
Qualche giorno fa Sarah Jessica Parker e Taraji P. Henso hanno comunicato le nomination ai Golden Globe Awards del 2021, che si terranno il 28 febbraio. Tra i film candidati a miglior film drammatico c’è “Il processo ai Chicago 7”, film del 2020 della Paramount Pictures e acquistato da Netflix dopo l’emergenza covid19. Scritto e diretto da Aaron Sorkin, sceneggiatore dell’indimenticabile “The social network”, è il secondo lavoro in cui lo si vede in veste di regista.
Otto uomini vengono accusati di aver causato i duri scontri avvenuti tra manifestanti e polizia di Chicago nel 1968. A rappresentare l’accusa si trova Richard Schultz, nominato dal procuratore generale conservatore John Mitchell.
Un processo politico
I protagonisti delle rivolte protestavano pacificamente, chiedendo al governo statunitense di fermare la guerra in Vietnam. Abbie Hoffman, interpretato da un eccezionale Sacha Baron Cohen, parla di un processo politico; “Non siamo stati arrestati, siamo stati scelti.”, “Non andremo in prigione per ciò che abbiamo fatto, ma per chi siamo.” Un film costruito piano piano per palesare allo spettatore quanto dentro quell’aula di tribunale ci fosse aria di Parlamento.
Bobby Seale, capo delle Pantere Nere, disse che si trovava lì con i sette perché un uomo nero avrebbe spaventato la giuria. Egli non partecipò agli scontri e al processo non aveva rappresentanza legale. Interveniva spesso durante il processo per esprimere il suo disappunto e denunciare l’ingiustizia, finché non venne preso, portato fuori dall’aula su indicazione del giudice Hoffman, picchiato, legato e imbavagliato con un panno in modo da non parlare più. La scena nel film è molto suggestiva; il regista sceglie di mostrare in modo alternato il pestaggio di Seale e l’aula di tribunale che attende con gelo, finché non rientra e il silenzio non si interrompe con sospiri di sgomento.
Il processo di 151 giorni era politico e lo sarebbe rimasto fino alla fine, quando Tom Hayden, che fece iniziare la protesta dopo che il suo amico Rennie Davis venne colpito alla testa dalla polizia di Chicago, fece un discorso prima del verdetto del giudice.
Il suo non fu un vero e proprio discorso diplomatico, bensì un elenco di nomi; tutti i caduti in Vietnam dall’inizio del processo fino a quel momento.
…e un film politico
Gli americani sono noti per produrre film che rendano agli occhi del mondo gli U.S.A. come un popolo coraggioso, pieno di valori, con una storia strappalacrime piena di eroi. Ogni anno ne vengono prodotti e ogni anno vengono premiati.
Riescono nel loro intento: emozionare e raccontare sensibilizzando. Ma non si tratta solo di questo. La politica statunitense si limita a Repubblicani e a Democratici, e questo film è un gigantesco asinello. Pantere nere, pacifismo, scene di molestie su una ragazza, manifestazioni violente.
Le storie ne risentono; un film che per gli argomenti che tratta inevitabilmente diviene politico presenta la solita dinamica dei buoni contro i cattivi.
Il grande successo di personaggi come Superman è dovuto al sentimento patriottico che un racconto di un eroe che salva gli indifesi dai cattivi non fa altro che accendere. Non si è fermato al post seconda guerra mondiale dopo aver sconfitto i nazisti, e nemmeno alla guerra in Iraq. In “American Sniper”, per esempio, è ancora molto marcata questa costruzione di un personaggio che va in guerra per la patria dopo aver visto la caduta delle Torri Gemelle per sconfiggere i terroristi brutti e cattivi.
Queste considerazioni vogliono essere neutrali, almeno in questo articolo. Sono necessarie a capire una dinamica frequente nell’industria cinematografica e i motivi per cui questo film è stato fatto così e ora.
Spielberg, Sorkin e le elezioni
L’idea di fare il film sui Chicago 7 non fu di Sorkin. Egli non conosceva nemmeno la storia, finché nel 2006 Steven Spielberg non gli disse di voler produrre un film sui terribili scontri a Chicago nel ’68.
Negli anni il progetto scivolava tra produttori, sceneggiatori e registi senza essere prodotto, scritto e girato. A ogni elezione (2008, 2012, 2016) si dicevano di farlo uscire, convinti inviasse un messaggio importante al corpo elettorale. Non a caso il film è uscito poco prima delle elezioni del 2020. Stessa mossa venne fatta da Sacha Baron Choen con “Borat – Seguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan”, il quale sotto una dose massiccia di umorismo nero vuole affossare l’immagine di Trump.
L’idea la ripropose Spielberg dopo che Donald Trump entrò nella Casa Bianca. Era arrivato il momento di raccontare la storia dei sette che furono vittime di un governo che avrebbe eliminato la loro libertà. “Riporterò in auge l’America in cui sono cresciuto” dice il procuratore generale all’avvocato Schultz.
Sorkin dice in un’intervista di essere rimasto stupefatto davanti agli avvenimenti dell’estate del 2020 dopo il caso Floyd. Vide dei parallelismi che da un lato credeva importanti da far vedere, dall’altro credeva controversi. Chiese se fosse necessario modificare delle scene, ma non fu necessario.
Gli scontri con la polizia ricordano le proteste a Minneapolis. La domanda posta da Schultz: “Chi ha iniziato le rivolte? I manifestanti o la polizia?” ricorda le polemiche sul comportamento scorretto da parte di molti agenti della polizia qualche mese fa. L’intento è anche quello di illuminare una problematica secondo molti ancora presente negli U.S.A.; le cose non sono cambiate. Infatti le scene delle rivolte vengono alternate a filmati reali fatti nel 1968; il regista ha girato le scene negli stessi punti precisi a Chicago per essere suggestive ancora di più quando alternate a fonti storiche.
La commozione fa Oscar
Saper scrivere la storia, un cast compatto e capace (non a caso candidato ai SAGA come miglior cast in un film drammatico), una colonna sonora suggestiva, scene forti, ingiustizie, discorsi penetranti e personaggi tridimensionali; caratteristiche quasi “standard” per arrivare agli Academy Awards. Anch’essi sono politici, la politica si fa ovunque.
Ciononostante è un film di qualità che merita una premiazione, pur essendo per certi versi l’eco di una morale che vuole far commuovere. Forse si può criticare, forse si può elogiare. Dipende da quale prospettiva si adotta per guardare questa “policy” del cinema americano.
Cercando di lasciare a parte la manovra politica che questo film può essere, è una soddisfazione sotto l’aspetto qualitativo, tecnico ed emozionale.
Vedremmo, in un contesto normale, una standing ovation con mezza sala del Dolby in lacrime mentre i produttori ricordano i caduti del Vietnam e i coraggiosi manifestanti di tutte le epoche, facendo venire la pelle d’oca pure a Clint Eastwood. Ma in fondo ci piace ancora vedere questo.