Compreso tra il centro di Lublino e la periferia della città, il campo di sterminio di Majdanek potrebbe ingannare chiunque, eccetto chi ha memoria. Una fattoria, con casette e colline, penserebbero i passanti distratti. Ma tra il 1941 e il 1944, nell’ambito dell’operazione Reinhard, qui si sono consumate la prigionia e l’eliminazione fisica di migliaia di ebrei ed altri innocenti da parte dei nazisti che occupavano la Polonia. Il campo si vede per intero appena scesi dall’autobus che porta fuori città. Duecentosettanta ettari che si racchiudono nello scatto di uno smartphone e che offrono la visione d’insieme del campo che invita i pendolari erranti da un capo all’altro della città a riflettere. Majdanek non era solo un sottocampo dei ben più micidiali Sobibór o Bełżec. La Soluzione finale ebbe luogo qui perché un terzo degli abitanti era di origine ebraica.
Di tutti i sei campi di sterminio nazisti (Auschwitz-Birkenau, Chełmno, Sobibór, Bełżec e Treblinka), quello di Majdanek ha fatto il minor numero di morti – ottantamila – e fu il primo ad essere “liberato” dall’Armata Rossa – che poi lo riciclò come sito di detenzione dei prigionieri di guerra. Qui passarono più di centocinquantamila persone da oltre trenta paesi. All’entrata del campo, un imponente monumento in pietra, collegato da una strada asfaltata al mausoleo a forma di disco, un paio di chilometri più ad Ovest dell’appezzamento. Il lato Sud del campo è murato. Quello a Nord ospita le baracche espositive, ricostruite dalle autorità comuniste tra gli anni Cinquanta e Sessanta per il complesso museale. Eretto nell’agosto 1941, Majdanek venne ultimato nella primavera del 1942. Dunque, esteso nell’estate 1943, quando la Germania era in difficoltà sul fronte orientale. Ma lo sterminio doveva andare avanti. Costasse quello che costasse.
All’inizio della guerra Majdanek doveva ospitare soltanto uomini. Venticinquemila di questi arrivarono poco dopo l’apertura. In seguito, giunsero anche donne e bambini. Il campo fu demolito nel luglio 1944 prima dell’arrivo dei sovietici: i prigionieri furono trasferiti ad Ovest in altri campi di concentramento. Avanzando verso il monumento di pietra rettangolare si vede come il campo sia disposto a ridosso di una collina, che osservata dalla base dà quasi l’impressione di essere infinito. Le torrette di vedetta, infatti, si estendono fino al mausoleo circolare e cingono le quattro sezioni interne del campo. La ricostruzione del campo di sterminio di Majdanek è curata in ogni dettaglio. Difatti, è uno dei meglio conservati nell’universo concentrazionario nazista. Non è il caso di Treblinka e Sobibór, distrutti dai nazisti stessi e che oggi non hanno che qualche targa e monumento alla memoria.
A partire dal lato occidentale del campo si può fare un tour per le baracche e dunque sperimentare la routine giornaliera dei prigionieri. Si comincia con la famigerata baracca 41, la “Baden und Desinfenktion”. Qui i prigionieri venivano rasati e disinfettati. Alla fine della guerra si erano accumulati oltre 730 chili di capelli. Dalla baracca passavano poi nelle camere a gas dove si usava lo Zyklon-B per il soffocamento. Le baracche sono oggi fredde e buie. S’immagini, in tempi di guerra: torride d’estate, gelate d’inverno. La camera a gas della baracca 41 era in pietra, poco più alta di due metri. Serviva a contenere il gas che si riversava dalle docce e raggiungeva i prigionieri tramite un sistema di tubi attaccati al muro. Le SS guardavano i prigionieri morire attraverso lo spioncino della porta blindata.
La baracca 42 serviva allo stesso proposito, ma per le donne. Queste erano sottoposte anche violenze sessuali ed esaminazione delle parti intime. Sul finire della guerra le donne ebree venivano mandate subito nel gas al loro arrivo. Le baracche 43 e 44 erano le “Effektenkammern”, punti di raccolta degli oggetti confiscati ai prigionieri. Oggi queste due baracche ospitano esposizioni fotografiche di come era il campo di sterminio di Majdanek negli anni Quaranta. Nella baracca 62 c’è un centro di documentazione, che grazie alle storie di alcuni sopravvissuti riportate sui muri conducono il visitatore indietro nel tempo e gli fanno rivivere le angosce dei prigionieri. Qui sono esposte lettere, scarpe, fotografie e oggetti personali come spazzolini, pettini e creme. A Majdenek, come negli altri campi nazisti, c’era il problema dell’igiene e del tifo, temuto anche dalle SS.
Il terrore era il denominatore comune dei racconti dei prigionieri. Il memoriale di Majdanek offre ai visitatori la possibilità di portare con sé le foto dei protagonisti della baracca in formato biglietti da visita. Un’idea semplice per non far dimenticare le storie di migliaia di uomini, donne e bambini qui assassinati barbaramente. Un ingegno per stimolare il ricordo e la memoria, mentre si fruga nelle tasche. Nella baracca 52, le scarpe delle vittime presso il campo. Tonnellate di cuoio. Alla fine della guerra oltre 430mila paia vennero trovate in questa baracca. Concluso il settore espositivo si passa dunque al secondo campo, dove vivevano i prigionieri maschi. Molti erano ebrei, ma nel mattatoio di Majdanek erano rinchiusi anche zingari, sovietici, omosessuali e oppositori politici. Venti le baracche in legno disposte in due file.
Solo due sono visitabili oggi. All’inizio della guerra i prigionieri dormivano sulla paglia. Poi vennero costruiti dei letti a castello strettissimi – del tutto inadeguati alle esigenze umane. I lavatoi arrivarono solo nel 1943. Queste baracche dovevano contenere 250 persone – ne ospitavano circa il doppio. Il filo spinato alto due metri era un’assicurazione di prigionia perpetua per le vittime. Dalle torrette di controllo, le SS vigilavano ventiquattr’ore su ventiquattro. Nel quarto campo avvennero diverse esecuzioni di massa. Il quinto era per le prigioniere politiche. Qui oggi sorgono solo rovine in pietra. Avvicinandosi al mausoleo a disco che s’interfaccia al monumento in pietra rettangolare si passa per il forno crematorio. Una baracca scura con un lungo comignolo nero di mattoni che infilza il cielo. Qui lavoravano i kapò, che dovevano mettere i cadaveri dei loro compagni in sei forni.
Nel complesso del crematorio c’erano anche degli uffici amministrativi del campo di Majdanek. Il 22 luglio 1944, le SS diedero fuoco all’intero edificio. Oggi dei fiori davanti alle bocche dei forni ricordano i morti che passarono a migliaia per i camini. E divennero polvere, in un fumo scuro che si confondeva con quello delle ciminiere della città industriale di Lublino. La distruzione del corpo delle vittime prevedeva un ultimo oltraggio: i kapò raccoglievano eventuali denti d’oro dai prigionieri. L’ultimo esproprio criminale forzato. Le ceneri delle vittime poi venivano mischiate ad altri concimi. In seguito, sparse nei terreni come fertilizzante. Parte di questa sostanza grigiastra è conservata nell’imponente mausoleo circolare. Una montagna di terriccio, tra sassolini, ceneri e materiale chimico. La luce oltrepassa i bordi disco, sotto la pietra della cupola.
Il mausoleo a disco e il monumento rettangolare sono collegati da una strada asfaltata che concede il tempo di guardare nuovamente tutto il campo sulla sinistra e riflettere sulle atrocità qui commesse. Poco prima di uscire del complesso del campo di sterminio di Majdanek, ci sono un visitor center e un negozio con i libri sull’Olocausto. Qui, anche un’aula di scuola, con lavagna interattiva e banchi: è questo il luogo e al contempo la cura per evitare tragedie come la Shoah in futuro. Imparare e studiare: capire il passato e non ripetere errori e crimini in futuro. Solo l’istruzione, la conoscenza, la curiosità, l’informazione accurata, l’interesse attivo delle persone possono fermare la macchina della morte. Oggi come allora. La trasmissione della memoria può impedire le Majdanek dei giorni nostri.
Amedeo Gasparini
Molto interessante la descrizione e toccante. Lo visiterò domani. Grazie per il lavoro fatto.