Una pioggia di critiche e impressioni decisamente poco ottimistiche. Questa fu la reazione generale all’annuncio, ad aprile scorso, di Dario Franceschini, del lancio imminente di ItsART, nuova frontiera dello streaming italiano. Eppure, io dico, c’era, e c’è ancora, del buono in quest’idea di un Netflix della cultura.
Ecco però, partiamo invece dalle criticità, perché sono diverse. Almeno ci togliamo la ghiaia dalla scarpa velocemente. Per seguire un filo logico, durante il ragionamento ci riferiremo a questo articolo, uscito pochi giorni fa su “Il Post”, sviscerandolo assieme.
Numero uno: l’obiettivo. “Offrire a tutto il mondo la cultura italiana”. Bene, sulla carta. Ma a me fa sempre ridere come il primo investimento debba sempre partire dall’utente e non dall’offerente.
Che il mercato, anche della Cultura, sia composto da una domanda e da un’offerta è cosa ovvia, ed è sacrosanto che sia così. Ma l’equilibrio in Italia mi sembra leggermente sbilanciato, e da un bel po’ di tempo. E se è vero che la cifra prevista dal Governo per il rilancio Culturale nel Recovery Fund ammonta ad euro un miliardo o giù di là, in totale (!), beh, che non si lamentino se la gente comincerà a darsi alla macchia. Che ci dovremmo fare? Sanificare i teatri?
La Cultura Italiana non ha certo bisogno di rinnovare la sua domanda. Fortunatamente possiamo vivere di rendita su questo fronte. L’ospite estero in “viaggio studio” non sparirà mai, così come non si sposteranno i monumenti e i musei.
Diversa questione sono la “manutenzione ordinaria” e lo sguardo al futuro, al momento entrambi non pervenuti. Francamente non mi aspetto grosse inversioni di rotta a breve, ma sarei il più felice del mondo venissi contraddetto.
Numero due, una riflessione leggermente più aeriforme. Se questa piattaforma deve essere un ennesimo stratagemma per alimentare i “giganti” culturali italiani, teatri, fondazioni e quant’altro, e abbandonare a loro stesse le piccole realtà intermedie, passo grazie.
Se l’ambiente culturale del nostro paese ha un problema serio è la mancanza dei gradini centrali sull’ipotetica scala della crescita professionale in ambito intellettuale. Non esiste nulla, o quasi, tra lo stadio scolastico (Conservatori, Accademie,…) e i grandi palcoscenici.
Ottenuta la laurea si piomba in un limbo tremendamente angosciante, tra audizioni, chiamate a progetto e impossibilità di farsi anche il minimo programma di vita. C’è bisogno di nuovi contesti in cui lavorare, in cui far lavorare gli artisti. Non serve a nulla farsi il mazzo per anni, per poi perdere confidenza col proprio mestiere, o peggio ancora, dover cambiare stato per mancanza di opportunità.
Vorrei che ItsART diventasse un faro per incentivare anche questo tipo di investimento. E allora sarei un uomo felice.
Numero tre, sulla falsa riga del due.
Recita “Il Post”: “L’idea prevede dunque che, almeno in una prima fase, ITsART aiuti a promuovere enti, eventi, opere o spettacoli di ogni tipo, mettendo «un’asticella sulla qualità» dei contenuti che sceglie di ospitare“. Mi stuzzica l’idea della promozione, un po’ molto meno quella dell’asticella. Mi puzza molto, come già detto, di solo iniziale sguardo alla realtà generale, per poi virare convintamente in direzione dei “soliti” grandi nomi.
Se è il publisher a stabilire i requisiti minimi, come si può pretendere di avere un rilancio del settore? L’unico effetto che sortirebbe da questo approccio, a parer mio, sarebbe una stagnazione ancora più evidente, un inspessimento ulteriore della già colossale differenza tra “eminenze” e “sottostanti”.
Forse sarebbe il caso di dare fiducia ai contesti emergenti, di stabilire una solida base su cui basare il rilancio tanto paventato, nei prossimi anni.
Per ottenere risultati mai conseguiti, bisogna prendere provvedimenti mai adottati.
In ogni caso, fossi il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, mi rifiuterei con fare particolarmente offeso, dovessi ricevere direttive sugli standard dall’imprenditoria televisiva. Non fatemi continuare o si entra in un giro di schiaffi.

Rimangono poi numerose incertezze.
Il catalogo, come lo chiama “Il Post”, ovvero l’effettiva offerta di programmi. Raiplay potrebbe dare, a mio parere, un buon La alla discussione in merito. Quello che fa la piattaforma digitale della Rai, ammettiamolo, è il minimo indispensabile. Pochissimo, se non nulla totale, in diretta, un parco eventi non ricchissimo e nascosto in libreria, disponibile alla visione in qualunque momento. Se davvero si vuole equivalere a Netflix, come il Ministro ha prospettato, e offrire un vero servizio rivoluzionario, bisognerà puntare a spron battuto sulle dirette, senza badare a spese.
Ci sono poi le diatribe relative alle pubblicità, che non possono e non devono essere invasive nei confronti dei contenuti, o poste geograficamente senza criterio, e alla coesistenza di ItsART e Raiplay. Sulle prime, d’accordo le esigenze economiche, ma non è impossibile trovare compromessi adeguati. Sulla seconda, non vedo perché no, purché sia limitata a una fetta esigua dei programmi, ed entrambe le piattaforme richiedano una quota di affiliazione. Del resto pare scontato. O entrambe o nessuna, quantomeno per evitare grottesche situazioni di conflitto di interessi.
Ma veniamo ora alle potenzialità della questione.
C’è sicuramente uno sforzo per diminuire la distanza tra editoria televisiva e compagini artistiche, questo va rilevato. Il fatto che si pubblicizzi che la Prima della Scala possa venir vista dovunque lascia il tempo che trova, secondo me. Il problema non è la Prima, ma la seconda, terza e successive.
Nell’ultimo anno abbiamo sperimentato che davvero se non ci fossero state le tecnologie l’Arte in italia avrebbe subito molto più di quando non abbia in effetti. E’ giusto quindi farsi un esame di coscienza, e capire che nel futuro dell’identità culturale del nostro paese debbano esserci anche forme di condivisione tecnologica del patrimonio. Qualcosa già è stato realizzato, ma bisogna ancora una volta sfoderare l’immancabile “non abbastanza”.
In ogni contesto in cui sono presenti, le collaborazioni fruttuose tra gruppi performativi e media di diffusione in tempo reale o quasi, hanno dato vita a fenomeni di squassante impatto. Numeri alla mano, lo sport statunitense, dove i contratti con le televisioni raggiungono cifre esorbitanti, rappresenta il perfetto esempio di come il pubblico si possa raggiungere e conquistare benissimo senza che sia presente fisicamente.
Certo, per renderlo possibile in Italia ci vorranno tavoli e discussioni serie nell’immediato, visione a lungo termine e soldi (un mucchio), non articoli farciti di condizionali o improsciuttamenti di occhi e orecchie. E nemmeno si può pensare che le cifre finali siano le stesse d’oltreoceano. Perchè si sa, di là tutto e grande, tutto è grosso. Ma questo potrebbe essere un ottimo primo passo.
In più voglio mostrare un cauto ottimismo per la partecipazione dello Stato in questo progetto. Normalmente non so se l’avrei fatto, ma esistono sempre le eccezioni. Infatti il capitale di ItsART sarà di competenza per il 51% di Cassa Depositi e Prestiti, la società, controllata dal Ministero dell’Economia, con in mano gli investimenti statali. Essa si appoggerà poi a Chili, colosso della distribuzione digitale con sede a Milano, per l’effettiva creazione del piano. Le firme in calce al disegno sono quindi di grande valore, e potrebbero lasciar ben sperare.
Menzione d’onore poi per il nome. A differenza di diverse proposte degli anni passati, con un ruolo simile a quello che si prefigge di avere essa stessa, ITsART centra almeno il bersaglio “nome accattivante”. Accantonati i vari verybello.it o Italia.it, che, come direbbe Briatore: “Mi dispiace, sei fuori dal sogno”, spazio a un minimo di estro.
Ci sarebbe davvero bisogno di una spruzzata di novità in campo cultura. Quanto meno per risollevare il morale. ITsART, nonostante ancora non offra certezze, si trovi in stato pre-embrionale e presenti numerose crepe, se non altro si dimostra promettente. Non rimane che attendere nuovi sviluppi, sperando in tempistiche umane.
Nel frattempo, un momento di emulazione. Divano, popcorn e Lupìn (…signori ci sta, è davvero godibile).