Secondo la stima dell’Eurostat l’inflazione annuale nell’Eurozona nel mese di giugno ha segnato un +1,9% rispetto al +2% stimato a maggio. L’inflazione core (che esclude i beni dal prezzo volatile, come alimentari ed energia) ha registrato un +0,3% mentre l’inflazione armonizzata (che permette di determinare l’andamento complessivo dell’Eurozona) ha confermato il +0,9% del mese precedente. L’obiettivo della Bce è un aumento dell’inflazione ad un ritmo inferiore ma prossimo al 2% nei dodici mesi nel medio termine. Con il procedere delle vaccinazioni e l’avvio del Next Generation Eu le economie europee sono pronte a ripartire. In questo momento i mercati finanziari guardano con interesse alle future scelte della Bce, chiamata a decidere tra un mantenimento dell’orientamento espansivo o una stretta monetaria per evitare che l’inflazione vada fuori controllo.
LAGARDE FALCO O COLOMBA?
Già prima dell’arrivo della pandemia la Bce non è riuscita a centrare il target inflazionistico, nonostante il quantitative easing lanciato da Mario Draghi e mantenuto, seppur ridimensionato, da Christine Lagarde. A seguito dell’impatto devastante della crisi sanitaria sull’economia, nonostante qualche iniziale tentennamento, la Bce ha varato il prezioso Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), da 1.850 miliardi di euro. Il 21 giugno, in audizione presso il Comitato per gli Affari economici e monetari del Parlamento, la Lagarde ha affermato che l’inflazione è aumentata negli ultimi mesi nell’area dell’Euro, in gran parte a causa di fattori temporanei, tra cui forti aumenti dei prezzi dell’energia. L’inflazione complessiva dovrebbe aumentare ulteriormente verso l’autunno, continuando a riflettere fattori temporanei e una stretta monetaria sarebbe prematura.
Dunque, almeno per i prossimi mesi, l’orientamento della Bce rimarrà espansivo, per portare l’inflazione stabilmente al livello obiettivo ed evitare un precoce intervento che minerebbe la ripresa dell’economia. In questa fase occorre con cautela guardare all’inflazione, monitorando l’andamento dei prezzi più volatili di quei beni la cui domanda attualmente supera l’offerta, in una fase di riavvio delle produzioni e di fisiologico incremento della domanda di consumi. Inoltre, per la politica monetaria è più facile frenare l’inflazione che stimolarla, soprattutto se i tassi di interesse nominali sono prossimi allo zero o negativi.
Se il motore dell’economia europea non fosse ancora in grado di procedere autonomamente, una politica monetaria restrittiva potrebbe avere ripercussioni negative sul Pil e allontanare l’obiettivo dell’inflazione prossima al 2%. Inoltre, l’aumento anticipato dei tassi di interesse comporterebbe un aumento del costo del debito per famiglie, imprese e governi. Nel peggiore dei casi l’Eurozona andrebbe verso la deflazione. A quel punto la Bce non avrebbe molte altre frecce al proprio arco, escludendo le soluzioni poco credibili dell’helicopter money o della monetizzazione dei debiti pubblici.
COSA STA FACENDO LA FED
Negli Usa lo scenario è molto diverso. A maggio l’inflazione su base annuale ha segnato un +5% (inflazione core +3,8%). Il piano di investimenti pubblici dell’amministrazione Biden, la politica accomodante della Fed, il rincaro delle materie prime e le richieste salariali rialziste nel mercato del lavoro post-pandemia sono alcuni dei principali fattori che stanno determinando un così elevato livello dell’inflazione. I mercati finanziari temono una spirale prezzi-salari ed una erosione del rendimento reale dei bond di stato americani.
Joe Biden ha da poco ottenuto un accordo bipartisan sul piano per le infrastrutture da 1.200 miliardi di dollari, mentre l’economia americana è ripartita, o meglio, non si è mai davvero fermata. A maggio 2021 il tasso di disoccupazione è stato del 5,5%, contro il 13% di maggio 2020 e nel primo trimestre di quest’anno il Pil ha segnato un +6,4%. Per il momento la Fed sta mantenendo un orientamento espansivo attraverso il quantitative easing.
A differenza della Bce, la Fed non contempla l’opzione dei tassi negativi, considerati dannosi per il corretto funzionamento del mercato. Da agosto 2020 la banca centrale americana adotta l’average inflation targeting, ovvero un’inflazione in media al 2% nel tempo, dopo aver abbandonato l’obiettivo del 2% nei dodici mesi. La Fed intende indirizzare la politica monetaria verso il raggiungimento della piena occupazione. In base alla nuova regola, la banca centrale può mantenere i tassi di interesse bassi anche nel caso in cui l’inflazione dovesse superare il 2%. Tuttavia, i mercati guardano al surriscaldamento dei prezzi come sintomo della ripresa economica e attendono la stretta monetaria. Ma al momento non pare essere ancora all’ordine del giorno sul tavolo del Consiglio della Fed che considera transitorio il fenomeno inflazionistico.
IL CONTROLLO DELLE ASPETTATIVE
Sul controllo dell’inflazione le banche centrali si giocano credibilità e reputazione. In più sulla Bce grava l’onere di essere “the only player on the field”, in attesa di una politica fiscale federale. Attraverso operazioni di mercato aperto, tassi di policy e base monetaria le banche centrali devono conseguire la stabilità dei prezzi e intervenire con misure espansive o restrittive a seconda della fase del ciclo economico. Come già detto in precedenza, è più facile frenare l’inflazione che stimolarla, ma occorre anche tenere conto delle aspettative sui prezzi futuri.
Secondo la teoria monetarista le aspettative sui prezzi futuri incidono sulla fissazione dei prezzi e sulle richieste salariali. Un aumento dell’inflazione attesa comporta un aumento del costo opportunità atteso del detenere moneta. Ciò implica la diminuzione della domanda di moneta e l’eccesso di liquidità induce i soggetti ad accrescere la domanda di consumi e investimenti. In presenza di piena occupazione, l’aumento della domanda comporta un aumento dell’inflazione.
Tutto ciò parte dalle aspettative rialziste sull’inflazione attesa. Ecco perché è fondamentale che una banca centrale ponderi con estrema attenzione dimensioni, timing e comunicazione degli interventi monetari.
KEYNES E I MONETARISTI
A differenza dello schema monetarista, attualmente l’Eurozona non è in regime di piena occupazione. Il mercato del lavoro è in una condizione di squilibrio. Secondo Keynes in presenza di disoccupazione occorre svalutare il salario reale attraverso un aumento dell’offerta di moneta. La riduzione del salario reale spinge le imprese ad aumentare la domanda di lavoro, fino al punto in cui questa eccede l’offerta, generando in ultima istanza un aumento dei salari nominali e reali tale da riportare il sistema economico al livello di output in piena occupazione. Secondo i monetaristi, invece, la moneta è neutrale, in quanto ogni decisione di aumentare l’inflazione nel sistema è assorbita dalle aspettative degli operatori in base alle quali adeguano prezzi e salari.
Di conseguenza, l’unico modo per rendere efficace l’espansione monetaria è una spirale inflazionistica. Il che inficerebbe la credibilità della banca centrale. Una manovra monetaria espansiva, se di intensità eccessivamente pronunciata o non tempestiva, potrebbe indurre nei soggetti un aumento delle aspettative inflazionistiche e ciò può portare ad aumento dei tassi di interesse a lungo termine, anziché una diminuzione.
Questo è il principale rischio che le banche centrali si troveranno ad affrontare nei prossimi mesi. In caso invece di un aumento anticipato dei tassi di interesse il rischio è quello di sacrificare la crescita dell’output al fine di contenere l’inflazione. Le conseguenze immediate si avrebbero sulle finanze pubbliche (l’Italia sarebbe più esposta di altri Paesi) e, in particolare, sui titoli di stato a scadenza da rinnovare ai nuovi tassi di interesse. Il mandato della Fed fissa il duplice obiettivo della piena occupazione e della stabilità dei prezzi. Con l’adozione della nuova regola, la banca centrale americana ha deciso di dare priorità al primo obiettivo.
Il mandato della Bce, invece, si fonda esclusivamente sulla stabilità dei prezzi e costituisce una garanzia di credibilità per la banca centrale. Ma presto la Lagarde si troverà dinanzi ad una scelta decisiva per il futuro dell’Eurozona. Fino a che punto sarà disposta a spingere sull’acceleratore dell’inflazione al fine di sostenere attivamente la crescita dell’output dell’area? Tra falchi e colombe, la partita è aperta.