Neil Ward, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

LA STELLA DI DAVID E L’ARCOBALENO: ISRAELE E LA COMUNITÀ LGBT

13 Giugno 2022

La settimana appena trascorsa ha visto lo svolgersi di una delle manifestazioni pubbliche più celebri e partecipate di Israele: l’annuale parata del Pride di Tel Aviv, che ha chiamato a raccolta oltre 170.000 persone da tutto il Paese per le strade di quella che è la sua città più vivace e dinamica. Tel Aviv, d’altronde, è la celebrazione della diversità come ricchezza e ne ha fatto un suo tratto caratteristico in tutte le sue espressioni. Lontana dall’ispirazione spirituale e messianica della capitale, Gerusalemme, Tel Aviv è il trionfo della laicità e della cultura liberal dello Stato di Israele e ospita ormai da anni uno dei Pride più celebri e partecipati del mondo, a cui partecipano rappresentanti del governo israeliano di tutti i livelli (a cominciare dal ministro degli Esteri e alternate Prime Minister Yair Lapid). Quello di Tel Aviv, peraltro, non è l’unico Pride, dato che anche Gerusalemme ospita ormai da diversi anni una parata, più contenuta nell’affluenza di partecipanti e che avviene in condizioni di contesto ben diverse a causa del diverso orientamento politico generale della società gerosolimitana.

Israele è un unicum in Medio Oriente: unico Paese in cui le bandiere arcobaleno sventolano di fronte ai palazzi governativi, unico Paese in cui le condizioni di vita delle persone LGBT sono equivalenti a quelle delle società occidentali, in cui il Pride non è fatto contestato ma ragionevolmente consolidato nell’immaginario pubblico. In Israele, dove la mancanza dell’istituto del matrimonio civile è oggetto di enorme dibattito, i matrimoni omosessuali contratti all’estero sono riconosciuti, la stepchild adoption e la gestazione per altri sono esercitabili e il diritto consuetudinario ha progressivamente allargato alle coppie omosessuali i diritti riservati alle coppie eterosessuali: anche se il matrimonio civile non esiste, dunque, dal carattere “di fatto” dell’esistenza nota della coppia discendono diritti esercitabili in termini di eredità, pensioni e misure di assistenza sociale, anche se rimane necessaria e urgente una vera e propria legislazione del Parlamento in materia affinché ciò non diventi appannaggio degli orientamenti (talvolta configgenti) delle corti. Straordinariamente rilevante, inoltre, è il caso delle Forze di difesa israeliane, dove l’eliminazione di ogni restrizione riguardante gli omosessuali in servizio militare è un fatto ormai dai tempi di Yitzhak Rabin (1993), ben prima che Barack Obama abrogasse il don’t ask don’t tell. Per quanto riguarda le persone transessuali, esse servono apertamente nell’esercito e le politiche stanno progressivamente cambiando per venire incontro ai loro bisogni, da quelli legati alla residenza e all’uso dei bagni a quelli legati ai trattamenti sanitari (i.e. terapie ormonali), i cui costi sono coperti dall’esercito stesso. Per quanto riguarda le coppie dello stesso sesso, invece, queste sono pienamente riconosciute dall’esercito in termini di pagamento dei congedi parentali in caso di figli, pagamento di borse di studio riservate ai figli dei militari, pagamento dei sussidi in caso di morte del partner. Tutto ciò, lungi dall’essere l’unica realtà all’interno delle forze armate, fa di Tsahal (il nome comunemente utilizzato per riferirsi all’esercito israeliano) uno degli eserciti più LGBT-friendly del mondo

Naturalmente esistono anche forti contraddizioni: il carattere estremamente segmentato della società israeliana, spesso divisa per blocchi difficilmente “contaminabili” nel più ampio amalgama della maggioranza, crea alcune zone d’ombra che devono essere ancora adeguatamente gestite dalle istituzioni. La comunità araba d’Israele, da un lato, e quella haredi (i cd. “Ebrei ultraortodossi”), dall’altro, sono forse i due gruppi più impermeabili all’accettazione piena del mondo LGBT. Sebbene vi siano dei tentativi di aiutare i giovani arabi che vengono emarginati nei propri contesti di riferimento per la propria identità di genere o orientamento sessuale, la società araba dello Stato ebraico ha ancora da fare molti passi avanti per raggiungere uno standard accettabile di apertura alle istanze della comunità LGBT. Nel corso degli anni sono state aperte case rifugio per gli arabi LGBT d’Israele e le ONG del Paese hanno attivato numerosi servizi dedicati specificamente a loro, a cominciare dalle hotline per l’assistenza di emergenza, ma i temi LGBT nel settore arabo della società israeliana rimangono molto spesso un tabù. Difficoltà, infine, esistono anche nel settore ebraico della società, anche se la stragrande maggioranza ha – come abbiamo detto – fatto i conti con l’accettazione della comunità LGBT: è il caso, ad esempio, delle frange più religiose e minoritarie della società ebraica di Israele, che si dimostrano ampiamente intolleranti anche delle manifestazioni pubbliche di orgoglio LGBT come nel caso del Pride di Gerusalemme, che avviene sotto attento monitoraggio delle forze di sicurezza al fine di sventare possibili attacchi ai partecipanti.

Vi è poi la dimensione del conflitto israelo-palestinese. Molti, soprattutto in occidente, definiscono  “pinkwashing” la strategia di Israele nei confronti della comunità LGBT, vista come un tentativo di irretire l’opinione pubblica internazionale sui temi (molto sentiti, invero) dei diritti civili di omosessuali, bisessuali e transessuali per distogliere l’attenzione dalle scelte che Israele prende nella gestione del conflitto con i palestinesi. In questo senso, tutto quello che è stato fin qui descritto non sarebbe frutto di una dinamica evolutiva in una società plurale governata entro regole democratiche, ma di una precisa strategia di cancellazione del problema dei palestinesi dal dibattito attraverso scelte scientemente compiute dai governi di Israele. Questa teoria, sulla cui ragionevolezza è lecito porre più di una questione, ha dei problemi intrinsechi che è bene evidenziare. Innanzitutto, questa legge le dinamiche interne di Israele soltanto attraverso la lente del conflitto con i palestinesi, dimenticando che una società plurale, frutto di immigrazione e ibridazione delle culture, con una società civile forte e strutturata e regole di elezione del potere pienamente democratiche, necessariamente non può essere osservata soltanto attraverso strumenti di lettura monodimensionali. In secondo luogo, nega totalmente l’esperienza della comunità LGBT israeliana, le sue battaglie per l’emancipazione, il suo percorso di affermazione nella società, la sua esperienza di vita quotidiana: d’altronde, se un contesto socio-istituzionale favorevole alla comunità LGBT viene ridotto ai minimi termini a uno specchietto per le allodole, si finge di non vedere come tale contesto abbia conseguenze sulla vita di migliaia di persone. Infine, l’adozione di una simile spiegazione è la negazione in essenza del concetto di universalità dei diritti umani, giacché – nella sua critica alle politiche di Israele sul tema – dismette la rilevanza oggettiva e universalmente valida della tutela dei diritti della comunità LGBT, dal momento che Israele è l’unico Stato a tutelare la comunità LGBT in una regione (quella mediorientale) ancora largamente oppressiva nei confronti di queste minoranze. Un approccio che accoglie più sfumature, invece, dovrebbe essere in grado di esprimere valutazioni di merito sulle politiche nei confronti dei palestinesi senza necessariamente voler cancellare la complessità di una società enormemente ricca e variegata, in cui gli sforzi di emancipazione degli israeliani omosessuali, bisessuali, transessuali devono poter trovare riconoscimento e solidarietà anche internazionali. Tutto ciò, peraltro, potrebbe avere anche una sua dimensione di sostegno ai palestinesi, perché permetterebbe di gettare una luce sugli sforzi che le ONG israeliane fanno per accogliere e offrire assistenza ai palestinesi appartenenti alla comunità LGBT, costretti a fuggire dai Territori palestinesi per paura di persecuzioni in ragione del proprio orientamento sessuale o identità.

Come sempre, quando si parla di Israele, l’universalizzazione di ciò che suscita indignazione (a torto o a ragione) finisce con il cancellare completamente tutto ciò che non può essere letto entro la prospettiva dell’osservatore interessato al conflitto israelo-palestinese. Così facendo, le brutture diventano mali archetipici, le storture e le criticità di tutte le dimensioni di una società vengono esacerbate e trasformate in peccati originali, e ciò impedisce di vedere il quadro completo. Così, nel capovolgimento più assurdo che io abbia mai visto, un Paese in Medio Oriente che ha un buon livello di tutela delle vite e delle esistenze delle minoranze LGBT diviene oggetto di continui tentativi di delegittimazione radicale. Resta solo da chiedersi cosa ne sarebbe di chi è stato accolto e trova diritto di cittadinanza in Israele (gli ebrei sopravvissuti alla Shoah, gli ebrei fuggiti dalle persecuzioni di matrice araba o islamica in Medio Oriente, gli appartenenti alla comunità LGBT di quel Paese a cominciare da quelli arabi) se Israele smettesse semplicemente di esistere come taluni vorrebbero.

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