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LE MOSSE DELLA BCE, I RISCHI PER L’ITALIA E L’INFLAZIONE AMERICANA

9 Febbraio 2023

Nella riunione di febbraio il Consiglio direttivo della BCE ha deciso di aumentare i tre tassi policy di 50 punti base e anticipato un ulteriore aumento a marzo. Gli acquisti dell’Asset Purchase Programme (APP) termineranno ufficialmente a fine mese e Francoforte ridurrà di 15 miliardi di euro al mese il volume dei reinvestimenti dei capitali rimborsati dai titoli in scadenza, mentre il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) e il Transmission Protection Instrument (TPI) resteranno a far parte della cassetta degli attrezzi di Francoforte per contrastare il rischio di frammentazione dell’Eurozona.

Inflazione in calo, ma il target del 2% è lontano

Il Consiglio direttivo ha deciso di aumentare di 50 punti base i tre tassi di riferimento della politica monetaria. Si tratta del quinto rialzo da luglio 2022, quando Christine Lagarde decise di aumentare i tassi di 50 punti base per contrastare l’aumento dei prezzi, per la prima volta dopo 11 anni di politica monetaria accomodante. Manovrando i tassi di interesse, le banche centrali puntano ad influenzare la formazione dei tassi bancari e le aspettative di inflazione degli operatori economici nel medio-lungo periodo. L’obiettivo finale della BCE è il mantenimento della stabilità dei prezzi ad un tasso di inflazione medio del 2%. Dunque, la banca centrale guarda all’andamento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo per decidere se aumentare (politica restrittiva) o ridurre (politica espansiva) i tassi di interesse. Le stime preliminari dell’Istat ci dicono che a gennaio 2023 è aumentato dell0 0,2% su base mensile e del 10,1% su base annua, in calo rispetto all’11,6% del mese precedente. Calano i prezzi di beni energetici regolamentati dal +70,2% al -10,9%. Nonostante il rallentamento dell’inflazione è evidente che siamo ben oltre il target del 2%. Di conseguenza, la BCE intende continuare a contrastare l’inflazione aumentando il costo del denaro al fine raffreddare l’economia ad un livello socialmente accettabile, misurabile dal “tasso di sacrificio”, ovvero l’indicatore che misura la percentuale di PIL reale annuale che una banca centrale è disposta a sacrificare pur di ridurre l’inflazione di un punto percentuale.

Il Quantitative tightening

A partire da febbraio e fino a giugno 2023, la BCE ridurrà il volume degli acquisti mensili dell’APP di 15 miliardi di euro al mese (quantitative tightening), al fine di contribuire alla normalizzazione della politica monetaria. Nell’ultimo decennio il bilancio dell’Eurosistema si è ampliato a dismisura raggiungendo proporzioni record (parliamo di quasi 9.000 miliardi di euro). Nell’ordine, la crisi dei debiti sovrani, un decennio di crescita economica modesta e scarsa inflazione e gli effetti della pandemia sui mercati finanziari hanno costretto la BCE a mantenere tassi di interesse in territorio negativo al fine di incentivare le banche ad erogare credito e consentire agli stati più fragili dell’eurozona (Italia, Grecia) di collocare sul mercato i titoli di stato a tassi più contenuti rispetto a quelli che il mercato avrebbe scontato in condizioni ordinarie. Ora che l’inflazione è tornata sui livelli dei primi anni Settanta, la musica è cambiata. L’Eurosistema (composto dalla BCE e dalle banche centrali dei paesi che hanno adottato l’euro) continuerà a reinvestire solo in parte il capitale rimborsato a scadenza. Semplificando, la banca centrale re-immetterà nel sistema solo una parte dei suoi guadagni.

L’Italia è a rischio?

Nelle ultime settimane ci sono state alcune esternazioni da parte di membri del governo italiano contro le decisioni della BCE. Senza richiamare l’articolo 130 del TFUE circa l’indipendenza della banca centrale dai governi nazionali, tali scivolate sono sintomo sia di una scarsa sensibilità istituzionale che di un vero e proprio complesso di inferiorità del nostro paese. Anche se l’Italia ha un debito pubblico abnorme (e questo è un problema che dovrà prima o poi essere seriamente affrontato), non è detto che senza gli acquisti della banca centrale non sia in grado di garantire la sostenibilità del proprio debito. In primo luogo, poiché ciò dipende dalla disciplina di bilancio e dall’affidabilità dell’esecutivo. Secondo, durante gli anni di pandemia la BCE ha introdotto due nuovi strumenti per contenere il rischio di un attacco speculativo sui debiti pubblici europei, ovvero il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) e il Transmission Protection Instrument (TPI). Nell’ambito del primo, Francoforte ha messo sul piatto acquisti di titoli pubblici e privati per 1.850 miliardi di euro fino alla fine del 2024. Questi acquisti sono flessibili, ovvero la BCE si riserva di scegliere nel corso del tempo in che misura e dove allocare gli acquisti. Il secondo, anche detto “scudo anti-spread”, consiste nella possibilità di finanziare paesi in difficoltà finanziaria acquistando titoli di stato con scadenza compresa tra 1 e 10 anni, in cambio del rispetto di precise condizionalità. Guardando ai fatti, affermare che la BCE sia eccessivamente aggressiva (hawkish) non ha ragion d’essere.

I tassi reali e l’inflazione americana

Economisti, investitori ed esperti si stanno confrontando energicamente sul se e sul come andrebbe contrastata l’inflazione. La Lagarde ha commesso degli errori di comunicazione? I modelli previsionali ed econometrici non hanno funzionato? La stretta monetaria è arrivata troppo tardi e dobbiamo prepararci ad una recessione? Oppure si dovrebbe lasciar correre l’inflazione e aspettare che il mercato raggiunga autonomamente una nuova posizione di equilibrio? Non ho la sfera di cristallo e al momento ho difficoltà a prendere una posizione netta sul tema. Mi limito a fare due considerazioni rispettivamente sui tassi reali e sul parallelo con l’inflazione americana. Ad oggi i tassi di interesse reali (quelli al netto del tasso di inflazione) sono ancora bassi, mentre l’andamento inflazionistico europeo segue di sei mesi quello americano. Negli USA la riduzione dell’offerta aggregata e i generosi sussidi all’economia delle amministrazioni Trump e Biden hanno contribuito a surriscaldare la domanda in un regime di piena occupazione, nonostante la grande carenza di manodopera sempre più costosa. La FED è decisa ad intervenire per contrastare la spirale prezzi-salari. In Europa la situazione è ben diversa. Subiamo infatti un’inflazione da importazione. La guerra in Ucraina è stata la ciliegina sulla torta di un rincaro energetico avviatosi dalla primavera del 2021. Gli analisti della BCE (e prima quelli della FED) avevano valutato transitorio tale fenomeno. E qui starebbe l’errore che molti imputano alle banche centrali. Gli economisti keynesiani Paul Krugman e Joseph Stiglitz continuano a sostenere che si tratti di una fase passeggera e in parte i dati danno loro ragione, ma solo con riferimento al contesto americano. In Europa solo ora l’inflazione core (quella strutturale che non considera i prezzi di energia e alimentari) sta scontando i rincari energetici del semestre scorso (mentre tra qualche mese l’inflazione core potrà scontare il calo attuale dei prezzi energetici) e vi è una sola politica monetaria per 20 economie differenti. Prendiamo ad esempio la spirale prezzi-salari. Questa è presente soltanto in alcune regioni. In Francia o in Belgio gli stipendi sono più indicizzati all’inflazione rispetto all’Italia. A parità di altre condizioni, una rata del mutuo più cara, a seguito dell’aumento dei tassi variabili, non ha lo stesso effetto su tutti i mutuatari europei. Tornando al contesto macro, infine, il rischio è che buona parte di questa inflazione non sia affatto transitoria, bensì che possa divenire strutturale. Il reshoring industriale in Occidente come conseguenza dell’inasprirsi delle tensioni geopolitiche, gli ingenti sussidi pubblici connessi e il potenziale ritorno a pieno regime dell’economia cinese dopo un 2022 deludente potrebbero generare un cocktail inflazionistico al quale le banche centrali dovranno porre grande attenzione.

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