Più passano gli anni e più divento nazional-popolare. Erano i tempi del liceo e c’ero io, un audace bamboccio con l’obiettivo di cambiare il mondo, un bamboccio che disprezzava il Festival di Sanremo, e non poco, tantissimo.
Fulminavo all’istante chiunque osasse farmi quella maledetta domanda in quella maledetta settimana: «Hai guardato Sanremo?». Sanremo? Ma quale Sanremo, rispondevo io, ma stiamo mica scherzando? Ma quante volte ve lo devo dire che non mi occupo di queste cose frivole?
Mi sentivo un ragazzo dall’intelligenza sopraffina nel non omologarmi alla massa. «Sanremo? Un paese di musichette mentre fuori c’è la morte», ripetevo compiaciuto tra me e me, guardando dall’alto in basso e con immenso sdegno chiunque sentissi chiacchierare del Festival nei corridoi della scuola. Insomma, a diciott’anni anni ero enormemente scemo.
Non che non lo sia tuttora, intendiamoci, ma il me diciottenne era un tipo diverso di scemo, quello peggiore: lo scemo che si sente genio. Quello con le Clarks, il maglioncino sdrucito e il pantalone di velluto a coste (tutte cose che a Bologna si indossano quotidianamente, fate voi i vostri calcoli). Quello che si sente alternativo, brillante, filosofo, e invece purtroppo è solo idiota. E io ero solo idiota.
Su Sanremo, come su altri programmi, come su tutto ciò che avevo attorno, mi cimentavo in raffinate analisi di tipo sociologico (la sociologia è la materia per eccellenza dei comunisti: pensate voi!). Astraevo, cercavo dei significati celati e terribili – e la società, e il conformismo, e avete letto Horkheimer e Adorno? – per qualcosa di così semplice, tangibile e meraviglioso: le famiglie riunite davanti alla tv; le canzoni, che alla prima serata dici ma che schifo e all’ultima sono le tue best hits del nuovo millennio; i commenti sugli outfit a dir poco agghiaccianti (roba che l’anno scorso c’era Truppi che cantava in canottiera ed era quello vestito meglio); e poi Amadeus, gli ospiti, i duetti, le co-conduttrici (guai a chiamarle vallette, o tutti ti guarderanno come avessero di fronte un gerarca nazista) e tanto, tanto altro.
Adesso però basta parlar male di me, perché il me diciottenne poi si è evoluto, è maturato, ha abbandonato la rivoluzione. A questa mia crescita personale ha senz’altro contribuito il Festival di Sanremo: ricordo che tutto è cominciato quell’anno in cui ho dato un’occhiata alla serata finale, «solo perché non c’è altro in tv» avevo detto, povero ingenuo. L’anno dopo ho deciso di seguirlo, ma sempre fingendo non mi coinvolgesse, quasi lo guardassi controvoglia, sbuffando. Poi è diventata un’ossessione.
Tipo che l’anno scorso mi hanno messo l’asta di riparazione del fantacalcio nella serata dei duetti ed è stato un trauma talmente grande che ci ripenso ancora oggi.
Tipo che quest’anno, martedì scorso, ho comprato TV Sorrisi e Canzoni – probabilmente l’unica copia venduta a un under 60 – e mi sono sparato avidamente tutti i testi in anteprima di tutte le canzoni in gara (Grignani niente male).
Tipo che ieri ho avuto la premura di fare una ricarica telefonica per poter votare, perché qui tocca fare la differenza, perché qui, come dicono gli attivisti di sinistra per qualsiasi fatto a loro sgradito, chi è indifferente è complice.
Qualcuno chiama quella di Sanremo «la settimana santa»: a me non piace farlo perché mi sembra irrispettoso (e qui penso di nuovo al me, scemo diciottenne, che questionava insolentemente col prof di religione: se tornassi indietro mi prenderei a schiaffoni da solo).
Quindi va bene, non è la settimana santa, però quella di Sanremo è una settimana diversa dalle altre. Una settimana che dà la possibilità di distrarsi e di sorridere a chiunque voglia farlo, che offre per cinque giorni l’occasione di spostare l’attenzione verso pensieri più leggeri. Non c’è tempo di pensare a cose brutte, c’è Sanremo.
Il Festival è come l’elezione del Presidente della Repubblica, ma ogni anno (l’anno scorso abbiamo avuto il Mattarella bis e l’Amadeus ter, uno dopo l’altro: estasi). Storia e tradizione, che si rinnova ma senza perdere autenticità, che tiene insieme sul palco Anna Oxa e Lazza, I Cugini di Campagna e Rosa Chemical, e, sul divano, i vecchi e quei pochi giovani non scemi e senza Clarks. Fuori c’è la morte? Va bene, ora datemi le canzonette.