Con l’avvento della crisi economica causata dal covid-19, da più parti si è tornati a mettere in discussione il modello capitalista che ha caratterizzato lo sviluppo socioeconomico occidentale (almeno) dalla Rivoluzione Industriale in poi. Le critiche mosse contro il capitalismo dai suoi detrattori sono svariate, ma ce ne sono tre che sembrano ricorrere più frequentemente.
La prima: lo Stato non sarebbe sufficientemente presente come contrappeso alle istanze del settore privato, dei mercati e degli interessi economici — in questa direzione si orientano le critiche di chi, ad esempio, auspica un ruolo di “imprenditore” per lo Stato. La seconda: il capitalismo sarebbe il prodotto di una filosofia — individualista, liberale e liberista — essenzialmente “sbagliata”, che trascurerebbe l’importanza della dimensione collettiva e sociale degli esseri umani, nonché l’esistenza di autentiche identità collettive che trascenderebbero i singoli individui. La terza: il modello capitalista, oltre ad elevare l’individualismo metodologico degli scienziati sociali a prescrizione morale, avrebbe compresso gli spazi di esercizio della democrazia — stabilendo una preminenza delle istanze economiche su quelle civili — e ridurrebbe la felicità ad una questione materialistica, di PIL. L’aspetto interessante di queste critiche al capitalismo è la loro trasversalità rispetto allo spettro politico italiano. Se il primo punto — quello che approda allo Stato Imprenditore — sembra essere leggermente prevalente nell’area di “sinistra” dell’arco parlamentare (PD e M5S), gli altri due, invece, vengono declinati in modi estremamente analoghi da destra a sinistra.
Fatta questa lunga premessa ed inquadrato con precisione il fenomeno, veniamo alla parte interessante: nessuna delle tre punte del tridente ideologico anticapitalista è particolarmente originale. Infatti, tutte e tre le critiche sono sorprendentemente — e sinistramente — simili ad analoghe considerazioni esposte da Giovanni Gentile e Benito Mussolini, nel lontano 1932, attraverso il saggio (articolato in due parti) “La dottrina del fascismo” — poi confluito nella voce “fascismo” contenuta all’interno dell’Enciclopedia Treccani edita nel 1932.
Vediamo nel dettaglio le analogie tra “La dottrina del fascismo” (i cui paragrafi sono numerati) e le tre critiche al capitalismo menzionate.
La prima. Al paragrafo VIII della seconda parte, leggiamo che “di fronte alle dottrine liberali, il fascismo è in atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della politica e in quello dell’economia”. Ora, questa contrapposizione del fascismo nei confronti del liberalismo economico — cioè, del (neo)liberismo — non è, in fin dei conti, simile a quella professata da chi auspica un cambio di paradigma socioeconomico e il superamento del (neo)liberismo?
Successivamente, al paragrafo XI, Gentile e Mussolini scrivono — commentando quello che a loro pareva l’evidente fallimento del capitalismo in seguito alla crisi del ’29 — che solo lo Stato può “risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo”. Non suona familiare? È così diverso, ad esempio, dall’auspicare di sottrarre un’azienda quotata in borsa alle logiche di mercato? La sostanza non è, in fin dei conti, la medesima — cioè, di subordinare il capitalismo al volere dello Stato?
Addirittura, solamente poche righe prima (al paragrafo X), l’idea di fondo viene esposta ancora più chiaramente: infatti, mentre “lo Stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale […], ma si limita a registrare i risultati”, lo Stato fascista, invece, “ha una sua consapevolezza, una sua volontà”. Senza nemmeno leggere troppo tra le righe, questa interpretazione del ruolo dello Stato non ricorda quella dello Stato Imprenditore? In fin dei conti, lo Stato Imprenditore non è quel modello di Stato fortemente interventista — e diffidente del capitalismo — che prende l’iniziativa e orienta gli interessi economici privati?
Insomma: lo Stato Imprenditore, che sceglie i suoi vincitori senza farsi limitare dalle logiche di mercato, non ricorda — almeno un po’ — lo Stato Fascista, che non può limitarsi a registrare passivamente i risultati delle dinamiche economiche? Entrambi sono Stati non-neutrali nei confronti delle dinamiche capitalistiche.
La seconda. Al paragrafo VII della prima parte, ci viene spiegata la natura profondamente anti-individualista del fascismo. Infatti, mentre “il liberalismo negava lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare”, il fascismo, invece, “riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo”. Inoltre, “lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo” (paragrafo VII) e “fa valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato” (paragrafo VIII).
Di nuovo, mutatis mutandis, non è una retorica che suona in qualche modo familiare? Il richiamo alla dimensione collettiva, al “bene superiore” della Nazione che trascende la semplice somma dei benesseri individuali, non è— in fin dei conti —il pilastro su cui si fonda la retorica antiglobalista e anticapitalista, che vorrebbe subordinare gli interessi economici (“puramente egoistici”) di alcune categorie (ad esempio, gli imprenditori che delocalizzano le loro imprese) al “bene superiore” della Nazione?
E ancora: gli Stati Generali voluti dal premier Conte non ricordano, a ben guardare, quella volontà di riconciliare gli interessi categoriali nell’interesse (unito e trascendente) dello Stato, al quale viene attribuita una vaga soggettività psicologica (come se lo Stato esistesse separatamente dagli interessi, intrinsecamente confliggenti, delle varie categorie che lo compongono)? Secondo Mussolini e Gentile, infatti, “gli individui sono classi secondo le categorie degli interessi […]; ma sono prima di tutto e soprattutto Stato” (paragrafo IX).
La terza. Anche qui, la seconda parte del saggio in esame è chiarificatrice — anche troppo. L’insofferenza verso uno Stato, quello liberale, che non fa prevalere i diritti del cittadino sulle leggi dell’economia — un po’ come voler far prevalere, in campo medico, le leggi dello sciamanesimo su quelle della biologia… — è manifestata al paragrafo VIII, dove lo Stato Liberale è criticato per il suo “agnosticismo nell’economia”. Se, come leggiamo poco dopo (paragrafo XI), “chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice Stato”, il quadro si completa: lo Stato, contrapposto all’individuo, ha il mandato — storico e morale — di contrastare il capitalismo e le sue leggi economiche.
Ma, di nuovo, non ha un suono vagamente familiare? È così diverso dagli slogan di chi non vuole lasciare che il capitalismo sia indirizzato dalle scelte dei consumatori (che, ad esempio, vedono con favore le delocalizzazioni, dal momento che riducono il costo del lavoro e il prezzo dei beni di consumo), ma vuole uno Stato che tuteli i diritti del cittadino anche andando contro le leggi economiche (ad esempio, disincentivando le delocalizzazioni al fine di tutelare il “diritto al lavoro”)?
Infine, la critica al materialismo. Al paragrafo V leggiamo che “il fascismo nega il concetto materialistico di felicità […] e lo abbandona agli economisti [liberisti] della prima metà del `700”. Infatti, il fascismo prende posizione contro il benessere economico come approssimazione della felicità, che “convertirebbe gli uomini in animali […] ridotti, quindi, alla pura e semplice vita vegetativa”. Anche qui: non somiglia a parte della retorica propria dei movimenti anticapitalisti? Non somiglia ai tanti discorsi antimaterialisti che vorrebbero il ritorno ad una presunta età dell’oro, bucolica e agreste, dove si dava importanza a valori “sani”, anziché al materialismo e al PIL? In fin dei conti, non è l’approccio — molto in voga tra gli anticapitalisti — di chi vorrebbe sostituire la misurazione del PIL con quella degli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile?
Concludendo, ricordiamo la celebre massima di Cicerone (De Oratore II, 9): la storia è maestra di vita. In un Paese in cui sovente ci si interroga sul pericolo di reviviscenze fasciste, bisogna ricordare che il fascismo non è stato solo il manganello, l’olio di ricino e le leggi razziali, ma anche il controllo totalitario ed anti-individualista dello Stato sulla sfera economica — in nome, anche, di quell’anticapitalismo che oggi sembra tornato tanto di moda.