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LETTA VA BENE. PER ORA

15 Marzo 2021

A sette anni esatti dal “tradimento” della direzione nazionale del partito democratico che lo sfiduciò massicciamente per incoronare Renzi nuovo presidente del consiglio, Enrico Letta, invocato da una sinistra in crisi di identità e consensi, ha sciolto la riserva accettando la segreteria del partito orfana del dimissionario Zingaretti. Quest’ultimo evento è la naturale conseguenza della caduta del governo Conte, sul quale Zinga e il suo cerchio magico avevano deciso di puntare tutte le fiches non soltanto nel breve, ma anche nel lungo periodo senza uno straccio di strategia.

I protagonisti, infatti, non avevano fatto i conti con lo “sterminatore di premier”, in omaggio a Games of Thrones di cui ho finalmente deciso di guardare la serie, che gli ha rovinato i piani. Se oggi Conte e la sua corte fossero ancora dimorati a Palazzo Chigi, non saremmo qui a parlare di Letta nuovo segretario del Pd. E invece…

                                 Francesco Pierantoni/Flickr

In questi giorni in molti si sono chiesti quale atto di perverso masochismo abbia spinto l’ex premier ad abbandonare il ruolo di stimato e rinomato professore della School of International Affairs Sciences Po di Parigi per guidare un partito dominato dal sistema correntizio, con consensi tendenti al ribasso e che soprattutto inghiottisce, mastica e poi sputa via le carcasse di chi prova a domarlo.

Ad oggi, infatti, il Partito democratico ha contato otto segretari in tredici anni di vita. Alcuni di loro, mi viene in mente Walter Veltroni si occupano di politica giusto il tempo di qualche comparsata in tv o di un’intervista sui giornali. Altri sono fuoriusciti dal partito per fondare microrganismi politici a basso consenso, vedi Bersani e lo stesso Renzi. Di altri ancora non si ricorda nemmeno il nome, come Guglielmo Epifani. L’ultimo, Nicola Zingaretti, ha preso il partito al 18% ed è riuscito nell’impresa di portarlo al 14% secondo l’ultimo sondaggio SWG.

Quindi ha ragione Letta nel sostenere che “a voi non serve un nuovo segretario, ma un nuovo partito”, strizzando forse l’occhio al leader delle Sardine Mattia Sartori che ha bollato il Pd “marchio tossico”. Un nuovo partito che abbia il coraggio di mettere in discussione gli attori che fin qui l’hanno guidato, per abbracciare nuove forze provenienti dalla società civile, dai giovani e, perché no, rivitalizzare ciò che di buono già c’è. Giovani che, come ribadito da Letta, saranno uno degli elementi centrali del suo mandato: “se non riusciremo a coinvolgere i giovani avrò perso la sfida”. Vedremo se riuscirà a vincere la sfida.

A delineare i motivi del ritorno in politica da protagonista è Letta stesso, nell’intervento all’assemblea nazionale del partito, svoltasi in streaming domenica mattina: “ho scelto il Pd, perché la società post pandemia ripartirà dai partiti…e il Pd deve essere guida, in Italia, ma soprattutto in Europa, dei partiti”. Passaggio che, forse, fa trapelare una critica al recente Pd subalterno agli alleati di governo, capaci di “grillinizzare” parte della classe dirigente dem.

Enrico Letta, dunque, è chiamato ad un Whatever it takes per salvare e rilanciare il partito di cui è stato tra i fondatori e soprattutto salvare sé stesso, perché chi oggi ne chiede i servigi domani potrebbe deporlo, nonostante la nomina avvenuta a stragrande maggioranza. E lui questo lo sa bene, avendo già vissuto la situazione, come ho ricordato all’inizio.

Ma come rilanciare un partito mai nato latitante di idee? Innanzitutto, a mio avviso, ripartendo dai circoli, nel tempo trasformati in macchine elettorali finalizzate alla sistematica sconfitta elettorale. Il circolo come luogo di formazione della classe dirigente e di sviluppo di idee che sappiano razionalizzare l’esperienza socialista e liberale. È impensabile distribuire la ricchezza se prima non la si crea. Tradotto: puntare su istruzione, formazione, digitalizzazione, green economy per forgiare l’imprenditore e il lavoratore del futuro e redistribuire in modo giusto ed equo le risorse da questi prodotte. L’assistenzialismo, da solo, non è sufficiente.

In secondo luogo, rilanciare il Partito democratico, significa accettare la democrazia. Accettare la democrazia significa saper adattarsi al ruolo di opposizione nel momento in cui i cittadini decidono, tramite il voto, che la tua azione di governo non è stata efficiente ed efficace. E, invece, negli ultimi dieci anni, il Pd è stato al governo per otto. Vincendo le elezioni mezza volta nel 2013. Lo stesso Letta, nel suo passaggio in assemblea, ha sostenuto la necessità per il Pd di svestire la divisa di “protezione civile della politica, altrimenti il Pd diventa partito del potere. E il partito del potere prima o poi muore”. E difatti, il periodo trascorso al governo è stato inversamente proporzionale al crollo dei consensi. Fatto naturale se i cittadini ti percepiscono come il partito dell’establishment in un’epoca in cui tutto ciò che è establishment è considerato centro di imputazione di ogni male. Di qui la necessità di un partito Democratico non solo nel nome, ma anche nei fatti.

Rilanciare il Partito democratico, infine, passa per la scelta degli alleati con i quali costruire insieme un’idea di paese e di futuro. Idea condivisa e appetibile per un elettorato fluido e disorientato. È inutile girarci intorno o nascondere la testa sotto la sabbia. Il futuro del centrosinistra passa dall’alleanza con il Movimento 5 stelle. Magari con la creazione di un nuovo soggetto politico, sulla scia del Pd del 2008 che aveva inglobato le esperienze politiche del ‘900, quella democristiana e quella comunista, in un unico raccoglitore. La scelta appare obbligata, se non per vicinanza politica, per ragioni matematiche. La strada l’ha tracciata Zingaretti e le parole di Letta in assemblea lasciano intuire la volontà di proseguire su questo percorso.

Del sistema di alleanze Letta non può non tenere conto, inoltre, di Azione di Carlo Calenda e di Più Europa, o di quel che ne resta dopo le dimissioni di Emma Bonino. Partiti, questi, fondamentali per il giusto bilanciamento fra Sinistra e Centro. E per il giusto equilibrio è necessaria, almeno tanto quanto Azione e Più Europa, Italia Viva di Matteo Renzi. Certo, i rapporti fra quest’ultimo e Letta non sono idilliaci, ma forse si può scorgere un segnale di distensione nel tweet di solidarietà al leader di Italia Viva, destinatario di due proiettili recapitati in Senato. Gesto non scontato.

Il nuovo polo di centro sinistra che verrà avrà, dunque, bisogno di tutte le forze politiche suindicate per arrivare preparato all’appuntamento elettorale del 2023 e provare a vincere le elezioni, dopo anni di non vittorie e smarrimento identitario e culturale. Ecco, in questo senso il Partito democratico dovrà “essere guida dei partiti”, ossia ritrovare quella vocazione maggioritaria tanto cara a Walter Veltroni per essere il perno centrale della ricostruzione dell’Italia.

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