“La Turchia non ha né l’intenzione né la necessità di fare il minimo passo indietro rispetto all’economia di mercato e al regime dei cambi con la valuta estera”. Sono queste le parole pronunciate dal presidente della Repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, al termine della riunione di gabinetto del 20 dicembre scorso. Nella stessa conferenza stampa ha inoltre annunciato nuove manovre economiche volte a incentivare i risparmi detenuti in lira turca, garantendo che eventuali effetti negativi sul cambio lira/dollaro saranno rimborsati direttamente dal governo ai risparmiatori. Nelle ore immediatamente successive a questo annuncio la lira ha guadagnato il 40% sul dollaro, continuando poi a rafforzarsi nelle giornate successive anche grazie all’annuncio di nuovi interventi della Banca Centrale sul mercato valutario.
Perché si sono rese necessarie queste dichiarazioni e queste manovre? Qual è la situazione dell’economia turca? Perché la lira è così instabile e, nonostante il forte rimbalzo, è tornata in questi giorni a svalutarsi? Per rispondere a queste domande è necessario guardare tanto alla performance economica quanto alla situazione politica odierna in Turchia.
SITUAZIONE ECONOMICA
La crisi della lira turca, che da agosto 2018 peggiora a un ritmo sempre più sostenuto, ha alla radice una serie di fattori in connessione tra loro e che si influenzano reciprocamente. Per riassumere i più rilevanti tra questi, consideriamo tre categorie: la governance economica, l’elevata inflazione e la sfiducia generalizzata dei mercati sul futuro dell’economia turca.
Istituzioni non indipendenti
Una prima causa di instabilità dell’economia turca va ricercata nella mancanza di indipendenza delle istituzioni preposte al governo dell’economia, in particolare del Ministero dell’Economia e della Banca Centrale. Specialmente dopo il referendum del 2017, che ha introdotto una forma di governo presidenziale con enormi poteri nelle mani del Presidente della Repubblica, quest’ultimo di fatto ha acquisito il controllo della Banca Centrale. I suoi poteri di nomina e revoca di parte del Consiglio e del Governatore della Banca Centrale (oltre che di ciascun ministro) sono stati uno strumento per esercitare influenza su chiunque non fosse disposto ad assecondare strategie, politiche ed obiettivi del presidente turco, che per questo motivo ha sostituito ben 3 governatori in meno di 20 mesi dal giugno 2019 al marzo 2021, e ha di recente revocato l’incarico di Ministro dell’Economia a un suo (ex) fidatissimo come Lütfi Elvan.
Elevata inflazione
I motivi per i quali i governatori sono stati sostituiti hanno a che fare con il secondo fattore: l’altissima inflazione e la posizione del presidente turco in merito. Sebbene i tassi ufficiali descrivano un’inflazione intorno al 20% (già di per sé molto elevata), l’opposizione e diverse associazioni di produttori e consumatori lamentano tassi reali tra il 40% e il 50%. Chi vive in Turchia sperimenta questi effetti sulla propria vita quotidiana, con rapidi aumenti dei prezzi e cartellini dei prezzi nei supermercati aggiornati quasi ogni settimana.
Per contrastare l’inflazione, le maggiori teorie economiche prescrivono, tra le varie misure applicabili, l’aumento dei tassi d’interesse. Al contrario, il presidente turco insiste nel ritenere che la migliore cura per i problemi dell’economia turca sia quella di ridurli, adducendo sostanzialmente tre differenti motivazioni:
- “I bassi tassi d’interesse favoriscono la crescita”: poiché rendono relativamente più vantaggioso (per le famiglie e per le imprese) contrarre prestiti per realizzare investimenti; secondo Erdoğan, dunque, è necessario mantenerli bassi per stimolare la crescita economica. Se è vero che la Turchia è stata il secondo Paese OCSE per rapidità di crescita nell’ultimo quarto del 2021 (7,4%), è anche vero che, uscendo dal livello macro e guardando alla condizione economica degli individui, si nota un netto peggioramento a causa dell’erosione del potere d’acquisto, con sempre più famiglie al di sotto della soglia di povertà.
- “In quanto musulmano, continuerò a fare ciò che la nostra religione prescrive”: nel pronunciare queste parole, ribadite in occasione dell’annuncio di un nuovo ribasso dei tassi il 19 dicembre, Erdoğan si riferisce al divieto di ricorrere all’usura (riba) come forma di credito. L’applicazione di un tasso d’interesse sempre più alto, secondo lui, sarebbe dunque incompatibile con questa dottrina e pertanto haram (proibito).
- “Una lira più economica aumenterà la produzione, creerà posti di lavoro e rallenterà l’inflazione”: il presidente turco ha infine scoperto le carte, dichiarando di essere consapevole che queste politiche comportano un indebolimento e un riflesso negativo sulla lira, ma che ciò fa parte di una precisa strategia, di un “nuovo modello economico” volto a rafforzare il profilo della Turchia come paese esportatore e avvantaggiare le imprese turche che operano in questo settore, basando su questo la crescita dell’economia. Se è vero che una lira svalutata rende relativamente più competitive le merci turche sul mercato internazionale, è però anche vero che la Turchia è ancora un importatore netto, che acquista le materie prime e le fonti di energia per la maggior parte dall’estero. In presenza di una lira sempre più debole, importare le materie prime e le risorse energetiche necessarie alla produzione dei beni da esportare e (per ciò che interessa alle famiglie turche) da consumare nel mercato interno, diventa relativamente sempre più costoso, e i maggiori costi affrontati dalle imprese si riflettono sui prezzi al consumo. In altre parole: un ulteriore aumento dell’inflazione.
Mancanza di fiducia nei mercati
Politiche economiche azzardate ed eterodosse, poca trasparenza, imprevedibilità nelle decisioni e assenza di autonomia delle istituzioni hanno incrementato la sfiducia generale nei mercati verso l’economia e la moneta turca. Una situazione i cui effetti negativi si manifestavano puntualmente a ogni annuncio di Erdoğan in materia di governance economica e/o di politica monetaria: sfiduciati sul futuro dell’economia e soprattutto della lira, i detentori di risparmi in lira turca si affrettavano a convertire le proprie lire in valute estere prima che il successivo annuncio del Presidente turco rischiasse di causare nuovi deprezzamenti della moneta turca. Cercando di “fuggire” dal crollo della lira in questo modo (e cioè inondando il mercato di lire per acquistare dollari, euro e/o oro) contribuivano allo stesso tempo a farne ulteriormente diminuire il valore, accelerando così il circolo vizioso svalutazione-inflazione. Per porvi un freno il Presidente Erdoğan ha annunciato le misure del 20 dicembre scorso citate all’inizio: ciò ha causato nell’immediato il positivo rimbalzo della lira sopra accennato (nel pomeriggio del 20 dicembre 1 € si scambiava a 20 ₺; la mattina dopo toccava un minimo di circa 12 ₺). A poco più di una settimana di distanza, tuttavia, questo effetto sembra già ridimensionato da nuove perdite di valore (nel momento in cui si scrive quest’articolo, 1 € vale circa 14 ₺).
SITUAZIONE POLITICA
La delicata situazione economica della Turchia non può che riflettersi anche su quella politica. L’alleanza di governo tra il partito di Erdoğan AKP e gli ultranazionalisti del MHP è sempre più in difficoltà nei sondaggi: secondo i dati dell’istituto MetroPOLL, se si votasse domani l’attuale presidente non riuscirebbe a raggiungere il 40% e verrebbe così sconfitto da un’opposizione unita. Già nelle elezioni locali del 2019 il principale partito di opposizione, il socialdemocratico CHP, ha riportato fondamentali vittorie nelle tre principali città turche (Istanbul, Ankara, Izmir), grazie anche all’appoggio dell’İYİ Parti (nato da una scissione dal MHP, ma dal profilo sempre più centrista). Forte di questo successo, il CHP sta promuovendo un dialogo sempre più fitto tra tutti i partiti al di fuori dell’alleanza di governo in vista delle elezioni del 2023. L’obiettivo è quello di costruire un fronte unitario che coinvolga quanti più soggetti possibile: una grande coalizione unita da un programma basato prima di tutto sul ritorno al parlamentarismo e sul ripristino delle istituzioni democratiche e dello stato di diritto dopo la regressione autoritaria realizzata dall’AKP.
Grazie a campagne e azioni di forte critica alle politiche dell’esecutivo, e allo stesso tempo mirate a ricucire le fratture sociali ampliate dalla retorica polarizzante e dallo stile autoritario dell’attuale governo, sembra che i partiti di opposizione stiano riuscendo a conquistare la fiducia di sempre più potenziali elettori. Inoltre, al di là del piano retorico, il fatto che nelle città conquistate dall’opposizione i nuovi sindaci stiano riscuotendo un buon successo nell’amministrazione locale (nonostante i tanti ostacoli posti dal governo: tra revoche di incarichi, arresti e blocchi di accesso ad alcuni fondi statali) sta conferendo una solida credibilità e una rinnovata fiducia nelle loro capacità di governo.
Di fronte al recente peggioramento dell’economia (oltre che della democrazia) turca, un’opposizione sempre più incalzante e determinata chiede che le elezioni generali previste per il 2023, per il rinnovo del Parlamento e della Presidenza della Repubblica, vengano anticipate all’estate del 2022. Ciò, unito alla situazione descritta dai sondaggi, è una chiara fonte di preoccupazione per Erdoğan: in questo senso le recenti misure annunciate, dall’aumento del salario minimo al pacchetto di interventi del 20 dicembre citato in introduzione, possono essere letti come un tentativo di fornire un po’ di buone notizie all’opinione pubblica, una lista di ultimi “successi” della sua presidenza, da giocarsi nel caso in cui – nonostante continui a dichiarare che si terranno nel 2023 – dovesse infine optare per le elezioni anticipate.