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Michail Gorbaciov: Colpe o Meriti?

5 Settembre 2022

Non è semplice raccontare a chi, per la sua giovane età, non ha vissuto quegli anni come venne percepita la nomina di Michail Gorbaciov a Segretario generale del PCUS, e dunque a leader dell’Unione Sovietica, nell’ormai lontanissimo 1985. Per dare un’idea delle speranze e persino degli entusiasmi che quell’evento aveva suscitato, basti citare qui quanto scriveva nel 1988 Moshe Lewin, uno dei maggiori studiosi della storia russa e sovietica e all’epoca docente all’Università della Pennsylvania:

«Oggi… la dirigenza sovietica comprende le esigenze dei tempi e ha il coraggio politico e la capacità intellettuale di affrontare il compito quanto mai complesso di portare a termine la transizione del sistema… Gli aspetti più importanti della visione di Michail S. Gorbacèv sono la volontà di riconoscere pubblicamente i mali che affliggono il paese, e la consapevolezza che tutte le principali parti di cui il sistema è composto vanno analizzate insieme e riformate simultaneamente. Gorbacèv sa che l’economia da sola non può essere l’anello che traina l’intera catena. Società, cultura, Stato, partito, economia, dovranno muoversi di concerto, e in modo coordinato, per rispondere alle esigenze strutturali dell’attuale fase storica.

Come i mesi scorsi hanno dimostrato agli scettici dentro e fuori l’Unione Sovietica, Gorbacèv intende fare sul serio, e il suo governo non è sul punto di cadere. Semmai, il “nuovo orientamento strategico”, come i leader sovietici l’hanno etichettato, si è venuto rafforzando nel corso del 1987. Quasi di settimana in settimana il governo sembra riuscire meglio a calcolare il passo della riforma. Man mano che percezione e analisi dei problemi si fanno più complesse, i compiti da affrontare si moltiplicano, e appaiono quasi insolubili; ma la stessa ampiezza della visione riformatrice rende l’impresa più realistica e credibile».

Grandi aspettative, dunque, che investivano due ambiti diversi ma strettamente connessi. In primo luogo, l’auspicio – vivo soprattutto nell’intellettualità marxista ma anche nel vasto corpo dei militanti e dei simpatizzanti comunisti e della sinistra più vasta, in Italia come in tutto l’Occidente – di una possibile autoriforma del socialismo reale. Confutando la tesi liberale dell’irriformabilità di quel sistema e della necessità che esso venisse sconfitto e abbattuto per via di un fattore o di un attore esterno, esposta da Popper come da numerosi altri autori affini, Gorbaciov sembrava dimostrare che in Russia, e forse anche negli altri paesi dell’Est, era ancora possibile avviare un autonomo processo di rigenerazione. Un mutamento o addirittura una palingenesi, che tenesse fermo il principio di un’organizzazione non capitalistica dell’economia e della società e la centralità del principio di eguaglianza ma che – tornando alle fonti ideali della Rivoluzione d’Ottobre secondo alcuni, con una ancor più radicale innovazione secondo altri – coniugasse questa istanza con una profonda democratizzazione della vita sovietica e con un riconoscimento delle libertà individuali.

In secondo luogo, poi, presso una platea più ampia e cioè presso tutti gli uomini e le donne di buona volontà, il desiderio che questa novità intervenuta al governo della seconda superpotenza mondiale aprisse uno scenario di pace e sicurezza globale. Il desiderio, cioè, che venisse progressivamente meno la rigida divisione in due blocchi dello scenario internazionale e che in tal modo si attenuasse in maniera significativa quel rischio di guerra che minacciava le relazioni tra le nazioni e la vita stessa dei popoli già dalla fine del secondo conflitto mondiale e dalla rottura dell’alleanza che aveva sconfitto il nazifascismo. Ecco, questo è forse l’aspetto più importante: non è possibile oggi comprendere quella fase se non si tiene conto del ruolo che il pericolo atomico e la percezione di questo pericolo avevano ancora in quel contesto e, di conseguenza, se non si tiene conto dell’impatto che l’approccio pacifista e “umanistico” di Gorbaciov, con la sua idea di una globalizzazione dolce e consensuale e di una coesistenza tra sistemi diversi, poteva avere su un mondo stanco di vivere nell’equilibrio del terrore e ormai rassegnato ad affidare la propria sopravvivenza al filo sottilissimo del principio di deterrenza nucleare.

Se tanto elevate erano le premesse, non c’è dubbio, allora, che dopo 37 anni da quell’evento il bilancio storico non possa oggi che essere impietoso. Di quelle speranze forse troppo frettolose non rimane più nulla e la loro stessa rievocazione appare, come si diceva all’inizio, incomprensibile ai più in un mondo che è radicalmente mutato. Lungi dall’avviare un’efficace autoriforma, il processo innescato da Gorbaciov alla luce dei concetti di Perestrojka e di Glasnost sarebbe rapidamente sfuggito di mano al suo promotore e ai suoi collaboratori. Sino a condurre, da lì a pochi anni, al crollo del blocco socialista e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Con la chiusura – quantomeno per una fase storica assai lunga, se non in via definitiva – della questione socialista in Europa e in Occidente ma con gravi ripercussioni (come ho cercato di mettere in evidenza in un articolo precedente su questa medesima testata) sui rapporti di forza tra le classi sociali nel mondo intero e sullo stato di salute delle stesse democrazie liberali e in particolare dei loro sistemi di Welfare, dopo l’avvento dell’età neoliberale e la piena riscossa dei ceti proprietari sul terreno economico come su quello politico.

Invece di promuovere un’epoca di pace, poi, la rottura dell’equilibrio del terrore fu la premessa di una fase di nuove e sempre più virulente guerre e in generale di una crescente conflittualità internazionale. Da un lato, il venir meno del nemico di sistema darà l’opportunità agli Stati Uniti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, di ergersi a unica superpotenza planetaria e di dispiegare le proprie politiche imperialistiche: quella pretesa di dettare le regole delle relazioni tra le nazioni secondo i propri interessi che ha fatto del mondo intero il cortile di casa di Washington. Più in generale, l’idea di un progressivo svanire delle barriere e dei muri tra i popoli e della costruzione di un ordine mondiale condiviso si è realizzata di fatto, da quel momento, nella assai più prosaica globalizzazione occidentocentrica. Che è coincisa in gran parte con un gigantesco sforzo di ricolonizzazione del mondo per via economica (ma all’occorrenza anche militare) e che avrebbe alla lunga prodotto nuove contraddizioni e nuovi conflitti potenziali con quelle aree geopolitiche in ascesa che non sono per nulla disponibili a subordinare la propria sovranità a una concezione unilaterale della libertà dei commerci. Anche il pericolo nucleare, del resto, che sembrava tramontato per sempre, covava in realtà sotto la cenere e rimane tutt’ora una realtà potenziale che – come siamo stati costretti a ricordare da quando è precipitato il conflitto tra USA e Russia per interposta Ucraina – potrebbe ritornare attuale in qualsiasi momento.

Si è discusso, si discute e si discuterà ancora a lungo di quella fase e delle responsabilità – meriti secondo alcuni, colpe secondo altri – di Gorbaciov nelle sue conseguenze. C’è chi, pensando soprattutto alle opinioni diffuse nella sinistra reduce di quegli anni, parla con rimpianto e indulgenza di una estrema ingenuità di fondo dei protagonisti di quella stagione, incapaci di governare dinamiche assai più grandi di loro e costretti ad arrendersi al corso degli eventi e poi ad assecondarli. Così come c’è chi, con animus più malevolo, parla non solo di un profondo deficit soggettivo sul terreno teorico-culturale come su quello pratico-politico ma di un tradimento degli ideali socialisti o addirittura di una consapevole manovra di sovversione dall’interno da parte di un gruppo dirigente composto da infiltrati. E c’è anche, infine, chi invita a guardare più che altro alla legge storica dell’eterogenesi dei fini e all’oggettività dei processi e dei rapporti di forza reali.

Non è il luogo, questo, per un’analisi approfondita. Una riflessione, tuttavia, mi sembra necessaria, guardando retrospettivamente a quegli anni. Quelle speranze, ho l’impressione, sono cadute e non potevano che cadere perché erano sbagliate in partenza. Erano animate, cioè, da una visione sin dall’inizio eurocentrica o occidentocentrica della storia, nella quale gran parte degli interpreti e degli spettatori giudicavano gli eventi e le dinamiche in una prospettiva improntata a modelli di lettura, criteri di giudizio, gerarchie di interessi che erano in tutto e per tutto espressione di una falsa coscienza, ovvero di una coscienza che legge il mondo secondo gli schemi propri di una parte di questo mondo stesso. Siamo certi, in altre parole, che l’unico modello di democrazia possibile, quel modello di cui molti auspicavano la diffusione nell’Urss, fosse quello della democrazia liberale? O non era la democrazia liberale di quegli anni – torna sempre lo stesso problema – essa stessa anche debitrice dell’esistenza stessa di un modello politico-sociale alternativo? Siamo poi così sicuri che il pluralismo della democrazia liberale del quale meniamo tanto vanto sia un pluralismo assoluto? Oppure anche questo pluralismo è relativo, così che tollera facilmente tutte quelle forme di dissenso che si inscrivono comunque nella sua cornice generale ma reprime a sua volta – e con ferocia non minore rispetto alle forme politiche considerate dispotiche – quelle che invece tale cornice sono capaci di mettere in discussione, così che anche i sistemi liberali funzionano in realtà come una sorta di monopartitismo di fatto?

Guardando poi alle dinamiche internazionali: quanto vacuo idealismo ma anche quanta coda di paglia c’era in chi immaginava o sosteneva che in, una situazione di rapporti di forza totalmente squilibrati sul piano della potenza politica e di quella militare, il venir meno della divisione in blocchi avrebbe condotto a uno scenario di democratizzazione del mondo e di reciproco riconoscimento delle nazioni come pari e non, come è avvenuto e non poteva non avvenire, a quello scenario hobbesiano nel quale il più forte – gli Stati Uniti – impone la propria legge? Curiosa idea di pace, in ogni caso, quella che coincide con gli interessi della propria parte geopolitica!

Due considerazioni per concludere questa breve nota. Anzitutto. L’esperienza di Gorbaciov e quella della fine dell’Urss sono state in Occidente occasioni di compiaciute esaltazioni del trionfo del liberalismo e addirittura della fine della storia. Esse sono state invece occasione di riflessioni ben più approfondite nella Cina di Deng Xiaoping e poi dei suoi eredi. Già alle prese da tempo con un’operazione di riforma e apertura che aveva avviato la modernizzazione del paese e il suo incontro con il mondo, i dirigenti cinesi hanno ricevuto da quegli avvenimenti una lezione che ha consentito loro un notevole apprendimento. La riforma economica e l’aggancio con la globalizzazione era inevitabile, se la Cina non voleva rimanere isolata ed essere soffocata nella sua arretratezza. Ma questa riforma, che è passata essa stessa per una fase di liberalizzazione assai intensa e che ha consentito numerose forme anche assai cospicue di proprietà privata, sarebbe avvenuta comunque nel contesto di un’organizzazione socialista dell’economia nella quale lo Stato non avrebbe mai rinunciato al proprio ruolo strategico e di comando in quanto espressione della maggioranza del popolo, ovvero delle classi subalterne: economia di mercato sì, dunque, ma economia socialista di mercato, evitando la svendita delle proprietà pubbliche che aveva caratterizzato l’epoca di Eltsin e che aveva generato in Russia una nuova classe di capitalisti in grado di condizionare le scelte politiche e persino di esprimere i propri governi. Proprio per questa ragione, seguendo anche in questo caso una strada assai diversa da quella della Russia, la riforma non avrebbe comportato il venir meno della centralità del Partito comunista, con l’adozione del modello di pluralismo politico delle democrazie liberali. Essa sarebbe invece avvenuta in connessione a un processo di democratizzazione anch’esso assai intenso – come riconosciuto di recente da Daniel Bell, ad esempio – ma autonomo e rispondente alle caratteristiche della storia e della struttura sociopolitica cinese. Ecco che mentre l’Unione Sovietica è ormai nei nostri ricordi, la Repubblica popolare cinese è diventata la seconda economia mondiale e il secondo paese più influente.

Infine. Assistiamo ad assai interessate celebrazioni di Gorbaciov da parte di esponenti politici e intellettuali liberali di tutto il mondo. È un atteggiamento comprensibile: viene celebrato in Gorbaciov colui che in un modo o nell’altro ha contribuito a costruire le condizioni per la vittoria dell’Occidente nella Guerra Fredda e per l’avvio della globalizzazione capitalistica. C’è almeno una grande questione che però, in questo profluvio lodi, viene completamente rimossa. Nel recente libretto che raccoglie alcune interviste sulla questione ucraina, Noam Chomsky ricorda come negli accordi che portarono alla fine del Patto di Varsavia i massimi dirigenti statunitensi avessero garantito al leader sovietico che la Nato non sarebbe avanzata di nemmeno un centimetro rispetto ai confini che in quel momento aveva la sua sfera di influenza. Sappiamo tutti come è andata già qualche anno dopo. E del resto era stato lo stesso Gorbaciov a denunciare questo stato di cose, quando protestava, nel 1999, contro i bombardamenti del Patto atlantico sulla Serbia: «Chiamiamo le cose con il loro nome: è un’aggressione […] L’operazione militare della Nato è una violazione clamorosa del diritto internazionale. È evidente il desiderio dell’alleanza occidentale, con a capo gli Usa, di affermare il diritto della forza, la propria posizione monopolista nel sistema mondiale».

Sono parole che disturbano il quadro idilliaco caro a molti commentatori. Ma che spiegano molto della storia del mondo contemporaneo e anche di quanto sta accadendo nel cuore dell’Europa e che dunque è giusto ricordare. Per rendere giustizia a Gorbaciov fino in fondo: nei suoi errori e nelle sue insufficienze come nelle sue ragioni.

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