L’Italia non ha mai avuto una vera ambizione ecologista, ma solo un disinteresse generale sul tema e discorsi estremamente semplificati. E con la nuova ripartenza dopo il virus, quale modello vogliamo applicare? L’ambientalismo della decrescita felice o uno sviluppo sostenibile e consapevole?
Sono ormai passati due anni da quando il fenomeno Greta è esploso in tutto il mondo e soprattutto in Europa, facendo sviluppare un dibattito sui cambiamenti climatici e sulla salvaguardia dell’ambiente, tema da sempre considerato minoritario all’interno del dibattito politico. Da allora, i partiti verdi hanno avuto un exploit elettorale mai visto prima: in Germania, secondo i sondaggi, sono ormai il secondo partito, giusto dietro alla CDU di Angela Merkel; in Francia Europe Écologie Les Verts ha stravinto le elezioni amministrative, facendo cambiare governo al presidente Macron e imponendo l’ambientalismo come tema numero uno; addirittura la Commissione di Ursula Von Der Leyen ha promosso il Green Deal come principale strategia di crescita europea. Insomma, l’ecologismo è entrato prepotentemente nel dibattito politico del nostro continente in maniera quasi capillare, toccando molti paesi, tranne l’Italia.
Il Belpaese ha da sempre avuto poco a cuore il tema ambientale: il primo ministero dell’Ecologia è stato creato solo nel 1984 con il primo governo Craxi, e col susseguirsi degli anni quasi nessun governo ha mai investito concretamente nell’ambiente. Al contrario, sono stati all’ordine del giorno condoni edilizi (qui leader indiscusso dei condoni è il centrodestra, che durante i suoi governi ne ha emanati una quantità esponenziale, ma anche il Conte I c’ha messo del suo con il condono ad Ischia) e decreti sblocca trivelle (ad esempio sotto il governo di Matteo Renzi). Inoltre, i Verdi in Italia non hanno mai sfondato: il loro periodo più florido è stato intorno al 2006, quando il loro leader Alfonso Pecoraro Scanio divenne Ministro dell’ambiente; da allora sono praticamente spariti o inchiodati a percentuali minime (Europa Verde secondo i sondaggi è meno del 2%).
Il tema della salvaguardia ambientale è tornato in auge con l’ascesa del Movimento 5 Stelle, ma purtroppo non nel giusto senso: punto centrale del loro programma è la difesa dell’ambiente da grandi opere dannose, un sistema di acqua pubblica e l’opposizione a cambiamenti ambientali rivoluzionari, seguendo la teoria della “decrescita felice”; le grandi battaglie fondative del Movimento sono state da sempre il NO a opere come TAV (Treno ad alta velocità Torino-Lione) e TAP (Trans Atlantic Pipeline, un gasdotto che trasporta gas metano dall’Azerbaijan) e la decarbonizzazione dell’ex ILVA, ora ArcelorMittal, a qualunque costo (anche trasformando l’impianto in “un allevamento di cozze pelose”, parole di un esponente grillino).
E i questi giorni l’ambientalismo italiano sta dando il peggio di sé: è tornato il dibattito sulla Plastic Tax, una tassa fissa sugli imballaggi di plastica (ipotizzata a 1 euro al chilo) che secondo i suoi promotori andrebbe ad orientare i consumi verso altri tipi di imballaggi più sostenibili, come vetro, carta o materiali biocompostabili; secondo i suoi detrattori invece questa misura colpisce l’industria degli imballaggi (ben radicata in Emilia Romagna, dove si produce il 62% del totale nazionale e impiega più di 17mila persone, generando un fatturato di 4,4 miliardi) e soprattutto i consumatori, costretti a dover pagare di più. Il dibattito, come spesso accade nella politica italiana, affronta l’argomento in maniera molto superficiale: in Italia ancora è inspiegabilmente vietato produrre prodotti con più del 50% di plastica riciclata, per cui discutere di nuove tasse è quasi paradossale in questo contesto. O ancora la consultazione indetta dal Ministero dell’ambiente per cominciare a cancellare i 19 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi (tema complicato, perché la maggior parte di essi vanno a beneficio di mezzi per l’agricoltura, benzina e gasolio e sconti per le bollette energetiche), indetta però in un periodo in cui gli italiani sono in vacanza e, soprattutto, con una durata brevissima, ossia meno di un mese (dal 31 luglio al 27 agosto). Come spesso succede nel dibattito italiano, si scade nella superficialità, anche su temi importanti come questi.
Da questo scorcio sulla storia dell’ambientalismo italiano, si può ben capire perché questo tema non abbia mai colpito profondamente l’elettorato: molta ideologia, pochi fatti, troppe promesse fantasiose non mantenute. Tutto questo mentre il mondo del negazionismo del riscaldamento globale e del produttivismo sfrenato crescono in maniera esponenziale: più volte il leader della Lega Matteo Salvini fa battute sulla falsità dei cambiamenti climatici, mentre i giornalisti osannati dalla destra italiana usano toni vergognosi e negazionisti di fronte a questi fenomeni (primi tra tutti Maria Giovanna Maglie e Nicola Porro). Il cambiamento climatico non si ferma di fronte alla crisi del coronavirus, queste strane settimane lo dimostrano: da un caldo africano si passa repentinamente a grandinate selvagge, con trombe d’aria degne di un paese tropicale; anche per questa ragione, la ripartenza in chiave ecologica è importantissima. Si, ma quale ecologismo per l’Italia?
Il nostro paese ha grandissime opportunità per lo sviluppo sostenibile, molti report lo certificano: basta solo superare la logica NIMBY (Not in my Backyard, non nel mio cortile, non vicino a me), ossia l’opposizione ad ogni grande opera, e soprattutto far arrivare le tesi ecologiste lì dove sono meno forti, ovvero nelle campagne e nei paesini. In queste località si vive ancora con un forte attaccamento al territorio: ci si sposta in bicicletta, si consumano prodotti a chilometro zero e si ha un alto tasso di raccolta differenziata, per cui lo stile di vita è già di per sé molto sostenibile. La sfida sarà però convincerli che la transizione ecologica, con pannelli solari, impianti eolici, nuove piste ciclabili, impianti per lo smaltimento dei rifiuti e colonnine per le auto elettriche, non sia un modo per farli spendere di più, ma anzi per migliorare la loro qualità di vita, accompagnandoli nel percorso per uno sviluppo più sostenibile: del resto è questa la strategia che i verdi tedeschi hanno applicato per diventare il secondo partito in Germania, e che Les Verts hanno usato per vincere le elezioni comunali lo scorso luglio. Da lì poi si può cominciare a elaborare misure destinate al livello nazionale, come la transizione per le imprese, un piano per la mobilità sostenibile su rotaia, installazione di pannelli solari e turbine eoliche, taglio dei sussidi ambientalmente dannosi e la loro riconversione in sussidi ambientalmente favorevoli. Ma come ogni grande cambiamento, anche la transizione ecologica deve partire dal livello locale per poi spargersi ovunque; se invece la trasformazione è imposta dall’alto, senza coinvolgere le realtà più piccole, sarà destinata a fallire. Questo è l’ecologismo che serve all’Italia.