Fino a che punto le persone più a rischio a causa del covid-19 hanno un diritto—inteso come la facoltà di far valere un’obbligazione sulle loro controparti—ad essere tutelate a scapito di chi è meno a rischio e si vede penalizzato dalle misure di contenimento?
Nella prima parte di questo post, dopo aver stabilito la “naturale eticità” del diritto di proprietà di ogni essere umano sul proprio corpo e sulla propria volontà (libero arbitrio), ci siamo lasciati con la seguente domanda: in che modo questa costruzione concettuale può—ammesso che possa…—applicarsi alla questione dei lockdown?
Rimanendo su un piano generale, l’unica risposta che reputo razionale—ma non per questo anche necessariamente moralmente auspicabile su un piano assiologico, di giudizi di valore—è che nessuno dovrebbe essere obbligato ad effettuare col proprio corpo qualcosa che non ha scelto volontariamente—e, viceversa, a nessuno andrebbe impedito fare del proprio corpo ciò che ritiene più opportuno.
Certamente—si potrebbe obiettare—in alcuni casi è difficile discernere tra comportamenti la cui attuazione è chiaramente riconducibile all’esercizio del proprio diritto di proprietà su sé stessi da comportamenti che, invece, invadono il diritto di proprietà degli altri su loro stessi.
Il punto che, però, mi preme far passare è che l’unico modo non-contraddittorio di analizzare problemi di questo tipo è quello di ragionare sulle definizioni degli enti—“proprietà”, “violazione”, “diritto”, ecc.—di cui ci si vuole avvalere durante la discussione, e cercare di dedurre dai significati di questi enti delle conclusioni logiche—detta in termini formali: dei giudizi sintetici a priori.
Questo tipo di approccio è fondamentale, in quanto è l’unico che permette di evitare le fallacie argomentative in cui si rischia di cadere facendosi governare dal pathos e dall’emotività nell’affrontare questioni simili.
Ad esempio, considerando il problema del lockdown: fino a che punto le persone più a rischio a causa del covid-19 hanno un diritto—inteso come la facoltà di far valere un’obbligazione sulle loro controparti—ad essere tutelate a scapito di chi è meno a rischio e si vede penalizzato dalle misure di contenimento? È chiaro che un approccio etico come quello fin qui delineato non consegna una risposta conclusiva, ma certamente aiuta a inquadrare il problema, evitando trappole emozionali.
Infine, se questa riflessione vi sembra astratta, puramente speculativa e priva di risvolti pratici, vi invito a riflettere su due considerazioni.
La prima: avere un meccanismo chiaro di definizione dei diritti, delle proprietà e delle loro violazioni, è essenziale per permettere alle persone di scambiarsi questi diritti e di allocare nel modo più efficiente le utilità che ne derivano (Teorema di Coase). In questo senso, bisogna cercare una risposta convincente alla domanda: “in che misura un individuo ha il diritto di non essere infettato, o di infettare (senza dolo) il prossimo? Ho io il diritto di spargere i miei droplets, o hanno gli altri il diritto di chiedermi di non farlo?”.
Dopo aver risposto a questa domanda, è tranquillamente concepibile un sistema cooperativo spontaneo in cui, ad esempio, gli anziani “affittano” dai giovani il diritto di questi ultimi ad andare in discoteca (o viceversa). Da un lato, i giovani verrebbero indennizzati per quella che potremmo concepire come una violazione della loro sovranità su loro stessi; dall’altro lato, gli anziani potrebbero tutelare la loro salute senza prevaricare i diritti dei giovani. Insomma, un’interazione di scambio da cui nessuno avrebbe da perdere—tutti da guadagnare.
La seconda: qualsiasi risposta si voglia dare a domande analoghe a quella precedente, il ragionamento tramite cui a tali risposte si perviene deve essere consistente—cioè, applicabile ad ogni caso analogo senza contraddirsi. Pertanto, se decidiamo che il criterio etico di individuazione dei soggetti titolari dei diritti è, ad esempio, quello della tutela dei più deboli e bisognosi (quindi, ad esempio, gli anziani avrebbero il diritto di pretendere dai giovani qualsiasi comportamento idoneo a fermare il contagio), allora questo criterio deve essere sempre applicabile. Ma, in questo caso, chi ha diritto al mio rene? Io, che lo possiedo naturaliter, o una persona più debole, che ne ha più bisogno di me—dal momento che si può vivere con un rene solo? E che dire delle donazioni di sangue? Dovrebbero diventare obbligatorie? In caso di carenza di sacche di sangue, chi necessita di una trasfusione ha diritto al mio?
In altre parole: il diritto di proprietà—su beni, servizi, e noi stessi—può in qualche modo essere influenzato dal bisogno? Oppure, in una società liberale, il diritto di proprietà non può che derivare dall’assioma della proprietà su noi stessi, nonché dal corollario che qualsiasi cosa produciamo o colonizziamo (in quanto res nullius—cosa di nessun altro), essendo una “estensione” di noi stessi, ci appartiene in modo assoluto, con diritto di disporne e di goderne in modo pieno ed esclusivo?
In conclusione: se volevate una risposta perentoria circa la legittimità morale dei lockdown, io non sono in grado di darla—almeno, non con assoluta cogenza. Quello che mi sento di affermare è che, per giungere a questa risposta, si deve elaborare un sistema etico—circa i diritti, i doveri, le proprietà, le violazioni, ecc.—internamente consistente, non-contraddittorio, che costituisca le fondamenta dell’edificio filosofico-morale da cui, poi, far discendere la norma giuridica che regoli la fattispecie in oggetto.
Quello che però mi sento di consigliarvi con assoluta certezza è: diffidate degli approcci semplicistici a problemi filosoficamente complessi come questo, e non abbiate paura di mettere in discussione quello che viene fatto passare come apodittico senso comune. Ogni progresso del sapere umano—scientifico, filosofico, storico, ecc.—deve per forza passare per un dubbio ed un tentativo di confutazione. Non abbiate paura di partecipare a questo processo—con razionalità, calma e rigore argomentativo.