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SANZIONI UE SU PETROLIO E CARBONE: MOSCA GUARDA VERSO L’ASIA

13 Luglio 2022

Alla vigilia dell’invasione in Ucraina, la Federazione Russa era il principale partner energetico dell’Unione Europea. Una cooperazione avviata durante la guerra fredda e ormai giunta al termine. Ora, il portafoglio clienti di Gazprom guarda verso l’Asia. Cina e India sono in pole position per l’acquisto di idrocarburi a prezzi scontati. 

LE CIFRE PRIMA DELLA GUERRA

I dati Eurostat aggiornati al 2020 sulle importazioni europee di prodotti energetici ci aiutano a comprendere la portata dell’interdipendenza energetica tra Unione Europea e Russia. L’Unione Europea importa il 58% dell’energia consumata. Il mix energetico è così composto: 35% petrolio, 24% gas naturale, 17% fonti rinnovabili, 13% nucleare, 11% carbone. La Russia è il principale fornitore di petrolio (26%), gas naturale (46%) e carbone (53%) ed è responsabile del 24% del complessivo fabbisogno energetico europeo. I paesi più esposti all’import di prodotti energetici dalla Russia sono Lituania (96,1%), Slovacchia (57,3%) e Ungheria (54,2%). Germania e Italia sono esposte rispettivamente per il 31,1% e per il 23,8%, con una forte incidenza del gas naturale (58,9% e 40,4%).

L’ILLUSIONE ECONOMICISTA

Con lo scioglimento dell’Unione Sovietica si era inaugurato un trentennio glorioso per l’unica superpotenza egemone, ovvero gli Stati Uniti, e per l’unica forma di governo vincente, la democrazia liberale. Sul fronte economico, il libero mercato si è globalizzato superando il concetto gioco a somma zero in favore di uno schema win-win, consentendo di produrre a costi più bassi internazionalizzando le catene del valore. Con la “fine della storia”, ci si è illusi che la geopolitica potesse essere declassata ad archeologia del sapere antico, che il business potesse creare ponti tra nazioni rivali e che potesse porre le basi per la democratizzazione anche dei regimi più dispotici. La finanza, il commercio, l’innovazione tecnologica sarebbero state le uniche chiavi di lettura del nostro tempo e tutto il resto (le traiettorie geopolitiche e storiche, le coordinate geografiche, la deterrenza militare, l’interesse nazionale) solo un insieme di feticci novecenteschi

UN FATTO EUROPEO

Tale approccio “economicista” ha plasmato principalmente la politica estera dei paesi occidentali, ma soprattutto europei (privi di autonomia strategica e di una propria deterrenza militare). La Russia di Putin, nonostante le profonde trasformazioni subite, non ha mai smesso di coltivare una propria proiezione geopolitica, in cui l’export di idrocarburi non è un fine bensì un mezzo per influenzare l’ordine mondiale. Quando Putin ha deciso di attaccare l’Ucraina probabilmente ha scommesso sul fatto che i paesi europei non sarebbero intervenuti in alcun modo, timorosi di subire ritorsioni sul fronte energetico e preoccupati dalle potenziali ricadute sull’economia ancora alle prese con le conseguenze della pandemia. Negli ultimi anni la Russia non si è fatta scrupoli nell’utilizzare gli idrocarburi come leva geopolitica, come ad esempio nel dossier Nord Stream 2. Questo è accaduto perché a partire dagli anni Settanta l’economia europea si è resa sempre più dipendente dai prodotti energetici russi, sia per motivazioni politico-strategiche (l’Ostpolitik tedesca) sia per aspetti meramente economici, come il minor costo di trasporto delle materie prime garantito dalla fitta rete di gasdotti e oleodotti presente nell’Est Europa. La Germania è il paese europeo che più ha spinto per rafforzare l’interdipendenza con l’Orso al fine di prevenire atti militarmente ostili nonché accelerare un percorso di democratizzazione. Una strategia che, alla prova dei fatti, oggi pare essere stata fallimentare.

OPERAZIONE “DECOUPLING”

Con l’invasione dell’Ucraina, i rapporti tra Unione Europea e Russia sono tornati indietro di decenni. Nonostante i tentennamenti iniziali, i paesi membri hanno reagito con compattezza avviando subito una drastica politica di “decoupling” al fine di ridurre la dipendenza dagli idrocarburi russi. Le sanzioni nel settore energetico sono state molto più impattanti rispetto a quelle varate nel 2014:

  1. divieto di esportazione in Russia di tecnologie per la raffinazione del petrolio;
  2. divieto di importazione di carbone (a partire da agosto 2022);
  3. divieto assoluto di acquisto, importazione o trasferimento di tutto il petrolio greggio trasportato via mare;
  4. divieto di assicurare e finanziare il trasporto di petrolio verso paesi terzi, in particolare attraverso rotte marittime (previsto un periodo di transizione di sei mesi).

Il divieto di importazione di carbone colpisce un quarto dell’export globale di carbone russo, per un valore di otto miliardi di euro annui. Il divieto di importazione di petrolio prevede un’eccezione temporanea per le importazioni via oleodotti da parte dei paesi maggiormente dipendenti dalla Russia. Per la Bulgaria è stata prevista una deroga temporanea per l’importazione di petrolio via mare, mentre la Croazia potrà importare gasolio sottovuoto. Le sanzioni sul petrolio russo puntano a colpire complessivamente il 90% dell’import di petrolio russo nell’Ue. Sul fronte del gas, Bruxelles non ha ancora applicato alcuna sanzione, vista l’elevata dipendenza di paesi come Germania e Italia che già stanno facendo i conti con una riduzione unilaterale delle forniture da parte di Mosca e un aumento significativo dei prezzi

GAZPROM GUARDA VERSO ORIENTE

Da febbraio, Cina e India hanno acquistato carbone, petrolio e gas russi per 24 miliardi di dollari (rispettivamente 18,9 e 5,1 miliardi), facendo registrare ricavi aggiuntivi pari a 13 miliardi di dollari rispetto allo stesso periodo nel 2021. Rispetto a maggio 2021 gli acquisti cinesi di petrolio russo sono aumentati del 55%, portando la Russia a diventare il maggiore fornitore di petrolio per Pechino, superando l’Arabia Saudita. Anche l’India, a maggio, ha aumentato di circa trenta volte gli acquisti di petrolio rispetto allo stesso periodo del 2021. I due colossi asiatici hanno acquistato complessivamente circa 2,4 milioni di barili di greggio russo al giorno, con uno sconto del 30% rispetto al prezzo di mercato. Discorso analogo sul fronte del gas, dove le forniture in Europa attraverso il Nord Stream 1 sono state tagliate del 60%. La strategia di Gazprom consisterebbe nel compensare nel breve periodo i minori volumi di gas esportati nel vecchio continente con i prezzi più alti pagati dagli acquirenti asiatici che, tuttavia, acquistano a prezzo scontato e possono effettuare le transazioni con la propria valuta. Il gasdotto “Power of Siberia” porta gas russo in Cina per 10 miliardi di metri cubi all’anno e Mosca vorrebbe portare i volumi a 50 miliardi attraverso la costruzione del “Power of Siberia 2”. Nei primi sei mesi del 2022, le forniture di gas alla Cina sono aumentate del 63,4%, nonostante un calo del 30% dell’export e una riduzione della domanda globale di 24 miliardi di metri cubi.

UNA STRATEGIA RISCHIOSA

Dunque, la Russia è pronta a consolidare l’interdipendenza energetica in Asia, ma non mancano i dubbi sulla sostenibilità nel lungo periodo di tale strategia: Cina e India già soddisfano, infatti, parte del proprio fabbisogno energetico attingendo da altri fornitori in Medio Oriente; in secondo luogo, saranno necessari anni per ampliare la capacità delle condotte; infine, la partnership tra Cina e Russia vede Mosca giocare la parte dell’alleato debole, esponendola ad una forte dipendenza dalla domanda di gas naturale cinese. Per la Russia si prospetta il rischio di un futuro da serbatoio a prezzi scontati del Dragone.

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