Nel contesto del femminismo italiano, in materia di sex work, è egemone una concezione emancipatoria di tale pratica, accompagnata dal sostegno a posizioni regolamentariste rispetto alla prostituzione. Una visione che si basa sulla contrapposizione tra situazioni di sfruttamento ed altre di esercizio libero e consapevole di queste professioni.
Si tratta di una chiave di lettura liberale, che pone il focus sulla libertà di scelta delle donne, disinteressandosi dei processi di lungo periodo che la legittimazione di queste pratiche innesta, nonché delle conseguenze sugli interessi collettivi della popolazione femminile.
Esistono innanzitutto delle problematicità rispetto allo schema “sex work libero e consapevole” vs “situazioni di tratta e sfruttamento”. Nel contesto di una società capitalista e patriarcale parlare in termini assoluti di libertà di scelta significa essere rimasti fuori dalla storia. Per rendersene conto basta approfondire le esperienze di quei paesi che hanno intrapreso la via della regolamentazione della prostituzione e metterle in rapporto con quelle dei paesi che hanno implementato un modello abolizionista.
A prescindere da ciò, se anche questa contrapposizione reggesse, sarebbe un errore considerare questi due fenomeni come separati, come se fosse possibile risolvere le problematiche che una delle due situazioni presenta attraverso le garanzie che l’altra offre.
Che si tratti di lavoro sessuale di strada o di gestire un profilo Onlyfans, la logica di fondo resta la stessa: gli uomini possono ottenere un consenso sul corpo delle donne attraverso vie alternative a quelle relazionali, basta comprarlo al giusto prezzo.
Per quanto le forme emergenti di sex work rappresentino un’opportunità di profitto e diano una sensazione di indipendenza ed autonomia dei corpi, quale cultura compartecipano a legittimare? Non problematizzare il sex work nelle sue forme più “leggere”, arrivando anzi a concepirlo come pratica femminista ed emancipatoria per la donna, significa legittimare la cultura dell’oggettificazione sessuale che genera clienti per il resto delle forme di prostituzione.
Rendere il consenso delle donne un oggetto di merce significa rafforzare la cultura dello stupro, perché priva del suo significato assoluto ed insindacabile il “no” espresso per negare l’accesso al loro corpo.
Mercificare il corpo della donna significa rafforzare il patriarcato, perché la dinamica macro è chiara: attraverso il lavoro sessuale aumenta l’accesso degli uomini al corpo delle donne, senza che questo accesso avvenga in conseguenza del desiderio sessuale femminile.
Ribadire che “sex work is work” non ha nulla di progressista, soprattutto quando ad utilizzare tale slogan sono donne bianche, occidentali e benestanti, che parlano di emancipazione da una posizione di privilegio, sempre e solo da una prospettiva individuale e mai collettiva, abbracciando un femminismo liberale e non radicale.