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Zalone non c’entra

7 Febbraio 2022

Ecco, ci risiamo. Zalone va in scena, scrive una canzone, produce un film, e subito una girandola di elzeviristi e commentatori seriosi accende una querelle nazionale: da una parte c’è chi pontifica sul cattivo gusto della comicità nostrana, scrivendo grosso modo che Zalone mica fa la parodia dell’italiano medio, Zalone è l’italiano medio, e che in fondo uno così ce lo meritiamo (che era una frase imbecille ieri, quando la usava Nanni Moretti in Ecce bombo per screditare Sordi, ed è imbecille oggi, quando la si usa per screditare Zalone); dall’altra parte c’è chi esalta pavlovianamente lo sbeffeggio zaloniano del perbenismo (non esiste nessun perbenismo, il perbenismo è una scemenza) presentando i film, le canzoni, gli sketch o i monologhi di Zalone con lo stesso formulario retorico che si trova nelle fascette dei libri e nelle recensioni sulle terze pagine – e spesso con un gusto tutto italiano per l’aggettivazione kitsch, per l’endiadi enfatica. Ora, l’intervento che Zalone ha fatto nella prima serata sanremese non mi pare uno dei suoi sketch più riusciti, ma è interessante appunto perché aiuta a mettere a fuoco questo modo settario di discutere di idee, libri o spettacoli in rete – ma non solo: le terze pagine, come accennavo, sono una sentina della bêtise nazionale. Di discuterne, cioè, polarizzandosi tra favorevoli e contrari, come se invece che di capire il tono, le intenzioni e il contesto si trattasse di fare il tifo.

Da un lato, i contrari sono ferocemente contrari. Si tratta per lo più di commentatori rimasti intrappolati nelle logiche di un Novecento civile tanto immaginario quanto tartufesco, che etichettano Zalone come un qualunquista destrorso assuefatto a dinamiche sociali discriminatorie e crudeli su cui non hanno nulla di serio da dire, e che anzi tendono a rappresentare in tinte vaghe e fumose (ossia qualunquiste ante litteram). Il presupposto da cui partono è che gli sketch zaloniani inibiscono, o addirittura annullano, il senso critico del pubblico, finendo per umiliare categorie che andrebbero invece tutelate, protette, magari evitando certe espressioni, certi cliché; un presupposto che tradisce un’idea quanto meno riduttiva dei modi in cui un essere umano può rapportarsi a un prodotto dello spettacolo. C’è questa bella intervista in cui Fran Lebowitz, parlando di Jane Austen, dice tutto quello che c’è da dire su questo genere di zdanovismo (sbobino da 1:47 a 2:05): «People are consistently told “What can you learn about your own life from this novel? What the lessons? What this teach you? How can you use this? This is a philistin idea, this is beyond vulgar. I think that this is an awful way to approach anything». Ma l’aspetto più sgradevole di questo zelante civismo è che, prendendo tutto troppo sul serio, i suoi apostoli finiscono per formulare un giudizio senza commisurarlo alle dimensioni di ciò che giudicano, legittimando logiche tribali, censorie, e sdoganando una distopia speculare e forse peggiore di quella che vorrebbero scongiurare.

Dall’altro lato, i favorevoli sono sguaiatamente favorevoli. Zalone diventa il pretesto per chi mal sopporta non solo i succiatati pistolotti moraleggianti (che è legittimo e comprensibile) ma anche chi fa più pacatamente notare che magari un po’ di attenzione in più ci vuole quando si decide di prendere per il culo gente che viene menata per strada per le proprie preferenze sessuali o a cui non sempre è concesso adottare un figlio. E però questi critici ostinatamente pseudoanticonformisti somigliano troppo ai loro avversari perché possano essere credibili (a proposito di credibilità, è da recuperare, se ve lo foste perso, il monologo di Sabrina Ferilli: dieci minuti da applausi): a motivarli è lo stesso bullismo intellettuale, la stessa fregola di inseguire il Presente, la stessa sicumera, lo stesso vittimismo retorico e tartufesco. Il fatto è che alla semplicissima domanda “va benissimo ridere della tendenza a indignarsi per ogni cosa, ma poi come la mettiamo con i pestaggi, le manifestazioni omofobe e tutto il resto?” non è così semplice rispondere; e dato che non avere risposte a domande del genere può anche imbarazzare, si preferisce derubricare la questione a tromboneggiamento-da-moralisti-permalosi, adducendo come pretesto la difesa della libertà di espressione artistica (che è un’altra scemenza: la libertà di espressione non ha alcun bisogno di tribuni, ma solo di buoni autori e di critici decenti).

Il risultato è che il fondo di verità nella critica mossa dai primi, annacquato dal tartufismo, viene spesso scambiato per egomania; mentre il fondo di ragionevolezza e legittima preoccupazione nella critica mossa dai secondi, sepolto da un malinteso anticonformismo, viene spesso scambiato per falsa coscienza o, nel migliore dei casi, per misoneismo. Corollario: chi vuole farsi un’idea del monologo di Zalone è costretto a esercizi di contorsionismo notevoli per evitare che gli si appiccichi addosso questa o quella retorica.

Per quanto riguarda lo spettacolo invece – e Zalone più in generale, dato che questa mise en scène si ripete ogni volta che produce qualcosa – la questione è molto più semplice: in attesa che anche in Italia nasca un comico con il talento e le capacità di Ricky Gervais, George Carlin o Dave Chappelle, non vedo perché uno non possa continuare a ridere alle battute di Zalone (senza prenderlo, o prendersi, troppo sul serio) facendosi della sua comicità un po’ l’idea che vuole.

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