Il devastante impatto che una retorica sessista, abilista, omofoba, transfobica o razzista ha sulle persone che ogni giorno lottano per liberarsi dagli stereotipi potrebbe essere evitato se la TV italiana iniziasse ad ascoltare le minoranze. Consultare degli attivisti dovrebbe essere la prima scelta da fare quando si decide di parlare di tematiche che riguardano i diritti delle categorie oppresse. Sanremo ha dimostrato, ancora una volta, che l’Italia è incapace di ascoltare gli altri e i cambiamenti di cui la società ha urgente bisogno.
Sanremo tra Amadeus, Checco Zalone e Maria Chiara Giannetta
“Le parole sono come gli amanti, quando non funzionano più vanno cambiati subito”, dice Drusilla Foer durante il suo monologo sanremese. Ma come capiamo quando quelle parole non funzionano più? La risposta è tramite l’ascolto. Ancora non abbiamo imparato a farlo e ciò che è accaduto nei giorni scorsi alla Rai ne è la conferma.
Come le parole possano perpetrare stereotipi e discriminare lo abbiamo visto durante Sanremo, seppur quotidianamente assistiamo ad un uso scorretto del linguaggio da parte della TV e dei media italiani. L’abbiamo notato nelle ripetute battute sessiste, così come nel monologo transfobico di Checco Zalone, in cui viene alimentato il luogo comune della transessualità associata alla prostituzione, con l’interpretazione di una donna trans di nome Oreste che fa la sex worker, ha accento brasiliano e attributi maschili e non è altro che “metà e metà”, “fragola e banana”. Si potrebbe parlare e ridere potenzialmente di tutti e tutto, ma se a ridere sono solo le persone privilegiate qualcosa non funziona.
Che la TV e la società italiane siano incapaci di ascoltare le vere istanze delle minoranze lo si può dedurre anche dal recente discorso abilista di Maria Chiara Giannetta, che illustra come le consulenti cieche che lei chiama i suoi “guardiani” le abbiano insegnato a interpretare il ruolo di Blanca nell’omonima fiction della Rai, con tanto di musica struggente in sottofondo. A nessuna di loro viene passato il microfono, perché è la persona non disabile che deve raccontare la disabilità, quello che le persone cieche le hanno insegnato e, come aggiunge alla fine Amadeus, hanno insegnato pure a “noi”, probabilmente con la loro mera presenza sul palco per otto minuti contati. Ed eccoci di fronte all’ennesimo inspiration porn: la narrazione delle persone disabili come individui da cui trarre lezioni di vita e ispirazione, la quale deriva quasi esclusivamente dalla loro disabilità.
Ascoltare sé stessi (intenzione) e ascoltare gli altri (impatto)
Nel monologo di Drusilla Foer sull’unicità e l’ascolto, viene evidenziato come ascoltare sé stessi e gli altri sia un atto complicato, ma importantissimo. Se vogliamo vivere in una società sana, saper ascoltare solo sé stessi non è più sufficiente. Sappiamo identificare la natura delle nostre intenzioni, siamo pronti a giustificarle se ritenute buone, ma abbiamo davvero appreso ad ascoltare gli altri? Abbiamo imparato a non lasciare che il nostro privilegio offuschi la capacità di ascolto nei confronti di tutte le categorie oppresse e marginalizzate? Spesso ci concentriamo troppo sulle intenzioni e troppo poco sull’impatto delle nostre parole e dei nostri comportamenti.
Nel 2022 non è importante accendere la TV e sapere che quella tale persona sta agendo con un buon intento se poi le sue parole feriscono le minoranze e calcano luoghi comuni. Quando non ascoltiamo gli altri non possiamo capire la gravità dell’impatto che le nostre parole e le nostre azioni hanno, e perché. Durante Sanremo, ma più in generale nella TV italiana, ancora non esiste il rivoluzionario atto di ascolto: sembra finora esserci un’estrema riluttanza nel consultare individui direttamente appartenenti alle categorie discriminate e, più precisamente, attivisti e attiviste, persone specializzate in grado di suggerire come parlare in modo appropriato di femminismo, diritti LGBTQI+, disabilità e razzismo. Eppure ne abbiamo molte, competenti e giovani, a partire da Francesco Cicconetti, Carlotta Vagnoli, Sofia Righetti e Marina Cuollo, solo per citare alcuni nomi.
Ciò che manca è la volontà di far fare un passo indietro al nostro privilegio, il quale costituisce il principale ostacolo alla capacità di ascoltare gli altri. Non abbiamo bisogno di vittimismo, di giustificare un comportamento sbagliato dichiarando che le intenzioni erano buone, che non si è omofobi, sessisti o razzisti, che non si intendeva affatto ferire. Ciò designa una totale incapacità di assumersi la responsabilità rispetto alle conseguenze causate dal proprio comportamento o dall’uso di un lessico scorretto e discriminatorio. Questo approccio, infatti, non significa mettersi in discussione, chiedere scusa e, finalmente, ascoltare.
È ora che le persone dotate di un privilegio inizino ad ascoltare chi è oppresso, chi subisce l’impatto dei loro comportamenti, e anche male. Per dirla in breve, se l’impatto di determinate parole e azioni continua a perpetrare l’oppressione e a discriminare, allora delle buone intenzioni non ci importa nulla.
Brava !!!!