Questo avranno pensato molti osservatori al di fuori di Israele al delinearsi dei risultati elettorali del voto del 1 Novembre, che sembra consegnare 65 seggi alla coalizione dell’ex Primo Ministro e leader del Likud. Di nuovo.
A niente sembra essere valsa, in termini di prospettiva elettorale, la formula di “governo del cambiamento” messa in campo da Naftali Bennett prima e da Yair Lapid poi: la coalizione di governo composta dal centro progressista e da quello moderato (Yesh Atid e Unità Nazionale), dalla sinistra (Labour e Meretz, che non supera la soglia di sbarramento del 3.25%), dal centrodestra laico che rappresenta parte degli ebrei provenienti dall’ex URSS (Yisrael Beitenu) e dal partito arabo islamista Ra’am, primo nella storia del Paese a partecipare a una coalizione di governo, si ferma a quota 50 seggi. Discorso a parte, invece, meritano le liste arabe che hanno finora rifiutato di sedersi al tavolo delle trattative di governo: la lista Hadash guadagna 5 seggi, mentre i nazionalisti di sinistra di Balad non superano lo sbarramento.
A ben vedere, tuttavia, la vera vittoria politica e simbolica di queste elezioni non è del solo Netanyahu, che pure si riafferma come figura cardine del sistema politico nonostante i processi che pendono sulla sua testa e nonostante l’intera impalcatura del governo uscente poggiasse proprio nel suo essere contro Bibi: è l’affermazione dei Sionisti Religiosi a rappresentare forse la novità più dirompente di questa tornata elettorale. Con il 10% dei voti e ben 14 seggi ottenuti, la lista di estrema destra guidata da Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir diviene la terza forza politica del parlamento israeliano ed è destinata a giocare un ruolo chiave nella formazione della prossima coalizione di governo a guida Netanyahu.
Un po’ di contesto: le fazioni che fanno riferimento ai Sionisti Religiosi sono spesso state marginali nella dinamica politica israeliana, e non soltanto quando al governo vi era il centrosinistra. Le posizioni di questa lista differiscono certamente a seconda dei partiti che vi partecipano, ma sono comunque spesso associate a una visione teocratica dello Stato, al radicalismo, quando non esplicitamente all’omofobia e al razzismo, tant’è che le frange più estremiste di questo cartello elettorale sono per lungo tempo state oggetto di conventio ad excludendum. Contenuti come quelli di Itamar Ben-Gvir (che partecipa nella lista col suo Otzma Yehudit, “Potere Ebraico”) rappresentano quello che da molti è definito “suprematismo” e che ha tratto forza ideologica dal “kahanismo”, l’ideologia di Meir Kahane (condannato più volte per attività legate al terrorismo negli Stati Uniti e in Israele) e del partito Kach, cui fu fatto divieto dalle autorità israeliane di correre alle elezioni per via dei contenuti anti-democratici, anti-arabi, razzisti della sua piattaforma politica e che fu in seguito sciolto in forza delle norme anti-terrorismo.
L’ascesa di forze politiche che hanno al vertice esponenti considerati vicini a questo milieu è dunque tutt’altro che banale per il carico che porta con sé e rappresenterà nel lungo periodo un problema anche e soprattutto per il centrodestra tradizionale, che nei decenni è passato dal lasciare l’aula per protesta durante i discorsi di Meir Kahane nel 1984 al cavalcare questo fenomeno per mantenere la competitività della coalizione di centrodestra. L’affermazione dei Sionisti Religiosi, dunque, avviene al culmine di un processo di appeasement tutto a firma Benjamin Netanyahu.
Per questa ragione vi è diffusa preoccupazione, anche nella diaspora ebraica, circa l’impatto che un governo tenuto in piedi dagli estremisti potrà avere sulla democrazia israeliana: si teme il rischio isolamento, certo, tant’è che lo stesso Isaac Herzog, Presidente dello Stato di Israele, ha messo le mani avanti nel suo viaggio di qualche giorno fa a Washington circa l’importanza delle relazioni con gli Stati Uniti a prescindere da chi dovesse vincere le elezioni. Si teme, tuttavia, anche un esplicito tentativo di torsione autoritaria della democrazia israeliana, rappresentato da molte tra le proposte contenute nella piattaforma politica dei leader di questi partiti, dalle posizioni anti-LGBT a quelle anti-arabi, passando per la volontà di una riforma della giustizia che leghi mani e piedi del sistema giudiziario all’esecutivo.
Di fronte a questi timori il campo democratico – sebbene non sia molto distante dal blocco conservatore in termini di voti assoluti – ha mostrato alcune debolezze: la mancanza di una prospettiva politica coerente e omogenea, i problemi interni alla coalizione e il ripetuto “tutti tranne Netanyahu” non hanno certamente valorizzato la coalizione di governo uscente. È pur sempre vero, d’altra parte, che chi scrive l’ha apprezzata molto in numerosi passaggi: la volontà di unire arabi ed ebrei con un’alleanza vasta e variegata che andasse da Bennett a Ra’am, le politiche di investimento nelle comunità arabe e le misure per la comunità LGBT, i tentativi di riforma del sistema religioso israeliano, la gestione delle operazioni contro la Jihad islamica palestinese, per finire con l’attivismo diplomatico di Yair Lapid nel contesto degli Accordi di Abramo e con l’Occidente, da un lato, e la sua cristallina presa di posizione a favore della soluzione “due Stati per due popoli”, dall’altro, rientrano tutti tra i contenuti che giudico positivi di questo governo. Il tema è stato, semmai, parallelamente a quanto fin qui descritto in termini di scarsa competizione egemonica e scelte di coalizione rivelatesi non efficaci, la crescente domanda di sicurezza e di rivendicazione identitaria richiesta da segmenti della società israeliana, che sembra aver giocato a favore di chi ha fatto di questi argomenti, negli anni, un cavallo di battaglia.
Poco importa, in questo senso, se le azioni dei Sionisti Religiosi sono giudicate da molti un rischio enorme per la sicurezza degli stessi israeliani, nella misura in cui le loro mobilitazioni e manifestazioni alimentano la violenza nella pubblica opinione e nelle piazze, con tutto ciò che ne consegue in termini di valutazione delle minacce, contenimento e neutralizzazione delle stesse da parte degli apparati di sicurezza: la risposta identitaria ha rappresentato un ancoraggio viscerale di fronte al deteriorarsi delle condizioni di sicurezza percepite, anche se coloro che quella risposta l’hanno data sono parte del problema e non della soluzione.
Dal punto di vista di Yair Lapid e dei suoi alleati questo risultato elettorale rappresenta certamente una sconfitta: secondo alcuni lo scontro polarizzato di Lapid con Benjamin Netanyanu e la sua scarsa attenzione alle opportunità date da una fusione dei partiti della sinistra israeliana (tecnica adoperata invece da Netanyahu, che ha patrocinato la nascita del cartello dei Sionisti Religiosi) sembrano aver agevolato l’affermazione della destra. Su un piano squisitamente di tecnica elettorale, in effetti, è innegabile che la corsa unitaria di Labour e Meretz avrebbe avuto ben altra appetibilità, oltre che garantire anche a Meretz di entrare con propri parlamentari nella nascitura 25esima Knesset. L’assenza di un cartello elettorale di sinistra, infatti, ha comportato il mancato ingresso di Meretz in parlamento per una manciata di voti e il conseguente allargamento della “torta” a favore degli avversari. D’altro canto, è pur sempre vero che anche i critici di Lapid hanno la propria dose di responsabilità: si pensi a Benny Gantz, che non ha mai rinunciato alle proprie ambizioni di leadership e che lo ha fatto mantenendo una sorta di competizione sotterranea con Lapid stesso, impostando una campagna elettorale sulle proprie capacità di aggregare anche partiti del campo avversario. Questo non ha certamente dato solidità alla coalizione.
Detto tutto ciò, ci sono alcuni spunti su cui il campo democratico in Israele può riflettere per ripartire: Ra’am, che aveva rotto l’unità dei partiti arabi per entrare nel governo Bennett-Lapid, è stato il partito arabo più votato. Era un esperimento, quello di un partito arabo che governa con gli ebrei e poi si rimette alla volontà popolare, e pare riuscito. Ciò sembra confermare, almeno negli spunti ideali, l’affermazione – ripetuta anche in queste ore dal quotidiano della sinistra Haaretz – che un nuovo paradigma di relazione tra arabi ed ebrei di Israele sarà necessario per costruire un’alternativa, specie se si considera che l’affluenza tra gli elettori arabi è generalmente bassa. D’altra parte, pensare che la risposta del campo progressista non debba passare anche dall’affrontare i problemi di sicurezza percepiti da larga parte della società israeliana rischia di essere l’ennesimo esercizio di pensiero senza aderenza con la realtà, dato il messaggio politico chiaro uscito dalle urne. Dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, il divampare del terrorismo palestinese e le numerose offerte di pace che all’inizio degli anni 2000 i governi israeliani hanno fatto senza ottenere successo, la società israeliana si è progressivamente disillusa rispetto alle possibilità di avere un partner per la pace nel campo palestinese e la risposta securitaria è stata un appiglio per molti.
L’esito di queste elezioni, oltre ad aver confermato queste tendenze dell’opinione pubblica israeliana, rende adesso la democrazia israeliana oggetto di un nuovo stress test: se da un lato le istituzioni democratiche di Israele hanno saputo acquisire e mantenere robustezza al punto da diventare caso di scuola di come funzioni una “democrazia in guerra”, è altrettanto vero che i risultati elettorali di questi giorni sono un nuovo e ulteriore segnale di sfida per lo Stato ebraico.
Di fronte agli attori politici che si riconoscono nel carattere ebraico e democratico sancito dalla Dichiarazione d’indipendenza del 1948 vi è adesso l’incognita di una ultra-destra religiosa ed estremista che sembra sul punto di andare al governo portando in dote una buona performance elettorale.
Finirà quest’ultima col disarcionare colui che l’ha cavalcata finora con la speranza di poterla controllare, e che è il principale responsabile di questo stato di cose e dei rischi che ne deriveranno?
Il cerchio si chiude laddove siamo partiti: Netanyahu, di nuovo.