Dan Fornal/Flickr

CANTAMI, O DIVA

4 Giugno 2020

Negli Stati Uniti, non esiste un’epica di stampo classico, per ovvi motivi.

Il retaggio letterario fondante della nostra cultura europea non può infatti trovare alcun riscontro nella narrativa sociale americana, troppo giovane e derivativa per aver potuto creare delle figure ideali dalle quali far risalire un insieme di valori, di esempi, di punti di riferimento ancestrali, radicati in opere eterne e antiche, capisaldi impressi nella memoria, negli studi e nel vissuto di ognuno di noi. Non esistono l’ira di Achille, la pietas di Enea o la tracotanza di Agamennone.

Eppure, anche per sopperire a questa lacuna, la cultura americana ha infuso la narrativa epica nelle figure che più possono avvicinarsi all’immaginario classico dell’eroe: gli attori, gli artisti, i cantanti e gli atleti, in particolare i giocatori della NBA. Le similitudini e le metafore che si possono fare sono pressoché infinite, ma il mio intento è proprio concentrarmi su due casi in cui il confine fra sport e mito è estremamente labile, su come sia spesso possibile vedere ancora oggi lo sviluppo di nuove figure al confine fra realtà e leggenda, rendendo l’epica classica più attuale che mai

  • DERRICK ROSE, ICARO

Derrick Rose è sicuramente uno dei più grandi rimpianti del basket mondiale. Nato nel 1988, cresciuto ad Englewood, periferia malfamata di Chicago fra le più pericolose degli Stati Uniti, dimostra fin da ragazzo una predisposizione naturale per ”il Gioco”, ed i risultati non tardano ad arrivare: viene selezionato come prima scelta assoluta al Draft NBA 2008 dai Chicago Bulls, squadra in declino in disperato debito di talento e lontana parente del team entrato nella leggenda capitanato da Michael Jordan, figura leggendaria e alla quale il giovane Derrick, dopo un impatto devastante nel mondo del professionismo, viene accostato più volte. Vince il premio come miglior giovane della lega, trascina la squadra ai playoff, porta i Bulls alle finali di conference per la prima volta dopo l’addio di ”His Airness” MJ e le due stagioni successive sono un’entusiasmante ascesa all’Olimpo del basket, fra giocate difensive surreali e incredibili medie realizzative, che lo portano, nel 2011, a vincere il premio come miglior giocatore della NBA all’età di 22 anni, il più giovane di sempre ad ottenere tale riconoscimento: Derrick è la stella più lucente del firmamento sportivo, la luce con cui orientarsi ed a cui affidarsi nella lettura del futuro della pallacanestro, ha ormai aperto le ali ed è arrivato a sfiorare il sole. Ma il 24 aprile 2012, le ali si sciolgono.

In una gara ormai già vinta, a tempo ormai scaduto, il titano di Chicago taglia in due la difesa avversaria come naturalmente faceva ad ogni partita. Salta. Tira. Atterra. Cade. La mano si sposta immediatamente sul ginocchio sinistro. Lo sguardo dolorante. Le mani sul viso. Rottura del legamento crociato anteriore. Stagione finita. Carriera compromessa: Derrick non sarà mai in grado di tornare ai livelli da fenomeno con cui aveva deliziato il mondo intero. Continuerà a giocare, certo, ma lontano da Chicago, lontano dalla leggenda che era e che avrebbe potuto essere. La sua parabola è stata incredibile, degna del figlio di Dedalo, che volò libero per fuggire dal labirinto di Minosse, ma rovinosa, finita con uno schianto fragoroso nel mare per essersi avvicinato troppo al sole, confinato nel limbo dei grandi incompiuti dopo aver sfiorato il cielo. Ma forse, la fugacità del talento di Derrick Rose ed il suo non realizzarsi appieno sono gli elementi che più esercitano fascino, lasciandoci il dubbio su cosa sarebbe potuto essere se solo le ali non si fossero sciolte.

  • IL RE, CLEVELAND, LA GIOCONDA

Il Re è morto. Lunga vita al Re. E’ il 2010 quando LeBron James, il più grande cestista della sua epoca, lascia dopo sette anni i Cleveland Cavaliers, squadra mai vincente e non presente sulla mappa dei grandi team NBA, per portare i suoi talenti immensi in Florida, firmando per i Miami Heat, ben più attrezzati per vincere il titolo, vera ossessione e chimera per la prima parte della carriera del ”Prescelto”, consumato dalle voci della stampa e degli addetti ai lavori, i quali gli contestano che pur avendo il talento per avvicinarsi a colossi della pallacanestro quali Michael Jordan, Kobe Bryant e Magic Johnson, non sia mai riuscito a portare ai Cavaliers il primo trofeo della loro storia. E’ visto, a tutti gli effetti, come un perdente di successo. La scelta paga.

LeBron, nei suoi quattro anni in Florida, vince. Due volte. Ha finalmente le sue vittorie, con le quali cacciare le critiche ed ergersi a dominatore della NBA, può finalmente sedersi al tavolo dei più grandi. O forse no: è vero, James ha trascinato gli Heat alla gloria nel 2012 e nel 2013, ma le sconfitte in finale del 2011 e 2014 bruciano terribilmente. La squadra è fortissima: LeBron è sicuramente la stella, ma al suo fianco è aiutato da giocatori di talento infinito quali Wade, l’amico di una vita, e Bosh, ma soprattutto Miami non è Cleveland, città simbolo dell’Ohio, stato in cui il Prescelto è nato, cresciuto, dalla quale è stato idolatrato e amato, città che ha tradito, andandosene, lasciando una città che per lui ha tramutato tutto l’amore che aveva in odio sportivo (e non) totale. No, non può sedersi al tavolo dei più grandi. Per farlo, deve vincere da sfavorito, sfidando i titani, deve compiere un’impresa. E nel 2014, torna a casa, ai Cleveland Cavaliers, per portare il primo titolo NBA alla squadra della sua terra, per la sua gente. Un’impresa impossibile. Ed infatti, il primo anno LeBron perde ancora.

Nel 2015, primo anno dopo il ritorno a casa, sulla strada fra la gloria e il figliol prodigo c’è una delle squadre più forti della storia della pallacanestro: i Golden State Warriors. Giocano in modo straordinario, rivoluzionario, con il tiratore da tre punti più forte della storia, Stephen Curry, circondato da altri quattro atleti di altissima caratura ed allenati dal visionario Steve Kerr, al tempo compagno di squadra di Michael Jordan ed oggi coach di livello assoluto. Vincono, dominano, tiranneggiano, distruggono i sogni di vittoria di LeBron, sconfitto ancora una volta, lottando ma perdendo nettamente. L’anno successivo, la musica sembra non cambiare: i Warriors stabiliscono il record di vittorie in stagione, superando persino il record dei Chicago Bulls di Jordan, entrando nella leggenda. James trascina la buona ma non irresistibile squadra dei Cleveland Cavaliers alle finali grazie all’aiuto del suo alfiere Kyrie Irving, ma i pronostici sono tutti per l’armata avversaria, ed inizialmente il copione sembra essere rispettato pedissequamente: per vincere il titolo, bisogna vincere quattro volte ed i favoriti conducono la serie 3-1. La storia sembra scritta. Il ritorno a casa non ha pagato, il viaggio di ritorno verso la terra natia rischia di concludersi con l’ennesimo nulla di fatto della carriera di quello che rischia di essere l’eterno secondo più forte della storia dello sport. Ma il destino ha altri programmi, stavolta. E LeBron offre una grossa mano ai piani del destino.

Cleveland rimonta. Vince gara 5 e gara 6, serie pareggiata sul 3-3. La storia si deve scrivere nell’ultima partita. Game 7, a San Francisco, in casa della squadra più forte di sempre. Nessuno finora è mai riuscito a recuperare una serie delle finali NBA dal 3-1 fino al ribaltamento totale e la conseguente vittoria. L’impresa tanto cercata è a portata di mano. La partita è una battaglia all’arma bianca, i corpi si scontrano, la sfida è fisica e verbale: Golden State gioca il suo basket veloce, leggero, crudele e meraviglioso, i Cavaliers reggono guidati dalla potenza marmorea del loro leader, l’equilibrio può essere rotto solo da un episodio che superi la comprensione umana. E ciò accade, ad un minuto a trentatré secondi dalla fine: Igoudala, degli Warriors, corre verso il canestro, in contropiede, verso quello che sembra il canestro che può dare il vantaggio ai campioni in carica, un canestro semplice ma miliare nella storia della partita. Ma proprio mentre sta appoggiando la palla all’interno della rete, da dietro, incrociando la traiettoria in volo, LeBron schiaccia la palla sul tabellone con la ferocia della fame, dopo un salto disumano, dopo una partita di talento e sacrificio. La palla non entra. La palla è nelle mani del re. ”E’ la Gioconda, non è una stoppata”, urla Flavio Tranquillo, commentatore di Sky Sport Italia. La partita è ancora in parità, ma è già vinta, e poco dopo la tripla di Kyrie Irving sancisce ciò che era nell’aria. Primo titolo per Cleveland. Davide ha sconfitto Golia. ”Cleveland, this is for you”, urla un LeBron che si scopre uomo fra le lacrime sue e della gente che lo ha cresciuto, amato, odiato ed amato ancora, e che oggi lo guarda trionfatore, come un Ulisse che, andatosene da Itaca per anni, torna, sconfigge i suoi nemici e si culla nell’abbraccio del suo popolo. LeBron siede al tavolo dei grandi ed entra nella leggenda. Perderà il titolo, l’anno dopo, ancora contro Golden State, ma ciò che ha compiuto cancella tutte le sconfitte che ha dovuto affrontare e come l’eroe acheo, dopo essere tornato nella terra natale, nel 2018 James parte ancora, alla ricerca di nuovi stimoli ed inseguendo nuovi trionfi a Los Angeles. Ma il re è tornato ed ha vinto per poi ripartire. Ed il viaggio sembra lontano dalla sua fine.

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