Massimiliano Calamelli/Flickr

L’ITALIA, L’ASINO DI BURIDANO E “IL MOMENTO POLANYI”

3 Giugno 2020

Nessuno ha la bacchetta magica per superare l’emergenza sanitaria ed economica. La ripresa sarà dura, lenta e graduale nel tempo. Una volta sconfitto il virus, bisognerà battere la disoccupazione che la pandemia ha ulteriormente aggravato, ricostruendo l’apparato produttivo e avviando una nuova fase di crescita. L’abbiamo ripetuto tutti fin troppe volte: l’epidemia di coronavirus è una guerra o forse anche peggio. E ne usciremo soltanto se e quando riusciremo a cambiare il nostro modello di sviluppo, correggendo l’equilibrio attuale fra Stato e mercato.

Ed è proprio quest’ultimo, l’ultimo di una lunga lista, il vero “punctum dolens” del dibattito pubblico italiano. Ne è stata dimostrazione lampante l’aspra battaglia consumatasi tra liberisti da divano e keynesiani della domenica (d’ora in poi, per comodità “LDD vs KDD”). Ne è quotidiana dimostrazione il tentativo dei secondi di rimpiazzare il mantra neoliberista “meno Stato, più mercato” con “più Stato, meno mercato”, o quantomeno, “un po’ più Stato, un po’ meno mercato, o all’occorrenza: q.b”. L’unica certezza è che, mantenendo la qualità del dibattito sull’attuale livello “tifoseria-da-stadio”, faremo la fine dell’asino di Buridano: morto di fame. E se, come ha scritto Claudio Cerasa, i KDD, nemici del mercato globale, hanno usato il virus per dimostrare che la globalizzazione ne ha permesso la diffusione, i loro oppositori del team LDD provano il contrassalto mitragliandoli di “ismi”, vizi, annessi e connessi: clientelismo, assistenzialismo, paternalismo, parassitismo, assenteismo. E Alitalia: un classico che non tramonta mai. Il lockdown si è così trasformato in un’estenuante ermeneutica dal retrogusto di giudizio universale, alla ricerca del colpevole, o malato, tra i “globalizzati e contenti” (secondo un’inversione di Saskia Sassen) e i nazional- keynesiani. I quali continuano a vedere nel coronavirus una punizione divina contro gli inquinatori: un castigo per la smania di guadagno. Pausa.

Parrebbe indubbio che, prima di voler fare l’imprenditore, lo Stato dovrebbe riprendere la guida di sanità, giustizia, scuola, università e ricerca, per esercitare un potere di indirizzo e di controllo assicurando a tutti il livello essenziale delle prestazioni. E per quanto riguarda questi settori, su cui negli ultimi anni in Italia sono stati operati tagli rilevanti, non può bastare evidentemente un intervento solo temporaneo. Ma secondo molti, una volta che sarà superata la pandemia, per uscire dalla crisi occorrerà un intervento straordinario di più lunga durata sull’apparato produttivo e sull’occupazione, in modo da alimentare la ripresa e favorire il rilancio di un mercato più “umano”. Non a caso si potrebbe dunque parlare, dopo aver delineato questo quadro e averne analizzato forze e controforze, di “momento Polanyi”, vale a dire di un possibile movimento di reazione della società e dello Stato contro il crescente predominio del mercato “autoregolato”. Karl Polanyi, economista, sociologo, antropologo e filosofo ungherese, nasce nel 1886 a Vienna. Formatosi nel contesto della migliore cultura austro-ungarica nel suo momento di massimo splendore (Lukács, Mannheim, Sombart, Von Hayek e Von Mises, giusto per citare qualche bella testa del periodo) è considerato il fondatore dell’antropologia economica. La tesi fondamentale del suo capolavoro “La Grande Trasformazione” (1944) è, riducendo il discorso ad un nucleo assai schematico, che “l’utopia liberale” della quale il capitalismo si stava all’epoca facendo portatore era, essenzialmente, una tendenza alla mercificazione totale delle relazioni sociali; il mercato autoregolato era lo scopo e al contempo il mezzo attraverso il quale subordinare la società e lo Stato alla logica dell’accumulazione capitalistica. La particolarità della società di mercato capitalistica, sostiene Polanyi, è che l’economia stessa sia organizzata “economicamente”, cioè secondo norme e motivazioni specificamente economiche. Uno statuto che le assegna un “posto” a sé, separato dalle altre sfere della vita sociale: una novità nella storia umana. Anche il più celebre ai più Max Weber aveva parlato a tal proposito di «razionalizzazione»: dell’economia in primo luogo, ma anche degli altri aspetti della vita sociale. Polanyi però parla di un mercato ormai generalizzatosi: così, parallelamente alla produzione capitalistica, l’economia diviene non solo «razionale», ma anche tendenzialmente autonoma. In parole più masticabili: non è più l’economia ad essere incorporata (“embedded”) nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere incorporati nel sistema economico. Torniamo ora a tematizzare meglio l’idea della venuta del “momento Polanyi”: ne “La Grande Trasformazione” l’economista ungherese parla dell’esistenza di un movimento ciclico, che potremmo definire di tipo antropologico-sociale, caratterizzato dalla realizzazione di politiche radicali pro-mercato e, in seguito, dalla reazione della società contro di esse e contro le profonde lacerazioni da esse causate nel tessuto sociale. Ci sarebbe dunque un arco temporale A di esecuzione a cui segue un arco B di risposta. Guardando alla nostra società attraverso le categorie polanyiane, noi stessi saremmo immersi in un momento di reazione, e, pertanto, staremmo vivendo una “fase B”. Ci sarebbe infatti stata una prima tappa (“movimento A”) trionfale (neoliberismo Thatcheriano e di Reagan) di liberalizzazione progressiva e di nascita e coalizione in suo favore di una classe dal potere politico ed economico transnazionale alla quale, a partire dalla crisi del 2007, starebbe seguendo un’insurrezione mondiale, popolare e nazionale contro una globalizzazione percepita come predatoria, alienante e sempre più incompatibile con i diritti sociali, la democrazia e con la dignità umana.

Ovviamente gli elementi protagonisti de “l’ipotesi Polanyi” erano differenti dagli attuali: l’economista considerò il socialismo come un movimento storico che fu, per molti versi, l’autentica e più valida risposta della società al mercato autoregolato capitalista venutosi a formare tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, ma ritenne al contempo che anche il fascismo potesse essere una risposta di questa medesima società, la quale, in fondo, avanzava richieste di protezione per uomini e donne concreti contro i potenti, contro l’oligarchia, contro un mercato che li aveva sottoposti alla sua logica implacabile. Possiamo così considerare lo Stato sociale come tentativo di mediazione tra un capitalismo regolamentato dallo Stato e le aspirazioni sociali richiedenti piena occupazione, sicurezza e diritti sociali. Con la creazione di quest’ultimo si sarebbe chiuso il ciclo antropologico e sociale che lo stesso Polanyi aveva vissuto. Ma come ipotizzato un nuovo ciclo sarebbe da tempo cominciato e, come sottolinea con forza Polanyi nella sua opera, ci sono, oggi come ieri, due principali vie d’uscita: la “mossa fascista” (“una possibilità storica sempre attuabile”), ovvero lo sbocco nazionalista e autoritario o una radicale trasformazione in direzione della democrazia sociale. E a giudicare dal populismo di destra, dal “noi” che fonda la ricostruzione di identità etniche escludenti, buone solo ad alimentare il razzismo e la xenofobia. A giudicare dai rosari che arginano l’invasione islamica, parrebbe che ad essere stata esclusa sia la prima opzione. E tutta colpa di Salvini, della sua malizia nello sfruttare i sentimenti “de panza” degli italiani, non sarà. Che “il potere è una cosa seria, e di solito logora chi non ce l’ha, ma alla lunga il potere logora anche i fessi che non lo esercitano”. In una congiuntura storica come quella attuale, caratterizzata specialmente a livello europeo da una pesante e duratura crisi economica che viene affrontata con politiche economiche nazionali la cui regola sono i tagli massicci a molti dei tasselli dello stato sociale stesso, in cui molti sono i fallimentari tentativi di politiche che non sono più in grado di capire la società e, tanto meno, di trasformarla, l’analisi e le tesi di Polanyi non suonano solamente come una voce critica ma come un valido strumento ermeneutico. E come un pericolosissimo campanello d’allarme. E allora la speranza è che, durante l’intervallo della partita tra “LDD vs KDD”, quando l’arbitro decreterà che “il momento Polanyi” è giunto, occuperemo quei 15 minuti con una sgambata di “buonsenso”.

LASCIA UN COMMENTO

Your email address will not be published.