La tomba di Alessandro Manzoni al Cimitero Monumentale di Milano - Wikimedia Commons

Casa e lezioni di Alessandro Manzoni, centocinquant’anni dopo

14 Maggio 2023

Il 22 maggio 2023 ricorrono i centocinquant’anni dalla scomparsa di Alessandro Manzoni.

Visito la sua casa in Piazza Belgioioso a Milano per ricordare la grandezza dello scrittore, che qui visse e lavorò per decenni. Il 2 ottobre 1813 acquistò la casa in Contrada del Morone 1171, da Alberico De Felber per 107 mila Lire. Nel febbraio del 1814 avvisò, in francese, l’amico Claude Fauriel dell’acquisto. Elencò le belle piante che crescevano rigogliose nel giardino, oltre che la corte interna; e auspicava che l’amico lo andasse a trovare. Mezzo secolo dopo il Manzoni affidò all’architetto Andrea Boni il restauro delle facciate sulla piazza. Dagli anni Quaranta del XX secolo, il palazzo appartiene al Comune di Milano e ospita il Centro Nazionale Studi Manzoniani. Ai primi dell’Ottocento, Milano era la capitale napoleonica del Regno d’Italia. Ospitava artisti e scienziati, poeti e scrittori. Il centro della cultura italiana.

Qui Alessandro Manzoni si ritagliò sempre di più un ruolo di primo piano. Ha scritto Giulio Carcano nel 1873: «Chi a quel tempo, svoltando dalla piazza de’ Belgioioso nella via del Morone, fosse venuto alla casa del Manzoni, la quale serbava la sua negletta facciata del secolo passato, attraversando il cortile e il portichetto di fronte, per cercare il poeta che la gloria salutava col primo sorriso, l’avrebbe veduto nel suo studio a terreno, a manca dell’andito che riesce in un piccolo giardino. Quello studio, le cui pareti si vedono anche oggi converte all’ingiro da un migliaio di volumi de’ classici antichi e moderni, e degli storici e filosofici d’ogni età e paese, e il giardino ombreggiato da qualche albero antico e sparso d’alcuni cespi di fiori, furono dal principio del secolo l’asilo del poeta». C’è poco da aggiungere: il pianterreno della casa è ancora come l’ha descritto il Carcano.

Lo studio oltre la corte è la prima stanza. La biblioteca ospita oltre tremila volumi e con la camera da letto al primo piano è l’unica rimasta intatta. Il soffitto è verde e rosso. C’è un caminetto, un busto e gli occhialini dello scrittore. Oltre lo studio e prima del giardino, la sala degli incontri. Qui Manzoni spendeva le serate con gli amici, ritratti nei quadri. Era balbuziente e soffriva di agorafobia. Non si direbbe dalla fotografia che lo ritrae appoggiato alle scale, nella sua posa preferita, con la tabacchiera in mano. Con uno sguardo tra la serietà del nonno e la sicurezza di chi ti sfida. Il Nostro è scomparso a ottantasette anni, età notevole per un uomo del XIX secolo. Vide morire mogli, figli e amici. Nella stanza, anche un ritratto di Luigi Tosi, responsabile della mitologica conversione del Manzoni.

Andò così. Manzoni era a Parigi con la prima moglie, la calvinista Enrichetta Blondel, il giorno delle nozze di Napoleone Bonaparte. In un momento di panico, nei pressi della chiesa di di San Rocco, si rifugiò a pregare. Il tema della religione è fondamentale ne I promessi sposi; lo scrittore mandava gli “Inni Sacri” all’amico Wolfgang Goethe, che ne curò tra traduzione in tedesco. Al primo piano di casa Manzoni, il cuore del museo. Le scale di marmo, un tappeto rosso e nessun quadro alla parete color sabbia illuminata da una lampada fioca. Siamo al piano nobile, dove si ripercorre la polemica o il mistero sulla nascita dello scrittore. La madre Giulia Beccaria aveva una relazione con Giovanni Verri, non solo col marito Pietro Manzoni. In età scolare, il Nostro venne rinchiuso in diversi collegi. In tredici anni la madre non andò mai a trovarlo – in questo contesto, si dice, sviluppò la balbuzie.

Giulia poi s’innamorò di Carlo Imbonati e si trasferì a Parigi, dove il figlio l’avrebbe poi raggiunta. Chi era il giovane Manzoni? Un tipo allegro, intriso di ideali romantici, che amava il gioco alla Scala, dove una volta venne rimproverato pubblicamente da Vincenzo Monti in persona. Con la Blondel, che si convertì come lui al cattolicesimo, si sposò il 6 febbraio 1808. Dei tanti figli avuti da Enrichetta – scomparsa prematuramente il 25 dicembre 1833 – solo due sopravvissero. Nella stanza è conservato anche l’ultimo ricamo a mano (un putto) fatto da Maria Antonietta. Arrivò aGiulia tramite un passaggio tra contesse che volevano fare un omaggio alla figlia di Cesare Beccaria, grande oppositore alla pena di morte. La seconda sala era quella da pranzo. Oggi ospita i ritratti del Manzoni: da quelli in matita dell’infanzia a quelli ad olio della senilità. Alessandro Manzoni non amava farsi ritrarre.

Dal giovane ragazzo sognatore con la camicia aperta e gli occhi in estasi al cielo, all’uomo con le basette lunghe e i capelli disordinati, fino all’anziano burbero in completo e cravatta. Il ritratto più famoso, commissionato a Francesco Hayez dal figliastro Stefano Stampa – figlio di Teresa Borri, la seconda consorte di Manzoni – si trova alla Pinacoteca di Brera. C’è anche un busto con Giuseppe Garibaldi («l’uomo che onora tanto l’Italia»), che Manzoni incontrò nel 1862 nel suo studio al pianterreno. Nel secondo incontro del 1864 Garibaldi gli portò dei fiori, che il Manzoni essiccò e conservò. Come a Villa Manzoni a Lecco, anche nell’abitazione di Milano c’è una stanza tutta rossa. Calda, accogliente, ospita le litografie delle scene de I promessi sposi. Spiccano “L’addio a Cecilia” – trascinata via dai monatti – e l’addio ai monti sorgenti. Anche due busti: di Renzo e Lucia, naturalmente.

La stanza successiva ospita le opere che la Stampa portò con sé dopo il matrimonio. Era la camera da letto. Ma quando anche la seconda moglie spirò, Manzoni si spostò nella stanza accanto, dove morì il 22 maggio 1873, alle 18:15. Sopra il letto, un piccolo crocefisso: di nuovo l’elemento religioso che lo accompagnò fino alla fine. La casa del Manzoni a Milano conserva alcune edizioni della “Ventisettana” e della “Quarantana”, nonché una copia scritta a mano dall’autore de “Il cinque maggio”. Attraversando il corridoio verso l’ultimo dei tre lati della casa, si arriva a quelle che un tempo erano le stanze dei figli. Appassionato di botanica, Manzoni amava passeggiare e detestava la pioggia. Alcuni dipinti raffigurano la sua casa di Brusuglio, oggi nell’hinterland milanese, tra Cormano e Cinisello Balsamo. Un cappello di paglia e due canne; poi il mantello scuro da esterno, l’ombrello e la tuba.

Non si può ignorare il servizio che Alessandro Manzoni ha reso alle generazioni presenti e future se non si ricorda anche un piccolo testo, appendice allora del suo celebre romanzo storico. La storia della colonna infame è un saggio che ripercorre la tragica fine di Gian Giacomo Mora, giudicato “colpevole” di aver sparso la peste a Milano nel 1630. Condannato da folla e tribunali, il suo caso fu l’esempio del populismo penale e della malagiustizia che già allora piagava l’Italia. Il 31 gennaio 2023, presso il Tribunale di Milano, è stata depositata una targa che ricorda la sua orrenda vicenda. «A lui e agli innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fantasmi restituiscono per sempre la dignità e onore i responsabili difensori della giustizia fedeli alla illuminata lezione di Pietro Verri e di Cesare Beccaria eletta a codice di umanità dalla coscienza morale e civile di Alessandro Manzoni».

Ci si augura che queste parole non rimangano sepolte in tribunale, ma che riflettano la direzione delle istituzioni italiane: verso la compassione, prima dell’esecrazione; verso il dubbio, prima della certezza. Oggi a scuola si leggono ancora I promessi sposi … Se in età scolare è difficile comprendere – e spesso manca la voglia – tutte le sfumature umane descritte dall’autore, solo in seguito si capirà quanto sia utile avviarsi alla vita adulta con almeno qualche elemento dell’autore milanese. Il Manzoni è stato un uomo saggio, dalla prosa asciutta e raffinata. Uomo sensibile e colto, severo ed affettuoso, ha ancora molto da insegnare agli italiani. Lui, che facendo una diagnosi perfetta del cittadino medio del diciassettesimo secolo – il pavido don Abbondio, l’impulsivo Renzo, il santo Fra’ Cristoforo, l’invidioso Don Rodrigo – e delle sue ipocrisie scrisse che: «Il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

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