Roberto Mancini e i campionati europei ce lo hanno fatto capire: la qualità non è più un optional. Per questo l’Italia calcistica è chiamata ad aggiornarsi, partendo dagli allenatori.

Ai piedi dei colli fiorentini si trova il quartiere di Coverciano. Per gli amanti del pallone è impossibile non collegare questo nome ai colori azzurri della Nazionale: dal 1958 infatti il “Centro Tecnico Federale Luigi Ridolfi” è il luogo di formazione degli allenatore del “Bel Paese”. Per anni Coverciano è stato il fiore all’occhiello della nobile scuola italiana che sfornava maestri di tattica capaci di vincere in ogni parte del mondo. Chiamare un allenatore italiano era sinonimo di successi, un tempo. Basti pensare a tutto quello che è stato vinto dai vari Trapattoni, Capello, Sacchi, Lippi e Ancelotti negli anni compresi tra il 1990 ed il 2010: nessuna Nazione poteva vantare un numero così ampio di allenatori di livello.
Come nelle più classiche storie, si è finiti per rimanere a crogiolarsi nei successi senza cercare criticità su cui lavorare. Quello che si è vissuto negli ultimi 10 anni è stato un impoverimento di contenuti e di avanguardie che prima avevano contraddistinto i tecnici azzurri. Come è potuto succedere questo?
Partiamo dall’annoso problema della autocelebrazione: ancora oggi infatti si è convinti nel considerare gli allenatori italiani un’eccellenza indispensabile all’universo calcio. Poi però alla domanda “Quale è il miglior allenatore italiano ad oggi?” molti ti rispondono “Massimiliano Allegri”. Partendo dal fatto che chi scrive queste righe è un assoluto estimatore di Max, se il miglior allenatore della tua scuderia rimane senza panchina e lavoro per due lunghi anni vuol dire che il tuo roaster non è così di qualità come pensi. Nella Serie A dell’anno scorso l’unico ad aver mai vinto uno scudetto dei 20 allenatori era Antonio Conte. Nessuno invece dei tecnici della stagione 2020/2021 aveva mai vinto un trofeo internazionale. Eppure ci viene venduta come una Grandiosa Scuola quella italiana.
Cannavò ha sottolineato più volte nei suoi editoriali come ormai la scuola di Coverciano sia appannaggio esclusivamente di ex calciatori. Non vengono premiate le idee ma i passati degli studenti. Ed è così che allenatori come Sarri diventano un’eccezione invece che una costante . Essendo diventato quindi un ambiente estremamente elitario va a mancare la voglia di aggiornamento ed i confronti con un grande numero di colleghi.
Si è rimasti in un clima eremitico, senza aprirsi alle correnti di calcio che invece si sviluppavano all’estero. La grossa differenza si vede nel concetto di qualità.
Torniamo sempre su Allegri. “Cos’è il bel gioco? Ci sono allenatori che vincono sempre ed allenatori che perdono sempre. Questo conta.” Questa sua massima, forse frutto più dell’esasperazione giornalistica che di un pensiero approfondito, rappresenta in pieno quella che è stata la concezione italiana. L’importante è fare il risultato, poi successivamente si può pensare alla qualità. Con altre parole ma stessi concetti si sono poi schierati molti allenatori italiani, da Ballardini a D’Aversa, da Gattuso a Conte, fino ad arrivare alla matricola Pirlo. La “tattica per vincere” è la cosa più importante.
Il problema è che senza la qualità in primis delle idee non vinci nel calcio di oggi. E questo Mancini ce lo ha mostrato chiaramente. La qualità non è più un surplus da aggiungere dopo i successi, ma un mezzo per raggiungerli. Vincere le partite senza la qualità è come di vincere una maratona senza le scarpe: succede una volta ogni 60 anni (Abebe Bikila ndr.).
Perchè questa Italia ci ha conquistato? Perchè è diversa, è una squadra che cerca di imporre il proprio gioco a prescindere da chi ha davanti. Sfacciata, arrembante e vogliosa di dimostrare. Non ci ha di certo conquistato per quei valori che erano diventati tipici del nostro calcio, ovvero sacrificio, fatica e capacità di soffrire. Quest’ultima è una qualità fondamentale da adottare in casi estremi (vedasi la semifinale con la Spagna), non come stile costante di gioco. L’Italia del tanto memorabile 2006 nonostante un centrocampo di primissima fascia (andatevi a leggere i nomi ed i rispettivi palmares) soffrì il palleggio dei ben meno quotati colleghi australiani e ucraini, a causa di una indole di gioco votata al dispendio tattico piuttosto che al dominio tecnico.
Mancini ci ha liberato da queste catene che ci avevano affossato. La qualità al centro del progetto valorizzando dei percorsi di crescita che mirino allo sviluppo tecnico. Non è un caso che una buona componente dei nazionali sia passata di recente sotto la guida nei club di Maurizio Sarri, Roberto De Zerbi o Gian Piero Gasperini, considerati gli allenatori “giochisti” italiani. Il tanto vituperato “bel gioco” è un mezzo, non un obiettivo ultimo. Senza di esso non si fanno risultati.
Un esempio? La pessima stagione europea delle italiane. Tra Europa League e Champions League 6 squadre su 7 erano già fuori agli ottavi di finale. Tutte erano allenate da un mister italiano. L’unica delle sette arrivata fino in semifinale è stata la Roma, guarda caso allenata da un mister straniero, Fonseca.
La Nazionale di Mancini non è stata che l’ennesima conferma di come il calcio italiano (nel senso di giocato in Italia) sia ben lontano dall’essere un punto di riferimento nel 2021. La speranza di chi scrive questo articolo è che questo percorso possa davvero dare una scossa agli equilibri conservatori che ancora ci fanno mettere un difensore al posto dell’attaccante all’80mo per difendere il risultato.