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DOMANI RISSA, CHE BELLO

9 Settembre 2020

Non è bastata la tragedia. No. È stato necessario trovare immediatamente un capro espiatorio, così da scatenare i social. Quelli lì s’ascoltavano tutto il giorno musica dai testi sguaiati, violenti, maschilisti, al limite del “penale”. Erano fighters e avevano la «licenza» di dare pugni, calci e prodursi in prese da lotta libera. Si pompavano tutto il giorno all’insegna del culto del corpo e della forza bruta. Uccidere qualcuno è il minimo che potessero fare.

È il solito ritornello: le narrazioni di cronaca nera si nutrono di titoli gossippari. Fanno dell’indiscrezione la loro cifra fondamentale. Della gogna mediatica il loro tribunale. Del dettaglio la ricostruzione sistematica, servendosi di una cultura visuale caratterizzata da produzione e consumo crescenti di immagini, togliendone la gestione e la titolarità esclusiva ai soggetti politici e ai media mainstream ed estendendola agli utenti e ai fruitori della rete secondo un processo di partecipazione dal basso, che sta ridisegnando le logiche e le dinamiche dell’informazione. La diffusione di toni forti, un uso crescente di attacchi diretti e registri negativi, nonché l’esaltazione della dimensione emotiva, l’evocazione dei sentimenti, la trasformazione dei lettori (e degli e-lettori in politica) in un pubblico affettivo, sono alcune delle principali conseguenze della diffusione di questi nuovi strumenti di comunicazione. E se la civiltà di una società corrisponde alla neutralità che gli organi d’informazione si impegnano a mostrare nei confronti di certi, delicati fatti, allora welcome to the jungle: terra del linciaggio virtuale, del gusto per lo scandalo pubblico. Civiltà del giustizialismo, la nostra, che si sostanzia nell’insopportabile condotta della stampa, che sempre più spesso finisce per trasformare le garanzie del sistema giudiziario in coltelli affilati, alimentando un deficit evidentemente culturale.

E certo che no, il fatto che un ragazzo sia stato pestato a morte da 4 energumeni nella notte di sabato 5 settembre non è un semplice episodio di “cronaca nera”, per le evidenti implicazioni sociali, culturali e di costume. Approfondire la personalità degli imputati (probabilmente mi sono perso il fatto che siano già stati rinviati a giudizio) è doveroso, da parte del giudice, per formulare un giudizio ben meditato. Ma l’inciso è fondamentale: “da parte del giudice”. Non dai giornali, non dalla folla con la bava alla bocca. Altrimenti l’approfondire scade nei titolacci del Corriere, nel “era un ragazzotto sveglio che faceva il fruttivendolo”, ma poi si pompava alla morte, che si faceva e ascoltava le canzoni trap, che parlano di prostitute, di sgualdrine, sul palco dicono le parolacce, dicono stronza, puttana, e parlano di amore a tre, di passioni ambigue, di gang. E dove andremo a finire, signora mia? E certo che sì, è difficile credere nella giustizia e nella sua efficienza, in una società impoverita di valori e spazi per chi cresce non sempre all’ombra di un bosco incantato o in famiglie illuminate e in quartieri dove le panchine non vengono sfasciate. 

Però ricordiamo sempre che «con le parole si fanno le cose», come insegnava il filosofo John L. Austin: che le parole diventano cose nell’esatto momento in cui vengono pronunciate o scritte. Non si può parlare di semplice descrizione, semplice cronaca. La scelta delle parole dà forma al racconto, lo rende visibile, diventa contenuto. Con le parole si possono “etnicizzare” le notizie. E lo sappiamo bene: ricordate il caso dell’omicidio di Emanuele Morganti, un ventenne ucciso ad Alatri, in provincia di Frosinone, la notte tra il 25 e il 26 marzo 2017. Il giovane è stato picchiato molto violentemente dopo un futile litigio da un gruppo di persone, ed è morto qualche ora dopo in ospedale. Nei giorni immediatamente successivi, la maggior parte dei media ha riportato la partecipazione di diverse persone «albanesi» nella rissa: si è parlato di «branco di albanesi», di un «patto tra italiani e albanesi per massacrare Emanuele». Ad oggi, i quattro indagati per omicidio volontario sono tutti italiani, nessuna persona di origine albanese era presente nel luogo dell’omicidio.

Un esempio tra tanti che fa comprendere quanto sia cruciale restituire un’informazione corretta su temi ed eventi che concernono la quotidianità e la sicurezza delle persone.

Così la tragedia della morte di Willy, che merita silenzio, vera giustizia e decoro, si è trasformata ben presto, trainata da titoloni che surfavano sui muscoli dei 4 pestatori, in un attacco alle palestre, fomentatrici di violenza, e in una censura della musica che parla di sesso e di droga. Quando invece si sarebbe dovuto parlare di come si debba dare una cultura alternativa in origine al vortice onnipervasivo della prevaricazione e del culto della forza fisica. Perché anche i coltelli da cucina possono ammazzare, se non vi è educazione e perché la proibizione, quando si tratta di problemi culturali, serve a poco, pochissimo.

Chi scrive è ampiamente concorde ad una strofa de “lo Stato Sociale” che fa:

“Mi sono rotto il cazzo

Dei fascisti col culto del corpo

Che diventano campioni di greco-romana

E poi fanno gli agguati ai ragazzini di notte

In cinque contro uno.”

Ma è anche fermamente convinto che a sta benedetta Dea della giustizia, nel bene e nel male, non vada mai tolta la benda.

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