Giappone autodifesa collettiva Indo-Pacifico
Fonte: Japanese Ministry of Defense website

Giappone: l’autodifesa collettiva e le sfide nell’Indo-Pacifico

22 Settembre 2022

In un contesto geopolitico in continuo mutamento, segnatamente nel continente asiatico, il Giappone è chiamato ad affrontare sfide crescenti, in particolare quella di contrastare l’ascesa cinese che, negli ultimi decenni, è parsa inarrestabile. Il paese del Sol Levante ridefinisce la strategia attorno ai concetti di Indo-Pacifico e autodifesa collettiva

Rivendicazioni territoriali, contese economiche, militarismo nei mari del Pacifico e, in generale, una situazione politico-diplomatica sempre più tesa, hanno spinto il governo di Tōkyō a una ridefinizione della strategia nazionale.

Mentre la crescita economica cinese sembra subire una battuta d’arresto, è più che mai vivo lo scontro tra il gigante asiatico e gli Stati Uniti, impegnati a limitare la crescente influenza militare del primo nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan.

Impossibilitato a restare a guardare, negli ultimi anni il Giappone ha messo in atto una serie di misure che vanno dall’economia agli investimenti, passando per il settore militare, per ampliare il suo raggio d’azione e far fronte alle sfide che si prospettano nei prossimi decenni.

Le conseguenze della sconfitta nella seconda guerra mondiale

Il nuovo contesto asiatico ha costretto Tōkyō ad abbandonare il “pacifismo costituzionale”, inaugurato a seguito della disfatta giapponese nella seconda guerra mondiale, la quale portò conseguenze che si ripercuotono ancora oggi.

Gli Stati Uniti d’America, dopo il successo militare sull’Impero giapponese, imposero dure condizioni al paese: prima fra tutte, l’obbligare l’Imperatore Shōwa (昭和), conosciuto con il suo nome personale Hirohito (裕仁), a comunicare via radio la resa del Giappone. Il messaggio andò in onda il 15 agosto e fu la prima volta che i giapponesi udirono la voce dell’Imperatore.

Il 1° gennaio del 1946 l’Imperatore Hirohito, con la cosiddetta “Dichiarazione d’umanità”, annunciò al popolo giapponese:

«Il legame fra noi e il nostro popolo si è sempre fondato sulla reciproca fiducia e il reciproco affetto. Esso non deriva da semplici leggende o miti. Non si basa sulla falsa concezione secondo la quale l’imperatore sarebbe divino e secondo la quale il popolo giapponese sarebbe superiore ad altre razze e predestinato a governare il mondo».

Il discorso dell’imperatore introdusse un nuovo corso per il paese: con esso Hirohito rinunciava alla sua natura divina e inaugurava il periodo costituente, che si concluse un anno dopo con la promulgazione della Costituzione del Giappone (日本国憲法).

La Carta Fondamentale giapponese fu redatta sotto forte influenza statunitense. Dei 103 articoli, quello che ancora oggi resta il più famoso e discusso è il numero 9, che recita:

«Nella sincera aspirazione alla pace internazionale, basata sulla giustizia e l’ordine, il Popolo Giapponese rinuncia per sempre alla Guerra quale sovrano diritto della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per la risoluzione delle dispute internazionali».

«Allo scopo di raggiungere l’obiettivo di cui al precedente paragrafo, le forze di terra, di mare ed aeree, così come le altre potenzialità belliche, non saranno mai mantenute. Non sarà riconosciuto il diritto dello stato alla guerra».

Il Giappone, quindi, dismise le sue forze armate, rinunciando per sempre alla guerra. Non molto tempo dopo, però, nel 1954, il paese, consapevole dell’oggettiva anomalia di rinunciare a qualsiasi tipo di difesa, ripristinò l’esercito, l’aeronautica e la marina sotto il nome di Jieitai (自衛隊), Forze di Autodifesa del Giappone. Come suggerisce il nome, le forze armate avevano – ed hanno tutt’oggi – il solo ed unico scopo di difesa in caso di attacco diretto sul territorio giapponese, con lo stringente obbligo di impiegare solo il minimo indispensabile della forza.

Il Giappone del dopoguerra

Il Giappone entrava così in una nuova era, in cui le ambizioni imperialistiche ed egemoniche furono estirpate dai propositi dei governanti e, soprattutto, dalla mentalità della popolazione. Sotto l’ombrello protettivo americano, i giapponesi si dedicarono alla ricostruzione e allo sviluppo del paese, oltre che all’arricchimento personale.

Il processo che intraprese il paese fu una rivoluzione vera e propria, condotta in maniera inizialmente silenziosa, al riparo da occhi indiscreti, con il duro lavoro della popolazione. Una rivoluzione profonda, germinata da un paese che, ancora oggi, viene superficialmente considerato come eccessivamente conservatore e incapace di adattarsi ai cambiamenti mondiali. In pochi decenni, il Giappone, paese oramai pacifico e amichevole, pur restando terra dal fascino misterioso e dalla cultura impenetrabile, si aprì maggiormente al mondo, adattandosi al nuovo corso che gli statunitensi imposero a tutti i paesi finiti nella sua sfera di influenza.

Delegando (su imposizione) al gigante a stelle e strisce la gestione della difesa – gli Usa si insedieranno in pianta stabile sul suolo giapponese, installando numerose basi militari che ancora oggi rappresentano uno dei cardini dell’apparato militare nel Pacifico – il popolo giapponese, trasformando la furia e sete di dominio in dedizione alla causa della ristrutturazione del paese, si rese protagonista di un’ascesa che oggi, a ragion veduta, viene definita il “miracolo economico” (dai giapponesi definito molto più sobriamente “forte crescita”).

Nel giro di pochi decenni, il Paese del Sol Levante divenne leader indiscusso in numerosissimi settori, dalla tecnologia all’elettronica e l’automotive. Una crescita poderosa che portò il paese a diventare la seconda economia del mondo. Quelli dai ’50 agli ’80 furono decenni di grande crescita demografica e urbanistica: le tipiche abitazioni in legno, che avevano caratterizzato il paesaggio urbano nipponico, lasciarono spazio a grattacieli, e le strade e i vicoli divennero un concentrato di luci al neon, che resero il Giappone un mondo nuovo, proiettato nel futuro.

La politica espansiva, resa possibile soprattutto da una dedizione assoluta dei lavoratori alle loro aziende – generando invero non poche crisi sociali riguardanti l’eccesso di lavoro, criticità che ancora accompagnano il paese – subì un profondo stop a partire dagli anni ’90, il cosiddetto “decennio perduto”, a causa dello scoppio di una bolla speculativa legata al settore immobiliare e al mercato azionario. Da quel momento, quella che sembrava una crescita inarrestabile fece spazio a una serie altalenante di periodi di crisi e riprese dal quale il paese non è ancora definitivamente uscito.

Il nuovo contesto geopolitico costringe il Giappone a cambiare approccio

Come già capitato numerose volte nel corso della sua storia, il mutato contesto geopolitico sta spingendo il Giappone a modificare la politica estera, con effetti che si riverberano anche sull’opinione pubblica. Il tentativo di invasione mongola del XIII° secolo, l’apertura forzata al commercio da parte degli statunitensi nel 1853, così come la sconfitta nella seconda guerra mondiale, sono alcuni degli episodi che hanno modificato la politica estera del paese.

In questo secolo, l’elemento esterno che rompe l’equilibrio del Giappone – e di tutto il continente asiatico – è chiaramente la Cina. La poderosa crescita economica dell’ingombrante vicino, infatti, è stata accompagnata da una postura maggiormente assertiva in tutto il quadrante Indo-Pacifico, generando, inevitabilmente, non poche preoccupazioni per Tōkyō.

Specificamente, i rapporti tra Giappone e Cina si sono incrinati tra il 2012 e il 2013 a causa di una disputa territoriale relativa alle isole Senkaku, chiamate dalla Cina “Diàoyú”. Queste sono tre isole che la Cina reclama come parte del suo territorio, tanto che, in molteplici occasioni, la marina e l’aeronautica cinese hanno condotto incursioni nello spazio aereo e marittimo che circonda le terre.

Il concetto di Indo-Pacifico

La crescita della Cina e le dispute territoriali intraprese da quest’ultima hanno convinto la classe dirigente giapponese a rivedere il sistema di sicurezza dell’arcipelago. La Cina, mutando radicalmente la propria politica estera, fino ad allora sintetizzata nell’espressione di “crescita pacifica”, ha iniziato a reclamare per sé maggiori spazi e privilegi che, inevitabilmente, contrastano con i propositi nippostatunitensi nell’area.

Questo fenomeno, oggi evidente a molti, fu intravisto dai giapponesi più di un decennio fa. A loro, infatti, è da attribuire la nascita del concetto di Indo-Pacifico, che oggi trova ampio spazio nei giornali e negli articoli accademici.

Come spiegato in maniera approfondita da Giulio Pugliese nel rapporto “La strategia europea nell’Indo-Pacifico: genealogia politica, sicurezza marittima e interessi economici”, il concetto di Indo-Pacifico nasce nel 2006 come una teorizzazione strategica del Giappone, finalizzata a controbilanciare la sempre maggiore influenza e assertività della Cina nella regione. Lungi dall’essere un mero riferimento geografico – avrebbe poco senso inserire nello stesso spazio un’area che va dagli Stati Uniti alle coste orientali dell’Africa – l’Indo-Pacifico fa riferimento a tutte quelle dinamiche politiche, economiche e militari che insistono nello spazio di azione della Cina e che, inevitabilmente, si sovrappongono agli interessi dei numerosi paesi dell’area.

Nel 2007, l’allora primo ministro giapponese Abe Shinzō (安倍 晋三), scomparso recentemente a causa di un attentato [ne abbiamo parlato qui], in un discorso al parlamento indiano parlò della “confluenza dei due mari”, un’espressione che, come ricorda Geopolita.info, è tratta dal libro del principe moghul e scrittore persiano Dara Shikoh (1655). L’esplicitare la confluenza dei due mari serviva al Giappone per porre all’attenzione di tutti i paesi asiatici (e anche occidentali) l’importanza della libera navigazione e della libera circolazione di merci, persone, servizi etc.

La nuova strategia giapponese, elaborata da Abe e i suoi consiglieri – e che allora veniva sintetizzata nell’espressione “Arco della libertà e della prosperità” -, mirava a promuovere una serie di attività in collaborazione con i paesi che condividono i valori universali della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Il riferimento ai paesi democratici, chiaramente strumentale, individuava gli attori principali dell’area: Giappone, Australia e India, ai quali si aggiungeva naturalmente il gigante statunitense. Quella proposta di alleanza, che oggi è diventata il Quadrilateral Security Dialogue (Quad), passando prima per il concetto “Democratic Security Diamond”, ha origine quindi nel decennio scorso.

Contemporaneamente, il Giappone, pur mettendo al centro della sua strategia l’alleanza nippo-statunitense, ha allargato il suo raggio di azione ad altri paesi, sostanzialmente tutti quelli preoccupati dalla forte crescita cinese, introducendo un nuovo concetto molto meno restrittivo, ovverosia quello di “Indo-Pacifico Libero ed Aperto” o FOIP (Free and Open Indo-Pacific). Siamo nel 2016 e le mire espansionistiche della Cina, che prima erano solo una previsione o un timore, sono diventate un dato di fatto.

Il governo Abe, quindi, introdusse formalmente la strategia dell’“Indo-Pacifico Libero ed Aperto”, intesa come una «rete di nazioni e organizzazioni regionali che apprezzano la libertà, lo stato di diritto e l’economia di mercato che sono “libere dalla forza o dalla coercizione” e fungono da fondamento per la pace e la prosperità».

Il richiamo alla democrazia e alla libertà viene quindi ampliato, facendo riferimento al diritto internazionale, e in particolare alla libertà di navigazione. Pur non nominando esplicitamente la Cina, l’obiettivo di contrastarne ascesa ed influenza è evidente, soprattutto considerando il periodo storico di riferimento, in cui la Cina iniziava a proporre il progetto della “Belt and Road Initiative” (BRI).

L’Indo-Pacifico entrava così a far parte del lessico diplomatico comune tra i paesi alleati degli Stati Uniti, trovando spazio nelle strategie anche dei paesi europei. Come ricorda Pugliese nel già citato rapporto: «la diffusione di questo concetto eminentemente politico è stata resa possibile anche attraverso il sapiente operato della diplomazia pubblica giapponese. L’Australia, l’India, gli Stati Uniti d’America, la Francia, i paesi ASEAN, e quindi anche la Germania, i Paesi Bassi e il Regno Unito hanno adottato, nei passati quattro anni, strategie, linee guida o riferimenti programmatici all’Indo-Pacifico. Da ultimo è stata la volta dell’Unione Europea che si è dotata di una strategia a seguito di un’iniziativa congiunta a guida franco-tedesco-olandese a fine 2020».

Il dinamismo giapponese in Asia

La strategia giapponese non si è limitata all’introduzione del concetto di Indo-Pacifico. Nell’ultimo decennio, il Giappone, con il solito stile silenzioso e sofisticato, ha messo in atto una serie di misure molto ben elaborate per limitare l’influenza cinese: dall’economia agli investimenti, passando per il campo militare e infrastrutturale, sono state molte le novità che hanno visto protagonista il Paese del Sol Levante.

Avendo delineato il raggio di azione nella macro area dell’Indo-Pacifico, il governo di Tōkyō si è mosso anzitutto per diluire l’influenza della Cina nei paesi del Sudest Asiatico e che affacciano sul Mar Cinese Meridionale, specchio d’acqua di importanza strategica fondamentale, che Pechino rivendica nella sua quasi totalità [ndr: ne abbiamo parlato nell’articolo su Taiwan].

Lo spazio di maggior competizione economica tra Giappone e Cina è quello del Sudest Asiatico, e in particolare i paesi indocinesi del Mekong. La competizione Cina-Giappone nell’area è particolarmente evidente nel campo delle infrastrutture, soprattutto ferroviarie, con la Cina che sta sviluppando maggiormente le infrastrutture con direttrice nord-sud, mentre il Giappone quella est-ovest.

Come si legge nel rapporto del Center for Asian Studies “Catching Up or Staying Ahead: Japanese Investment in the Mekong Region and the China Factor” a cura di Françoise Nicolas, il Giappone ha risposto all’“Asian Infrastructure Investment Bank” (AIIB), sostenuta dalla Cina, lanciando l’iniziativa “Partnership for Quality Infrastructure” (PQI) con l’obiettivo di finanziare le infrastrutture dei paesi del Mekong, vero e proprio terreno di sfida tra i due paesi, benché entrambi tendano a investire in settori e attività differenti, nel tentativo di evitare un confronto diretto. Emblematico, a tal proposito, è il caso del Vietnam, dove la Cina ha finanziato la ferrovia di Hanoi, mentre il Giappone quella di Ho Chi Minh/Saigon.

Inoltre, il Giappone ha anche attuato una politica di prestiti e sovvenzioni per strade e ponti, al fine di creare un ambiente più favorevole per gli investimenti delle imprese giapponesi, oltre che per favorire la connettività all’interno dell’area.

Dati di BMI research, citati nel rapporto dell’Asian Studies, dicono che nel periodo 2010-2016 il Giappone ha finanziato 237 progetti infrastrutturali nell’Asean (Association of South-East Asian Nations), contro i 191 della Cina. In un articolo del 2018, il “The Japan Times” riporta che l’investimento infrastrutturale del Giappone, dagli anni 2000 in avanti, sia completato che in corso, è stato di circa 230 miliardi di dollari, a fronte dei 155 miliardi della Cina.

Complessivamente, anche a seguito dello scoppio dell’epidemia da Covid-19, sempre più imprese giapponesi stanno guardando con interesse la regione del Mekong. La presenza giapponese nell’area era iniziata circa a metà degli anni ’80, ma nel corso del tempo le imprese giapponesi avevano iniziato a prediligere la Cina. La tendenza è stata invertita intorno al 2012, quando si è registrato un calo degli investimenti in Cina a favore dei paesi dell’Asean.

Il Giappone, infatti, ha iniziato a investire massicciamente in Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam, con quest’ultimo visto con particolare attenzione dato il costo della manodopera ancora basso ma accompagnato da un’economia in forte crescita, stabilità politica, una emergente classe media e una forte diffidenza nei confronti della Cina. Proprio per questo, il Vietnam è visto da molti analisti come il paese più adatto in caso di trasferimento degli investimenti dalla Cina, benché gli oggettivi limiti demografici e territoriali rendano palese l’impossibilità di spostare totalmente le produzioni che oggi hanno sede in Cina.

Il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership

Accordi e investimenti in specifici paesi sono incastonati nella più ampia rete di accordi e trattati in Asia di cui il Giappone è protagonista.

Su tutti merita menzione il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP o TPP11), un progetto finalizzato alla regolamentazione degli investimenti regionali, cui hanno preso parte, insieme al Giappone, Singapore, Vietnam, Brunei, Malaysia, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Cile, Messico e Perù.

Il trattato, nato dalle ceneri del Partenariato Trans-Pacifico (TPP), progetto che comprendeva anche gli Stati Uniti e abbandonato agli inizi della presidenza Trump, è stato sottoscritto l’8 marzo del 2018 a Santiago del Cile e mira, tra le altre cose, all’eliminazione delle tariffe doganali sui prodotti manifatturieri, alla redazione di regole per gli investimenti e per le imprese statali e monopoli dei paesi firmatari, appalti pubblici ed e-commerce e agli scambi transfrontalieri di servizi.

Dal pacifismo costituzionale all’Autodifesa collettiva

La strategia di Tōkyō non si limita esclusivamente alla dimensione economica, ma anche e soprattutto a quella militare. Come ricordato, il Giappone continua a essere sottoposto alle limitazioni in campo militare imposte dagli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

La relazione dei giapponesi con l’apparato militare era di aperta diffidenza, ma la palese anomalia di un paese senza forze armate costrinse ben presto i governanti – e gli stessi Stati Uniti – a ripensare quest’approccio, seppur in ottica puramente di autodifesa.

Il primo importante passo fu la firma del Trattato di San Francisco del 1951, che restaurò la piena sovranità dei giapponesi dopo l’occupazione americana. In particolare, come membro della comunità internazionale a tutti gli effetti, il Giappone poté vedersi riconosciuto il diritto all’autodifesa come sancito dall’Art. 51 della Carta delle Nazioni Unite:

«Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».

Superato il primo grande ostacolo, il Giappone istituì un apparato di sicurezza e rifondò le forze armate, pur ribadendo a più riprese il totale rispetto della Costituzione, limitando l’ipotetica azione militare a rischi imminenti di invasione del territorio e ribadendo l’uso minimo indispensabile della forza.

Le forti limitazioni, unite soprattutto a un’opinione pubblica fortemente sostenitrice del “pacifismo costituzionale”, hanno fatto sì che il Giappone riuscisse, non senza critiche, a svincolarsi quasi totalmente dai vari impegni militari che hanno visto coinvolti i paesi alleati degli Usa.

A seguito dell’emanazione della Legge sulla cooperazione internazionale del 1992, le forze di autodifesa sono state impiegate in missioni di “Peace Keeping, limitandosi prevalentemente al supporto logistico, assistenza medica, rimpatrio dei rifugiati e altre azioni della stessa natura, oltre a supportare economicamente la coalizione internazionale capitanata dagli Usa.

Anche a causa di questa eccessiva ritrosia del Giappone all’impiego dei militari, unita alla tendenza a limitarsi ad aiuti economici, i paesi ONU accusarono il Giappone di ricorrere alla cd. “diplomazia da libretto degli assegni” per risolvere le dispute internazionali.

Il maggior impiego poi si vedrà anche con due distinti leggi temporanee, una del 2001 sulle “Misure Speciali Anti-Terrorismo” e l’altra del 2004 sulla “Assistenza Umanitaria e Ricostruzione dell’Iraq”, entrambe miranti a impiegare le forze armate con meno limitazioni rispetto agli anni precedenti.

I progetti di riforma della politica di sicurezza del Giappone

Negli stessi anni della “diplomazia da libretto degli assegni” iniziava a intensificarsi il dibattito in seno al Partito Liberal Democratico, storicamente alla guida del paese, circa la necessità di una modifica costituzionale dell’articolo 9. Le operazioni iniziarono proprio nel 2004 con la formazione di un comitato che aveva come compito la revisione costituzionale, in particolare nella parte dell’articolo riguardante la rinuncia della guerra tout court.

Questa tendenza si fece particolarmente marcata con il presidente Abe che lavorò incessantemente per la modifica della Costituzione. Il processo, interrottosi nel 2007 con il termine del primo mandato, riprese nel 2013, quando fu rifondato il Consiglio di Sicurezza Nazionale (国家安全保障会議), organo deputato a coordinare la sicurezza nazionale e le politiche militari del Giappone.

Il 2014 sarà un anno decisivo per la nuova politica di sicurezza giapponese. Con la “Decisione del Gabinetto sullo sviluppo di una legislazione sulla sicurezza senza soluzione di continuità per garantire la sopravvivenza del Giappone e proteggere il suo popolo”, legge interpretativa della Costituzione, viene introdotto, infatti,  il concetto di autodifesa collettiva.

Si legge nella decisione:

«Per l’interpretazione costituzionale del Governo sono richieste la coerenza logica e la stabilità giuridica. Di conseguenza, è necessario trarre una conclusione logica per garantire la vita e il sostentamento pacifico del suo popolo entro il limite della logica di base dell’interpretazione dell’articolo 9 della Costituzione»

[…]

«Fino ad oggi, il governo ha considerato che “l’uso della forza” secondo questa logica di base è consentito solo quando si verifica un “attacco armato” contro il Giappone. Tuttavia, alla luce della situazione in cui l’ambiente di sicurezza che circonda il Giappone è stato fondamentalmente trasformato e in continua evoluzione dai cambiamenti nell’equilibrio di potere globale, il rapido progresso dell’innovazione tecnologica, e minacce come le armi di distruzione di massa, ecc. come menzionato all’inizio, in futuro, anche un attacco armato contro un paese straniero potrebbe effettivamente minacciare la sopravvivenza del Giappone, a seconda del suo scopo, scala e modalità, ecc.

Il Giappone, ovviamente, farà il massimo sforzo diplomatico, nel caso in cui si verifichi una controversia, per la sua risoluzione pacifica e prenderà tutte le risposte necessarie in conformità con le leggi e i regolamenti interni esistenti sviluppati sulla base dell’interpretazione costituzionale fino ad oggi. È ancora richiesto, tuttavia, di fare tutti i preparativi necessari per assicurare la sopravvivenza del Giappone e proteggere il suo popolo.

Sotto tale riconoscimento e come risultato di un attento esame alla luce dell’attuale ambiente di sicurezza, il governo è giunto alla conclusione che non solo quando si verifica un attacco armato contro il Giappone, ma anche quando si verifica un attacco armato contro un paese straniero che è in stretta relazione con il Giappone e di conseguenza minaccia la sopravvivenza del Giappone e rappresenta un chiaro pericolo per ribaltare fondamentalmente il diritto delle persone alla vita, la libertà e la ricerca della felicità, e quando non ci sono altri mezzi appropriati disponibili per respingere l’attacco e garantire la sopravvivenza del Giappone e proteggere il suo popolo, l’uso della forza nella misura minima necessaria dovrebbe essere interpretato come consentito dalla Costituzione come misure di autodifesa in conformità con la logica di base della visione del governo fino ad oggi».

Il governo giapponese, quindi, introdusse una novità di assoluto rilievo: la propria sicurezza poteva essere salvaguardata anche in un territorio diverso da quello dell’arcipelago, non definibile geograficamente, purché questo minacciasse direttamente il “diritto delle persone alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”.

Era però necessario che a questa interpretazione seguissero delle leggi e linee guida per poter effettivamente mettere in pratica questo nuovo concetto di autodifesa collettiva. Il 18 settembre del 2015 la Dieta Nazionale del Giappone (国会), il Parlamento nipponico, approvò un pacchetto di leggi, la “Legislazione sulla Preservazione della Pace e della Sicurezza”, atte a consentire un maggior spazio di azione alle forze di autodifesa, soprattutto nell’ottica della già citata autodifesa collettiva. In particolare, le leggi consentono alle JSDF di contribuire maggiormente agli sforzi internazionali, comprese le misure di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, superando i limiti geografici dell’azione delle Forze di Autodifesa e prevedendo una casistica più ampia relativa alla mobilitazione e schieramento delle truppe giapponesi in operazioni internazionali. In questo modo il Giappone ha esteso enormemente le proprie possibilità anche all’interno della politica Ittaika (いったいか), che fa divieto alle Forze di Autodifesa di integrarsi in qualsiasi struttura di comando e controllo in cui le forze armate straniere operano con regole diverse da quelle giapponesi per l’uso della forza militare.

La nuova legislazione generò non pochi dubbi di ordine costituzionale tra i tecnici del diritto giapponese e, in generale, nella classe intellettuale nipponica. In una dichiarazione pubblica, infatti, 235 professori e studiosi firmarono una dichiarazione pubblica nella quale lamentavano l’incostituzionalità delle leggi, delle quali chiedevano l’abolizione, e criticavano il governo per aver ignorato il parere negativo dei costituzionalisti interpellati prima del voto.

L’opinione pubblica giapponese

Il malcontento degli studiosi fu ampiamente condiviso dai cittadini, i quali organizzarono manifestazioni in concomitanza con l’approvazione della controversa legislazione, tanto che l’indice di gradimento del governo subì un brusco calo, seppur solo momentaneo.

Ad ogni modo, il perdurante sostegno della popolazione al “pacifismo costituzionale” ha impedito che il governo Abe riuscisse a proporre e far passare una modifica costituzionale che superasse definitivamente i limiti dell’articolo 9.

Tuttavia, le missioni umanitarie a cui prese parte il Giappone ebbero lo straordinario risultato di riuscire, seppur limitatamente, a mettere sotto una luce migliore le forze armate agli occhi dei giapponesi, tendenza questa che verrà definitivamente sdoganata a seguito dello Tsunami del 2011 e del conseguente massiccio impiego dei militari nelle operazioni di salvataggio e soccorso dei cittadini vittime del disastro naturale. In quell’occasione, probabilmente anche sulla scorta dell’ondata emotiva del popolo, le forze di autodifesa furono considerate dai giapponesi come l’istituzione più affidabile di tutto lo Stato.

Il dato è di assoluta rilevanza. Il mutato contesto continentale, sempre più instabile e competitivo, ha generato una riflessione della popolazione circa le eccessive limitazioni dell’articolo 9 della Costituzione.

Un sondaggio condotto da Kyodo news nel 2019 ha messo in evidenza come il 56% dei giapponesi continui ad opporsi alla modifica della Costituzione pacifista del dopoguerra. Questo soprattutto in relazione ai tentativi fatti dall’allora governo di Abe di emendare l’articolo 9 della Costituzione. Quel che sorprende, tuttavia, è il calo netto dei contrari alla modifica rispetto ai decenni precedenti, con percentuali che, solo nel 2016, si attestavano intorno al 67%.

In un sondaggio più recente, sempre condotto da Kyodo, si mostra che il 57% degli intervistati ritiene che il Giappone debba modificare la sua Costituzione per introdurre una clausola di emergenza atta a conferire maggiori poteri al governo, limitando temporaneamente i diritti personali dei cittadini, in modo che possa rispondere meglio alla pandemia da Covid-19 e ad altre emergenze. Tra coloro che hanno indicato la necessità di un emendamento costituzionale, il 65% ha affermato che la Costituzione non è più adatta ai tempi.

Andando nello specifico, in una domanda che chiedeva agli intervistati di indicare due questioni che dovrebbero essere oggetto di pubblico dibattito, il 44% ha fatto riferimento all’articolo 9, seguito da un 36% che indicava la necessità di una discussione proprio sulla clausola d’emergenza.

Complessivamente – e qui il dato più interessante – il 51% degli intervistati ha affermato che l’articolo 9 deve essere modificato, mentre il 45% ha affermato che non è necessaria una revisione. Nel gruppo di persone che non hanno chiesto emendamenti costituzionali, il 43% ha affermato che l’articolo 9 della Costituzione ha mantenuto la pace in Giappone.

La scomparsa di Abe non sembra aver eliminato dal governo giapponese il proposito di una modifica dell’articolo 9, oramai anacronistico e limitante la politica estera dell’arcipelago nipponico. In attesa di emendare la Costituzione, tuttavia, il Giappone sta già predisponendo gli strumenti per affrontare le sfide che si presenteranno nei prossimi decenni.

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