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I PAESI UE NON POTRANNO PIÙ REGREDIRE NELLA TUTELA DELLO STATO DI DIRITTO?

11 Maggio 2021

La tutela dello Stato di diritto nell’Unione Europea è oramai diventata una lunga saga: dalle procedure di infrazione contro Ungheria e Polonia alla condizionalità di Next Generation EU, sino alla sentenza dello scorso 20 aprile con cui la Corte di Giustizia ha introdotto il ‘principio di non regressione’ nella tutela della rule of law da parte di uno Stato membro.

I giudici del Lussemburgo sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità di una riforma giudiziaria maltese e, nonostante ne abbiano riconosciuto la conformità con il diritto UE, hanno introdotto un nuovo e importante principio.

Lo Stato di diritto come valore fondamentale

L’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) sancisce che l’Unione è fondata sui valori del “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”.

Coerentemente, l’articolo 49 TUE prevede che un Paese che voglia diventare membro dell’UE debba “rispettare e promuovere” questi valori come condizione di ammissione.

Tuttavia, se il rispetto di questi valori è vagliato al momento dell’ingresso, più complessa è risultata la garanzia del loro rispetto (nel tempo) da parte di alcuni Stati membri. In particolare, da più di qualche anno i riflettori sono puntati su Ungheria Polonia. Trattasi di due Paesi epicentro della svolta illiberale di una parte della destra europea, i quali hanno posto in essere numerose riforme non coerenti con il principio della rule of law.

Le violazioni

Cronologicamente parlando, il lungo elenco di violazioni è iniziato nel 2011 con la riforma della Legge Fondamentale ungherese ad opera del partito di Viktor Orbàn. Il nuovo testo costituzionale ha previsto diverse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di stampa, nonché involuzioni nella tutela dei diritti delle minoranze, a partire dal non riconoscimento all’interno della nozione di ‘famiglia’ delle coppie dello stesso sesso.

Pochi anni dopo, il partito ‘Diritto e Giustizia’ ha vinto le elezioni del 2015 in Polonia. Il nuovo governo conservatore ha varato diverse riforme con l’intento (e il risultato!) di controllare il potere giudiziario, andando a ledere l’indipendenza e l’imparzialità dei magistrati, violando così il principio della separazione dei poteri. Inoltre, sono oramai note a tutti le diverse città polacche ad essersi dichiarate ‘libere dall’ideologia LGBTIQ+’.

Non di meno, nella stessa direzione vanno i pieni poteri che il parlamento ungherese ha attribuito al presidente Orbàn a partire da marzo 2020, utilizzando come escamotage l’emergenza pandemica.

Difronte a tutto ciò, l’UE non è rimasta inerte ed ha cercato di intervenire in difesa dello Stato di diritto, seppur nei limiti dei poteri e delle competenze che i Trattati le attribuiscono.

I risultati (scarsi) delle procedure di infrazione

Se uno Stato membro emette una legge che si pone in contrasto con il diritto dell’Unione, la Commissione dispone della procedura di infrazione. Essa prevede una prima fase di dialogo con il Paese interessato, con la quale si tenta una risoluzione non-giudiziale della questione. Successivamente, una fase eventuale dinanzi alla Corte di Giustizia UE, la quale è chiamata a pronunciarsi sulla conformità della legge nazionale con il diritto UE.

La Commissione, infatti, ha azionato negli anni diverse procedure di infrazione, ultima delle quali ad aprile 2020 contro la riforma della giustizia polacca.

Tuttavia, i risultati si sono rivelati scarsi e insufficienti, probabilmente perché questa procedura è uno strumento ideato per le violazioni tecniche. In altre parole, una cosa è se un Paese sfora una percentuale prevista da un regolamento, altra cosa è una violazione perdurante e sistemica della rule of law. Infatti, nonostante le numerose procedure attivate e le diverse pronunce della Corte, questi Paesi hanno perseverato nelle loro violazioni.

L’articolo 7 TUE

Esiste, invero, uno strumento pensato appositamente per agire contro le violazioni costanti e perduranti dello Stato di diritto. Si tratta, appunto, del meccanismo previsto all’art. 7 TUE, il quale prevede la possibilità di imporre delle sanzioni politiche al Paese interessato, consistenti nella restrizione di diritti e facoltà relative allo status di Stato membro dell’Unione.

Purtroppo, però, si tratta di un meccanismo ideato per non essere utilizzato. Per imporre queste sanzioni è richiesto il via libera all’unanimità del Consiglio europeo – l’istituzione che riunisce i capi di Stato e di governo. Di conseguenza, lo schema che si verrebbe a creare è molto semplice. Per fare un esempio non troppo casuale, se i due Paesi interessati sono Ungheria e Polonia, al momento del voto l’una porrebbe il veto in favore dell’altra, bloccando così l’irrogazione delle sanzioni.

La pronuncia della Corte

La Corte sembra in ogni caso determinata nel perseguire con tutte le forze possibili il suo ruolo di Guardiano dei Trattati. Con la recente pronuncia, infatti, essa rileva che il Diritto dell’Unione si oppone ad una riforma nazionale concernente l’organizzazione della giustizia che comporti una regressione nella tutela dello Stato di diritto.

I giudici poi ci tengono a generalizzare questo principio di non regressione. Partendo dalla premessa per cui il rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE è una condizione di ammissione, essi affermano che ‘uno Stato membro non può dunque modificare la propria legislazione in modo da comportare una regressione nella protezione del valore dello Stato di diritto’.

Tuttavia, andrà verificato quale sarà la sua portata applicativa e, soprattutto, se esso sarà in grado di incidere sull’effettività della tutela della rule of law all’interno dell’Unione.
Al contrario, se esso rimarrà soltanto un punto aggiuntivo alla lista di tutti quei principi e valori che alcuni Paesi continuano a violare, la soluzione al problema andrà ricercata altrove.

I giudici passeranno la palla alla politica?

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