È destinata a far discutere la decisione di Twitter di “bannare” in modo definitivo Donald Trump: la decisione è stata presa dopo l’assalto al Congresso e giustificata dal fatto che i suoi ‘cinguettii’ violassero le regole di Twitter contro l’incitamento all’odio e le minacce violente. Le questioni che l’evento ha sollevato e solleverà sono molte, e molte sono le implicazioni su temi come libertà di espressione, opinione pubblica e democrazia. Abbiamo posto qualche domanda a Lorenzo Pregliasco, co-fondatore dell’agenzia di ricerche sociali e comunicazione politica Quorum, direttore del web magazine YouTrend e docente di strategie elettorali e comunicazione politica, per provare a sviluppare qualche spunto di riflessione.
Partiamo dal principio: che cosa sono i social? Un “club privato” molto potente o un servizio di pubblica rilevanza?
«È una domanda cruciale, nel senso che molta della discussione nasce da qui, dalla natura delle piattaforme social che sono servizi privati arrivati a svolgere, secondo molti osservatori, una funzione pubblica. Molta della riflessione dipende da come noi intendiamo le piattaforme. Dal punto di vista formale, al momento dell’iscrizione ad un social network, aderiamo ai “terms and conditions”: violando questi ultimi l’azienda può intervenire sul nostro account. La questione nel nostro caso è particolare perché riguarda (ancora per qualche giorno) il Presidente degli Stati Uniti, le cui parole hanno ovviamente un peso globale. Le restrizioni decise da Twitter e Facebook naturalmente non tolgono in assoluto la libertà di esprimersi a Trump ma ne comprimono la visibilità, togliendogli un canale diretto con un numero enorme di persone (88 milioni di follower prima della sospensione). Dall’altra parte, possiamo e dobbiamo anche riflettere sul ruolo delle televisioni e dei network: ci sono infatti stati alcuni momenti in cui diverse emittenti si sono rifiutate di trasmettere certe dichiarazioni di Trump nel momento in cui esponeva falsità sul risultato elettorale. Anche in quel caso emerge un importante tema di discussione: quanto possiamo parlare di scelta editoriale (assolutamente legittima e ben custodita da ogni costituzione democratica e liberale) e quanto di compressione dei diritti di Trump di esprimersi? E, dal lato dell’opinione pubblica, si comprimono le possibilità per questa di formarsi pienamente? Tenendo sempre conto di come quest’ultima abbia certamente altri canali e altre possibilità di riceverne le comunicazioni».
Quando ci iscriviamo ad un social network sottoscriviamo delle condizioni di utilizzo. Non stiamo creando un blog dove possiamo scrivere quello che vogliamo; il social network è una piattaforma con delle regole. Il tema da sollevare, però, non è tanto se Trump potesse essere sospeso, in quanto “da contratto”, le aziende ne avevano facoltà. La domanda è, piuttosto, se abbiano fatto bene.
«Siamo certamente di fronte ad un caso particolarmente complesso da valutare. Non siamo nella situazione in cui c’è un Presidente che dice delle cose solamente false: ne avrebbe piena facoltà. I fatti, purtroppo, raccontano non solo di una tensione molto forte, ma anche di una sua traduzione in atti violenti che possono essere definiti terroristici e che sono stati fomentati e diretti, ovviamente in senso ampio e in parte indiretto, da Trump stesso. La risposta che le piattaforme hanno dato è a questo: è sorta la necessità di privilegiare l’ordine sociale rispetto alla libertà di espressione del Presidente degli Stati Uniti, nel momento in cui ciò che dice può avere impatti diretti e negativi su teppisti e criminali. Paradossalmente, più che dinnanzi ad una discussione sul diritto di espressione, abbiamo a che fare con una discussione sui limiti della democrazia costituzionale e sul punto di rottura che si produce nel momento in cui la massima figura dell’esecutivo è totalmente fuori controllo. Quella sui social si configura dunque come una sotto-discussione.
Edward Snowden ha twittato “Facebook officially silences the President of the United States. For better or worse, this will be remembered as a turning point in the battle for control over digital speech”. Perché turning point? Da dove arriviamo? Verso dove andremo, in tal senso?
«È certamente un “turning point”: non c’era mai stata, sino ad ora, una decisione così netta da parte delle piattaforme. Questa aprirà un dibattito su come esse debbano essere considerate e se debbano essere regolamentate in maniera differente. Facciamo però attenzione: alcuni osservatori americani affermano che questa improvvisa sensibilità da parte della Silicon Valley potrebbe essere dettata non solo dall’improvviso stato di emergenza democratica creatosi, ma anche dalla consapevolezza che, almeno nei prossimi due anni, saranno i democratici a regolamentare gli eventi e le vicende avendo maggioranza alla Camera, al Senato e la Presidenza. Ragioniamo dunque anche su questo tema: ossia quanto i grandi player tecnologici abbiano operato una scelta di sensibilità politica. Se pensiamo al grande impatto che la decisione di tre/quattro persone può avere su politica ed opinione pubblica, siamo naturalmente portati a ritenere che sia un impatto da servizio pubblico. Eppure, se ci soffermiamo sulla storia del secolo scorso e dei primi anni del nostro secolo, dovremmo essere abituati ad un sistema mediale, giornalistico e televisivo nel quale allo stesso modo poche persone hanno avuto il potere di decidere come e che cosa milioni di persone potessero sapere e vedere. La discussione sulla linea editoriale di queste piattaforme è gigantesca, e i ragionamenti sulla comparabilità tra network e social aprono centinaia di altri punti».
Ha fatto bene la politica ad affidare quasi completamente la sua comunicazione, anche istituzionale, a piattaforme private trascurando (se non addirittura abbandonando) gli altri spazi di confronto e dialogo con gli elettori?
«La politica, come ciascuno di noi, parla laddove c’è pubblico, laddove qualcuno ascolta: siano piazze, radio, televisioni, social. Non è propriamente una scelta. La politica ha semplicemente preso atto che i social sono diventati un luogo di grande frequentazione da parte dei cittadini: non dobbiamo cadere, però, nell’errore che siano luoghi a sé stanti. Ciascuno di noi è un cittadino con una propria dieta informativa, ciascuno di noi attinge alle proprie fonti. Frequentiamo tutti noi svariati ambienti mediatici durante le nostre giornate. La politica cerca di raggiungerci ovunque noi siamo. Detto questo, penso che le istituzioni, che hanno obblighi di trasparenza e responsabilità differenti dai partiti e dai leader, dovrebbero bilanciare in maniera assai oculata una presenza digitale sulle piattaforme con altri canali più “interni” ed ufficiali».