Quando nell’anno 6 d. C. Augusto introdusse una imposta del 5% (vigesima pars “un ventesimo”) sulle successioni e legati d’ogni genere (vigesima hereditatum et legatorum), si ebbero forti resistenze in Senato poiché fatta eccezione di un progetto subito abbandonato di Giulio Cesare, l’imposta non aveva precedenti: anzi da secoli i cittadini romani non pagavano più alcun tributo allo Stato, mentre la “vigesima” li collocava, in parte, allo stesso livello dei provinciali.
Il gettito era devoluto all’Erario militare che versava, all’atto del congedo, le pensioni dovute ai militari. Dalla “vigesima” erano infine escluse le successioni fra parenti strettissimi e per somme inferiori ai 100.000 sesterzi.
Storicamente possiamo ipotizzare che quello di Augusto fu uno dei primi esempi nella Storia occidentale di imposta di successione.
Percorrendo la linea del tempo, e saltando per dovere di spazio diversi anni, fu a partire dalla fine del 600 che grandi pensatori iniziarono ad azzuffarsi sempre con più coscienza sul macrotema della teoria delle imposte. Le discussioni sulla tassazione infatti si inserivano in un contesto in cui le dottrine politiche ed economiche divenivano sempre più chiare e fondamentali per come si sarebbero dovuti strutturare gli Stati europei.
I primi a scontrarsi sul tema, a distanza di qualche decennio, furono Locke e Bentham. Locke riteneva infatti che il diritto a lasciare e il diritto a ricevere in eredità fossero conseguenti al diritto (naturale) di proprietà, e quindi, come questo, assoluti e intangibili, anche per lo Stato. Dall’altro lato si schierò Bentham, secondo il quale non vi erano diritti assoluti ma unicamente diritti determinati dal calcolo utilitaristico (in questo caso, di minimizzazione della della tassazione), e propose perciò due limitazioni ai diritti di lasciare e ricevere in eredità. La prima era che, in assenza di testamento e di parenti prossimi vi dovesse essere devoluzione (“escheat”) del patrimonio dei defunti allo Stato; la seconda che, in assenza solo di parenti prossimi, ai testatori fosse permesso di disporre della metà del proprio patrimonio, mentre l’altra metà sarebbe dovuta andare allo Stato. Fu uno dei massimi esponenti del liberalismo a raccogliere la proposta di Bentham. John Stuart Mill infatti, muovendo dalla distinzione tra il diritto a ricevere in eredità e quello a lasciare in eredità, suggerì che le fortune non guadagnate dovessero, per il bene pubblico, essere sottoposte a limiti, in quanto “ottenute senza nessuno sforzo”, ovvero in virtù di “un privilegio (dovuto) all’esistenza della legge e della società, al quale lo Stato (aveva) il diritto di apporre condizioni”; di qui la sua proposta di sottoporre a tassazione progressiva le eredità che superassero una certa somma. Tra l’altro, Mill ipotizzava anche che, per evitarne l’evasione e anche il rischio di una imposta “espropriativa”, le imposte di successione dovessero contemplare aliquote contenute.
In Italia, come è noto ai più, a prendere la palla al balzo nel mondo liberale fu niente di meno che Einaudi. Secondo l’economista l’imposta di successione aveva un pregio: pur essendo una forma di tassazione del patrimonio, era «pagata non da chi ha costituito, ha creato, il patrimonio, ma da chi lo riceve». L’erede infatti non aveva fatto nulla per meritarsi l’arricchimento di cui beneficiava in sede successoria. Ma «(un) buon ordinamento dell’istituto ereditario» richiedeva «che le eredità rimanessero in possesso soltanto degli eredi i quali lo meritassero». Infatti, «esiste l’esigenza… imperiosa di non creare un privilegio a favore di chi non ha fatto nulla, di chi si contenta di godere nell’ozio la fortuna ereditata». Ovviamente come nel caso di Mill anche Einaudi era preoccupato del fatto che questa imposta non diventasse espropriativa, perché sarebbe stata grande limite al risparmio ante-mortem. Però, secondo Einaudi, se applicata un’imposta accettabile (Einaudi nei suoi esempi parlava addirittura di un terzo) il futuro defunto non se ne sarebbe preoccupato, anzi, questo sarebbe stato di maggiore incentivo per lui per rendere in vita la parte ereditabile ancora più grande.
Concludendo la parentesi dottrinale, a mio avviso molto interessante e utile per affrontare il tema, possiamo giungere ai giorni nostri e fotografare la realtà italiana.
In Italia attualmente l’imposta di successione esiste, ma ha un gettito molto lieve. Anzi, comparando il nostro sistema fiscale con quelli di altri Paesi occidentali, possiamo essere annoverati tra i paradisi fiscali degli ereditieri. Le successioni in linea retta sono tassate al 4% con una franchigia di un milione di euro per erede. Il gettito complessivo è 820 milioni di euro l’anno. In Francia l’aliquota sale fino al 45% con un gettito di più di 14 miliardi di euro. Nel Regno Unito l’aliquota raggiunge il 40%, il Germania il 30%. Negli Stati Uniti dipende dallo Stato in cui ti trovi, ma l’aliquota massima può raggiungere il 40%, e nonostante varie promesse non è stata mai abolita da Trump.
Non stupisce la lievità dell’imposta italiana essendo il nostro Paese molto legato a due concetti che questa va a toccare: la famiglia ed il risparmio. E non è neanche un caso che pure nei Paesi dell’est, post sovietici, a cominciare dalla Russia, l’imposta di successione sia quasi totalmente assente.
Con una intervista il segretario del Pd Enrico Letta in questi giorni ha rilanciato il tema. La proposta consiste in aumento di aliquote crescenti, in maniera progressiva, a partire da un milione di euro di patrimonio ereditato, raggiungendo poi l’aliquota massima del 20% oltre i 5 milioni di euro, da destinare infine alla metà dei 18enni (in base all’Isee) nella forma di “dote”, ammontabile a 10mila euro.
Di seguito ci tengo ad affrontare alcuni ragionamenti suddividendoli tra prelievo e gettito.
L’imposta interesserebbe un numero molto esiguo di potenziali eredità. Infatti al netto delle dichiarazioni di opinionisti italiani al di fuori dalla realtà, il quadro della ricchezza netta famigliare in Italia è aberrante. Banca D’Italia inserisce addirittura il 90% della popolazione sotto mezzo milione di euro di patrimonio. I contribuenti potenziali (perché stiamo parlando di eredità future) che ricadrebbero nell’aliquota massima oltre i 5 milioni di euro sarebbero al di sotto dell’1%. Nel 2016 secondo LaVoce.Info, circa il 2,5% dei trasferimenti totali (per eredità) era superiore ad un milione di euro, ammontandoli a circa il 25% del valore di tutti i lasciti.
Se la minaccia maggiore è che una tale imposta contorcerebbe il risparmio e gli investimenti di quelle famiglie abbienti non si spiega perché altri Stati occidentali che hanno un numero sempre maggiore di milionari non abbiano avuto questi effetti nonostante l’esistenza di imposte di successione molto gravose. Le teorie economiche maggioritarie da decenni constatano come la tassazione sul lavoro (e aggiungerei anche quella sui consumi) produca effetti negativi di gran lunga maggiori sia sui risparmi sia appunto sui consumi, non a caso pure il Fondo Monetario Internazionale da anni spinge sullo spostare le imposte dai redditi ai patrimoni. Inoltre il nostro Stato è improntato costituzionalmente sul principio di progressività, assai in crisi nella realtà dei fatti. Ovviamente non possiamo ipotizzare un sistema fiscale improntato sull’imposta di successione. Ma considerare un aumento di questa imposta a partire da una franchigia che certamente individua “ricchezza reale”, sarebbe opportuno e corretto, anche alla luce degli unici due principi costituzionalmente enunciati in materia fiscale, cioè quello di capacità a contribuire e quello di progressività.
Questo ragionamento però lascia spazio a due critiche collegate alla proposta di Enrico Letta: la prima è che è bene intervenire in maniera complessiva quando si parla di tassazione. La Costituzione stessa parla di sistema fiscale, non di singole imposte. Anche se le premesse del dibattito mostrano molto ideologismo e poca conoscenza e coscienza fiscale del mondo politico, ritengo corretto che questa proposta vada avanzata nel tavolo complessivo di riforma fiscale già avviato dal governo Conte. La seconda critica è che quando si parla di patrimoni sarebbe importante affrontare il tema di quelli immobiliari e quindi della riforma del catasto, non perché a quelle cifre una tassazione simile colpirebbe contribuenti non realmente “capaci di contribuire”, ma perché probabilmente un numero sostenuto di contribuenti a parità di ricchezza reale non vi ricadrebbero.
Riguardo al gettito si annida il maggior numero dei miei dubbi riguardo la proposta di Enrico Letta. Innanzitutto non si capisce perché solo i 18enni. Certo, il gettito è contenuto, ma sarebbe più equo finalizzarlo ad una migliore compensazione con altre imposte oppure, se il nobile fine è quello generazionale, indirizzarlo a politiche su studio (abitazioni universitarie, abbattimento rette, sostenere il diritto allo studio) o lavoro giovanile. Per non parlare della dote che sembrerebbe fissa a 10mila euro sia se ci si trovasse ad Isee bassissimo sia alla metà della bilancia. Il rischio di creare differenze nella destinazione di doti rilevanti, a parità di condizione, è alto, così come il rischio di aiutare in egual misura sia chi necessiterebbe di un aiuto sia chi ne potrebbe fare anche a meno. Constatando la positiva necessità di intervenire con politiche per le nuove generazioni, temo che se così strutturata nel gettito questa (maggiore) imposta non raggiungerebbe il suo scopo.
In conclusione, guardo di buon occhio una buona imposizione sulle eredità soprattutto in un momento simile, nel quale le disuguaglianze di partenza sono sempre più evidenti, e credo che vada discussa nell’ambito di una riforma tributaria complessiva. Nonostante i miei dubbi sul gettito, ad Enrico Letta va dato il merito di avere rilanciato il tema anche se, viste le levate di scudi di conservatorismi vari, è facile ipotizzare che come spesso accade tutto si areni e nulla cambi.