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L’INDUSTRIA TESSILE AI TEMPI DEL COVID19: CHI TUTELA I LAVORATORI?

22 Maggio 2020

Il Coronavirus presenta effetti devastanti per l’industria dell’abbigliamento. La disoccupazione e conseguente mancanza di reddito, sommati a condizioni di vita precarie e livelli di sanità scadenti, mettono a rischio i lavoratori del settore.

Il 24 aprile 2013 segna la data del crollo del Rana Plaza, in Bangladesh, che ha causato la morte di 1138 persone e più di 2500 feriti. Il tragico evento ha destato sconcerto in tutto il mondo poiché l’edificio ospitava cinque fabbriche di abbigliamento per il mercato occidentale dove lavoravano perlopiù giovani donne. Migliaia di dipendenti hanno protestato per condizioni lavorative più sicure. A seguito di manifestazioni e pressioni, 18 fabbriche dell’industria tessile sono state chiuse per precauzioni di sicurezza. Nonostante ciò, in molti paesi emergenti la situazione continua ad essere precaria. Le donne, che rappresentano la maggior parte degli impiegati nell’attività, sono vittime di trattamenti ingiusti ma non sono in grado di contestarlo.

Dalla drammatica tragedia del Rana Plaza nel 2013, è nato il Fashion Revolution. Si tratta di un movimento globale che mira alla trasformazione del mondo del fashion. Il fine è mobilitare la società a favore di un’industria della moda che rispetti la vita di tutti coloro che appartengono alla sua catena produttiva. L’idea è che questo campo di attività possa diventare più etico e sostenibile. 

Nell’attuale momento di pandemia, è ancora più necessario fare attenzione a questa tematica. In tempi di crisi è doveroso tutelare le persone più vulnerabili. Per quanto concerne questo settore, i più deboli sono proprio coloro che producono i vestiti che indossiamo. 

L’odierna crisi del Covid19 compromette milioni di lavoratori in tutto il mondo, ma sono i paesi emergenti ad essere i più sensibili. Il Bangladesh è il secondo maggiore produttore di abbigliamento nel mondo, dopo la Cina, e l’industria del tessile rappresenta l’80% delle esportazioni del paese. 

La situazione presente nel paese del Bengala è considerata apocalittica. È stato inevitabile un aumento del livello di disoccupazione derivato dalla chiusura di molte delle fabbriche di abbigliamento sulla scia della pandemia. Ad aggravare la situazione vi è l’impossibilità di un vero e proprio isolamento sociale nel paese. Infatti, molti dei manifatturieri vivono in anguste baraccopoli o villaggi e non possono permettersi l’accesso a risorse vitali come acqua potabile. Questi si ritrovano quindi a convivere con l’epidemia senza i servizi igienico-sanitari di base.

Le condizioni lavorative precarie nell’industria della moda, che sono sempre state questionate dal movimento Fashion Revolution, sono risaltate in momenti come questo. La disoccupazione e conseguente mancanza di reddito, le condizioni di vita insicure e precarie e livelli di sanità esigui, evidenziano maggiormente la fragilità dei lavoratori. 

Il governo bengalese ha concesso un piano di salvataggio per le industrie manifatturiere per un importo di 50 miliardi di BDT (circa $600 milioni). Se i fondi fossero stanziati in maniera equa, sarebbe possibile garantire lo stipendio di un mese per i lavoratori. Tuttavia, sia la logistica di smistamento dei fondi che le eventuali modalità di erogazione di questo piano di salvataggio devono ancora essere definite.

Kalpona Akter, direttore esecutivo del Bangladesh Centre for Worker Solidarity mette in discussione il piano del governo. In un’intervista a Forbes, Akter sottolinea che vi sono molte incertezze su come questi fondi arriveranno ai lavoratori e se la distribuzione corrisponderà allo stipendio usuale. A destare maggiore preoccupazione è l’assenza di un sistema di sicurezza sociale: mancano dati sui cittadini e molti dei lavoratori non possiedono conti bancari. Inoltre, non vi sono disposizioni che tutelino gli impiegati. Come afferma Akter: “Il produttore certamente perderà il profitto, ma sarà il lavoratore a perdere il cibo”. 

La mancanza di trasparenza spesso maschera la mancanza di responsabilità delle aziende nei confronti dei propri dipendenti. Si creano così le condizioni perfette affinché le vite delle persone vengano trascurate a favore del profitto. 

Per fare fronte a questa problematica in questi mesi la Commissione Europea sta sviluppando una  “Strategia globale per il settore Tessile”. Nel frattempo, 65 organizzazioni della società civile propongono una nuova visione globale del tessile, dell’abbigliamento, della pelle e delle calzature (TGLF). Il gruppo, di cui fanno parte anche organizzazioni italiane come FOCSIV e la campagna Abiti Puliti, ha proposto una strategia “ombra”. Questa strategia propone alla Commissione Europea, al Parlamento Europeo e agli Stati membri una serie di raccomandazioni per una riprogettazione dei modelli di business. Una trasformazione verso una economia più equa e sostenibile sarà indispensabile nella fase post pandemica. 

I deputati del Parlamento Europeo Delara Burkhardt (S&D), Heidi Hautala, Presidente del gruppo di lavoro sulla condotta aziendale responsabile, e Helmut Scholz (GUE/NGL), hanno inviato una lettera a tutti i membri del Parlamento Europeo in sostegno della “Strategia dell’ombra della società civile”. Questo documento rileva che “il settore tessile è stato tra i più colpiti in questa crisi provocata dal COVID-19 a causa degli squilibri di potere tra i suoi attori e dei suoi gravi problemi strutturali, compresi i danni ambientali che provoca e le questioni di governance. È una delle industrie più inquinanti, fonte di innumerevoli catastrofi come quella di Rana Plaza e uno degli artefici delle violazioni dei diritti umani, che colpiscono le donne in modo sproporzionato”. 

Periodi di crisi come questo evidenziano la necessità di un cambiamento. Le aziende devono assumersi la responsabilità delle proprie attività, garantire maggiori diritti ai lavoratori e rispettare gli standard di sostenibilità.

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