Quanto sta accadendo in Israele non ha molti precedenti: ogni settimana, infatti, centinaia di migliaia di persone manifestano in tutto il Paese per protestare contro le politiche del governo di destra guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
Armati di bandiere israeliane, i cittadini di ogni fede, etnia e orientamento politico stanno mobilitandosi contro la riforma della giustizia voluta dall’esecutivo, il più a destra della storia. La riforma, ispirata da correnti di pensiero ascoltate nel mondo conservatore israeliano (quali il think tank Kohelet Forum), mira a ridimensionare fortemente il ruolo della Corte Suprema dello Stato di Israele. Per gli europei sembra un film già visto, abituati come siamo alla torsione illiberale di alcune democrazie dell’Europa orientale. Per lo Stato ebraico, invece, si tratta di un fatto politico nuovo.
Israele, infatti, può vantare un sistema giudiziario avanzato e ispirato ai principi di rule of law tipici delle democrazie liberali. È anche grazie al sistema giudiziario che, a prescindere dai governi che si sono susseguiti alla guida del Paese, si è continuato correttamente a definire Israele “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
Dal punto di vista delle scienze politiche e sociali, infatti, Israele è stata a lungo definita una “democrazia etnica”, secondo la celebre definizione dello studioso Sammy Smooha, ossia una democrazia nata per rispondere all’autodeterminazione nazionale di un preciso popolo che ne informa le caratteristiche, ma in cui chi non si riconosce nella maggioranza (si pensi alla minoranza araba, in particolare) non soltanto gode dei medesimi diritti civili e politici, ma ha la sostanziale possibilità di “azionarli” attraverso gli strumenti offerti dall’architettura istituzionale del Paese (compreso il sistema giudiziario).
D’altra parte, l’elemento della tutela del pluralismo delle idee è radicato nella ricchezza del pensiero ebraico, e non è un caso che si debba proprio alla Dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele la dicitura secondo cui Israele è uno Stato ebraico e democratico. L’attaccamento dell’ethos israeliano ai principi democratici è così radicato anche perché Israele a lungo si è contrapposta – anche da questo punto di vista – ai propri nemici arabi della regione: come ebbe a dire Abba Eban, ministro degli Esteri durante la Guerra dei Sei Giorni, “Israele ha imparato nel 1967 che la propria sopravvivenza dipendeva dal proprio rapporto con la scienza, dalla coesione sociale, e dall’etica democratica che l’ha sempre differenziata dai propri vicini”.
Giova ricordare in questo senso che lo Stato ebraico non ha un testo costituzionale codificato.
Storicamente, la prima assemblea legislativa del Paese (Knesset) non decise di svolgere la propria funzione costituente. Questo accadde anche per ragioni politiche: il fondatore dello Stato e primo Primo Ministro d’Israele, David Ben-Gurion, sapeva che la neonata democrazia laica israeliana, nata sui principi del sionismo socialista, difficilmente avrebbe potuto trovare la quadra attorno a un testo condiviso, che necessariamente avrebbe dovuto prendere in considerazione le richieste degli ebrei religiosi non-sionisti.
Accanto a questa scelta, inoltre, ve n’era un’altra ancorata al medesimo senso pratico: uno Stato appena nato e già aggredito, con massicce ondate d’immigrazione dovute alla riunificazione di ciò che restava della diaspora ebraica, probabilmente non poteva affrontare una discussione così “radicale” sulle ragioni del proprio essere. Per questo motivo, nel corso dei decenni il parlamento israeliano si è dotato di leggi fondamentali (le cd. Basic Laws) dotate di uno status quasi-costituzionale.
In questo contesto, aggravato dall’ascesa dei partiti dell’ultradestra religiosa dopo le ultime elezioni politiche, si inserisce la discussione sulla riforma della giustizia, che mira a ridimensionare i poteri della Corte Suprema sulle scelte politiche delle maggioranze elette democraticamente. Attualmente, infatti, la Corte Suprema detiene – in forza di una consolidata interpretazione dei contenuti della Basic Law 1992: Human Dignity and Liberty – il potere di judicial review sugli atti propri del potere politico: questo significa che la Corte può dichiarare illegittima qualsiasi norma contraria ai principi delle leggi fondamentali dello Stato. La riforma in discussione intende porre limitazioni a questa possibilità, includendo inoltre la facoltà per la Knesset di passare sopra alla decisione della stessa Corte. Altri contenuti della riforma in esame riguardano la nomina dei giudici: la proposta prevede che aumenti il numero dei membri della commissione per la selezione dei giudici di nomina del ministero della Giustizia.
Sebbene il dibattito sull’attivismo giudiziario in Israele esista e sia fondato, la proposta attuale rischia di essere una vera e propria “bomba politica”, per usare le parole del celebre scrittore Yuval Noah Harari: in un Paese senza una costituzione scritta, che vive da decenni un conflitto politico e militare drammatico, con una società composita come quella israeliana, il tentativo di indebolire la Corte Suprema rappresenta un pericolo che i critici fanno bene a denunciare. Inoltre, l’assenza di un’architettura delle autonomie locali e la presenza di un parlamento monocamerale rendono ancora più dannosa una modifica così radicale dell’architettura istituzionale del Paese.
Nel corso degli anni in Israele la Corte Suprema ha svolto un ruolo importante: attraverso le proprie sentenze, infatti, la Corte ha contribuito a creare un “diritto costituzionale” israeliano e ha informato alcune delle proprie decisioni anche riguardo i Territori palestinesi alla human rights law (celebre, in questo senso, il caso in cui la Corte ha dichiarato illegittima una legge che avrebbe regolarizzato alcuni avamposti israeliani illegali in Cisgiordania). Paradossalmente, peraltro, la Corte in questi anni è stata oggetto di attacchi da destra e da sinistra: mentre i primi le rimproveravano un eccesso di attivismo giudiziario, i secondi le rimproveravano un deficit d’interventismo.
Sta di fatto, tuttavia, che secondo recenti ricerche le decisioni della Corte hanno il potenziale per fare strada a un sempre più robusto paradigma dei diritti umani. Tra l’altro, occorre considerare che dal 1992 sono soltanto 22 i casi in cui la Corte Suprema ha invalidato la legislazione della Knesset. A tutto questo, infine, va aggiunto un tema molto più concreto: gli standard di democrazia liberale in Israele hanno consentito al Paese di crescere enormemente dal punto di vista economico e sociale, e un attacco al sistema giudiziario è visto da moltissimi israeliani come un arretramento strutturale che avrebbe conseguenze economiche nefaste.
Per questo le proteste, che hanno visto la partecipazione di israeliani di ogni tipo: c’è la mobilitazione permanente dei partiti laici, certo, ma c’è anche l’invito a partecipare alle proteste rivolto agli arabi israeliani dai partiti arabi d’Israele; c’è il mondo economico del settore dell’innovazione, centrale nello sviluppo del Paese, ma ci sono anche numerose famiglie e numerosi giovani da tutto il Paese; ci sono le sigle storiche del vivace mondo dell’opinione pubblica israeliana, ma ci sono anche personalità del mondo moderato e conservatore (ha suscitato interesse la foto del figlio e del bisnipote di Menachem Begin, fondatore del Likud che ora è di Benjamin Netanyahu, alle manifestazioni di Gerusalemme).
La mobilitazione per la democrazia israeliana non accenna a fermarsi, e dimostra ancora una volta la straordinaria vitalità di una società che non accetta torsioni illiberali e che ha uno straordinario capitale sociale. Non è un caso che i sondaggi mostrino come una grande maggioranza dei cittadini israeliani non approvi il contenuto della riforma, e che recenti rilevazioni diano il partito liberal Yesh Atid dell’ex Primo Ministro Yair Lapid in prima posizione, sopra lo stesso Likud.
Secondo Anshel Pfeffer, giornalista del quotidiano progressista Haaretz, siamo di fronte al risveglio della maggioranza laica d’Israele. Da questo punto di vista, c’è un fatto storico da non sottovalutare: l’adesione di tanti militari, comprese alcune élite del Paese, alle proteste contro la riforma, attraverso – ad esempio – il rifiuto di addestrarsi, come è accaduto per il 69esimo squadrone dell’aeronautica israeliana.
L’incandescenza di questa situazione investe in pieno il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Per anni considerato un “moderatore”, ossia un politico abile, refrattario ai rischi e che aveva la capacità di far funzionare le proprie maggioranze “ovattando” le posizioni estremiste interne alla sua stessa coalizione, Bibi appare per la prima volta senza il controllo della compagine governativa: gli estremisti Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich imperversano, col primo che licenzia il capo della polizia di Tel Aviv per non essere stato più duro con i manifestanti e la cui decisione viene annullata dal Procuratore Generale dello Stato, che peraltro continua a picconare il governo per l’annunciata riforma della giustizia; il secondo benedice le violenze avvenute a Huwara ed è costretto a ritrattare per le reazioni indignate dell’opinione pubblica israeliana e di rappresentanti del mondo ebraico in Occidente.
Nel frattempo Tel Aviv subisce un altro odioso attentato rivendicato dall’organizzazione terroristica Hamas, e Riad e Teheran ripristinano le proprie relazioni bilaterali, mostrando i limiti della teoria di Netanyahu per cui l’avvicinamento dei sauditi a Israele sarebbe inevitabile proprio in funzione anti-iraniana. A tutto questo si sommano le parole del Presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, che in questi giorni ha lanciato un appello a cestinare la riforma della giustizia giudicandola “sbagliata”, “aggressiva” e contraria ai principi democratici del Paese.
Nel corso della sua longeva carriera politica Benjamin Netanyahu si è dimostrato un leader pieno di risorse, ma di fronte a questo scenario il proprio futuro è incerto: saprà gestire la crisi, considerando che a oggi ciò significa rinunciare al proprio progetto di riforma? Oppure si è spinto troppo oltre?
Per chi, e il sottoscritto ne fa parte, ammira la resilienza e la vitalità della democrazia israeliana, ciò che sta accadendo desta preoccupazione. Resta incrollabile la fiducia nello spirito democratico di questo popolo, che ha fatto di questo Paese “a villa in the jungle” e che tutt’ora si mostra nella sua fierezza, da Haifa a Gerusalemme, da Tel Aviv a Beer Sheva. Non a caso il simbolo delle proteste è la bandiera del Paese, non a caso si agitano immagini di Theodor Herzl per raccontare le ragioni di chi manifesta: il sionismo politico nasce laico e democratico, e tale si vuole che rimanga.