Gage Skidmore, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

La genesi di Donald Trump

4 Settembre 2023

Donald Trump: il Presidente biondo che ha fatto impazzire il mondo con un lessico per nulla forbito e scarsamente istituzionale.

La sua fama politica è cresciuta attraverso una copertura mediatica quasi ossessiva: la genesi politica avviene nel 2015, senza una seria considerazione da parte della stampa, e con il climax nella notte elettorale del 8 novembre 2016 quando il Presidente impossibile divenne realtà. La sua presidenza si rivelò il frutto di una pianta, con radici sviluppate in almeno 35 anni, coltivata pazientemente da un uomo dietro le quinte: Roger Stone, stratega e lobbista sfacciato con un’etica discutibile e manager delle campagne elettorali dei candidati repubblicani alla Casa Bianca. Viene spontaneo accostare la figura di Donald Trump al protagonista di uno dei suoi film preferiti: Charles Foster Kane di “Quarto potere”. Kane, oltre che essere un grande ostentatore della sua pacchiana ricchezza, è un editore divisivo e capace di plasmare l’opinione pubblica. Il protagonista si addentra in politica, tentando una corsa per divenire governatore, fallita per uno scandalo matrimoniale. Si potrebbe pensare ad un preambolo cinematografico del fenomeno di Trump.

I nostalgici anni Ottanta

Gli anni Settanta furono disastrosi per gli Stati Uniti: l’umiliazione in Vietnam e il movimento pacifista, il Watergate, la debolezza del Presidente Carter e l’inflazione. Tutti questi eventi furono crepe sociali che costituivano un malessere nazionale, senza un’entità politica capace e decisa a ridare lustro alla potenza occidentale. D’un tratto, dallo schermo del cinema uscì un uomo carismatico, con un tono di voce deciso ma allo stesso tempo confortante: Ronald Reagan, già governatore della California ed esponente in ascesa dell’area conservatrice repubblicana.

Fu definito “Il gran comunicatore”, in virtù delle sue doti d’attore, e rivendicò l’idea di un’America grande, prospera e ideale, propugnando l’abbattimento delle tasse attraverso la riduzione della spesa pubblica e del debito, la lotta all’inflazione e il ripristino dell’America come leader del mondo libero contro l’impero del male sovietico. Un’abile retorica che dovette scontrarsi con la realtà: durante le amministrazioni di Reagan, il debito pubblico statunitense aumentò vertiginosamente per via dell’abbondante impiego di risorse nella difesa e nell’esercito e con un abbattimento fiscale sostenuto dal debito.

Il decennio pop degli anni Ottanta fu tale anche per il carattere di Ronald Reagan, che costituì una parte del mosaico culturale abbellito da film cult e musica iconica: la saga di Ritorno al Futuro, Top Gun, The Breakfast Club e altri film che segnarono il cinema hollywoodiano, oggi richiamati nella serie Stranger Things. La musica contempla tuttora leggende come i Queen, Madonna, i Depeche Mode e il re del pop Michael Jackson. Un’età aurea del capitalismo con i marchi di Pepsi, Nike e le prime console da videogioco e dello sviluppo di Microsoft.

Questi elementi svilupparono immagini romanticizzate per le persone che hanno vissuto la propria gioventù negli anni Ottanta, ma senza fare una distinzione tra percezione e realtà o, peggio ancora, confondendo le proprie sensazioni con la situazione socio-politica.

Il tramonto dell’edonismo reaganiano e la Third way policy

1988: il decennio pop è agli sgoccioli. Ronald Reagan ha terminato il suo mandato come Presidente, mantenendo una buona popolarità ,ereditata dal suo successore: George H.W Bush. Il nuovo Presidente è un professionista della politica, moderato, ma senza lo charme di Reagan. Bush condusse gli Stati Uniti nella transizione da un contesto di cristallizzazione della guerra fredda all’esercizio della leadership egemonica; affrontando, quindi, sfide diverse rispetto agli ultimi cinquant’anni. Il Presidente Bush poté millantare successi e capacità decisionale, soprattutto in politica estera. Tuttavia, ancora oggi, la sua presidenza è rimarcata da una promessa infranta. Nel 1988, alla convention repubblicana che ufficializzò la sua nomina a candidato, George H.W Bush disse: “leggete le mie labbra: no a nuove tasse”. Pochi anni dopo, dovette procedere invece ad un aumento della pressione fiscale, a causa di un debito pubblico aumentato sotto l’amministrazione Reagan.

L’elettorato americano non mandò giù questa decisione, in contrasto con l’immagine del Partito Repubblicano che si era costruita nel tempo. Gli anni Novanta iniziarono con una spaccatura politica, nel 1992 si tennero le elezioni presidenziali che portarono un nuovo vento a Washington, aprendo le porte della Casa Bianca ad un nuovo Presidente: Bill Clinton. Il giovane democratico indirizzò il Partito democratico verso la cosiddetta “Terza via”, inaugurando la sinistra liberal che fu punto di riferimento per diverse realtà, come il New Labour di Tony Blair in Gran Bretagna. Clinton si focalizzò sul welfare e l’economia, i temi più importanti per l’elettorato, presentandosi come l’uomo nuovo capace di rispolverare Washington dallo status quo repubblicano.

La repulsione per il professionalismo politico coinvolse parte dell’elettorato repubblicano (in opposizione al moderato George H.W Bush), che optò per un terzo candidato: Ross Perot, imprenditore e populista di destra, considerabile il precursore di Donald Trump. Non ebbe molto risalto, fino ai dibattiti nazionali nei quali emerse la sua personalità. Sostenne la riduzione del deficit e contestò l’accordo commerciale NAFTA, ma senza stipulare un vero programma elettorale.

Perot ottenne il 19% dei voti, risultando secondo in diversi stati, impedendo forse la rielezione di Bush. Un primo segnale di spaccatura, ancora marginale ma destinato a crescere.

I burrascosi anni 2000

Un ponte verso il ventunesimo secolo”, fu uno slogan dell’ultima campagna elettorale di Bill Clinton, che ben esprime l ’entusiasmo di allora per il futuro che animò la corsa per la presidenza nel 2000, una delle più controverse elezioni dell’era contemporanea. La posta in gioco era chiara: il corso degli Stati Uniti nel nuovo millennio. Al Gore, Vicepresidente democratico, e George W. Bush, governatore del Texas e figlio dell’ex Presidente, dovevano dare una risposta convincente sul futuro del proprio paese. A novembre, il conteggio elettorale si protrasse per settimane, finché la Corte Suprema ordinò lo stop al riconteggio dei voti in Florida, portando così George W. Bush alla vittoria, ma senza il supporto del voto popolare. L’amministrazione Bush operò per diversi mesi in un clima spaccato, diverso dalla consueta pacificazione post-elettorale.

Il trauma dell’attacco alle Torri Gemelle segnò lo spettro politico americano, oltre che la politica estera per gli anni a venire. Il Presidente Bush cavalcò il supporto dell’opinione pubblica, con picchi di approvazione fino al 90%, per guidare il paese nella guerra al terrore. La crociata per la democrazia iniziò e gli Stati Uniti si presentarono, e soprattutto si percepirono, come i prodi cavalieri dei diritti umani contro l’Afghanistan di Bin Laden e contro Saddam Hussein, il belzebù iracheno che nascondeva presunte armi di distruzioni di massa. Fu l’inizio di un incubo politico, al pari del Vietnam negli anni Settanta, che traumatizzò l’opinione pubblica per anni. La propensione eroica all’estero cedette gradualmente il posto all’isolazionismo dopo il disastro in Iraq e la crisi finanziaria del 2008

L’elettorato iniziò a focalizzarsi sugli aspetti interni: il welfare, la disoccupazione e le tasse furono i temi che agitarono la campagna elettorale conclusasi con la vittoria di Barack Obama. Una “new entry”: carismatico, alla moda e simbolo di un cambiamento, principalmente in quanto primo Presidente afroamericano, ma anche per i suoi messaggi apparentemente intrisi di novità. Obama alla Casa Bianca significava riformare la sanità, riportare le truppe a casa dall’Iraq, guidare gli Stati Uniti verso il progresso e una maggiore inclusione delle minoranze. L’entusiasmo si sgretola, tuttavia, negli anni a venire. Sotto l’amministrazione democratica, dal 2009 al 2017, cresce vorticosamente polarizzazione dell’America, le truppe lasciano l’Iraq per poi ritornare a combattere l’estremismo dei califfi e la Cina, inaspettatamente, prende la rincorsa nella scena mondiale come un toro scatenato. Per quanto riguarda la Russia, da una parte vi è il timore di interferenze politiche, attraverso hackeraggi, in particolare nelle elezioni del 2016, mentre dall’altra si ritiene che l’ex gigante sovietico non costituisca più una minaccia globale, nonostante i pressing europei si facciano sentire. Gli effetti della crisi del 2008 accrebbero le sensibilità protezionistiche contro le multinazionali americane, che spostarono le filiere di produzione in paesi con costi ridotti. La polarizzazione dell’opinione si riversò soprattutto sull’immigrazione, una questione delicata che coinvolge anche altre aree tematiche. Il Presidente Obama iniziò il suo mandato come l’uomo della speranza con “yes we can!”, ma terminò la sua presidenza come un uomo dell’illusione.

Il crinale del paese

Il fascino liberal, nonostante tutto, sembra perdurare ed essere estendibile anche a Hillary Clinton nelle elezioni del 2016. All’ex First Lady e ai suoi sostenitori pareva fosse il momento perfetto, quasi esclusivamente loro, per vincere. La partenza in pole position doveva confrontarsi con un cambiamento dirompente nel Partito Democratico: Bernie Sanders, senatore del Vermont, dichiaratamente social-democratico. Un vero scalpore che fomentò l’ala più a sinistra del partito. Sanders parlò in maniera netta e chiara di sanità pubblica, di istruzione pubblica e di un aumento della tassazione per i “super-ricchi”. Il sintomo di un cambiamento diverso da quello liberal si percepì da subito. Hillary Clinton mantenne comunque il suo vantaggio, conquistando la candidatura.

Anche nel Partito Repubblicano soffiava un vento nuovo e particolarmente fragoroso. L’area più conservatrice era sempre più forte sotto la denominazione di “Tea Party”, contro la riforma sanitaria di Obama e severamente contro l’immigrazione clandestina. Durante le primarie si assiste ad una diversità di correnti repubblicane: tra i moderati è il momento di Jeb Bush, fratello di W. Bush e professionista della politica come suo padre, mentre Ted Cruz, senatore texano, si pone come il candidato conservatore. In un ventaglio ricco di politici si distingue un businessman polemico e dai toni decisi: Donald Trump. Il magnate dell’edilizia punta ad un edificio bianco a Washington e non passa inosservato. Solletica la pancia del paese con il populismo: un muro a sud contro l’immigrazione clandestina, dazi per i prodotti esteri e minor attenzione verso l’Europa. Jeb Bush lo considera scellerato, Ted Cruz lo considera troppo liberal e rammenta i suoi cambiamenti da un partito all’altro. Insomma: Donald Trump non piace a nessuno; eppure, l’attenzione e gli ascolti puntano su di lui. I suoi comizi sono sempre più affollati, i media pendono dalle sue labbra, nonostante lo demonizzino, e l’establishment repubblicano lo disprezza. Il tycoon si rivela popolare e sintomo di un vero cambiamento. Non è un repubblicano convenzionale: condanna l’invasione dell’Iraq, riserva parole dure per Bush, Romney e McCain. Si dichiara favorevole al mantenimento dei centri di planned parenthood come punti di analisi per la salute delle donne, tagliando però i fondi federali per l’aborto. Paventa il pericolo cinese e considera Putin scarsamente pericoloso. La sua schiettezza si fonde con provocazioni giornaliere, ma nei sondaggi sale fino al raggiungimento della nomination del partito.

Citizen Trump

Donald Trump ebbe rapporti con la politica per agevolare la costruzione di grattacieli, hotel e casinò di lusso. Durante gli anni Ottanta, attraverso il suo controverso avvocato Roy Cohn, conobbe Roger Stone, un consulente politico repubblicano nelle campagne elettorali. Una conoscenza che darà i suoi frutti diversi decenni dopo. Già nel 1987, un piccolo comitato elettorale chiese a Trump di candidarsi a Presidente. Fu una semplice questione d’immagine, volta a dar continuità al fascino di Reagan, e che il tycoon non considerò seriamente. Come ogni uomo di affari, Trump segue i propri interessi incrociando politici di diverse estrazioni. È possibile notare una connessione tra il corso degli Stati Uniti negli ultimi 30 anni e i comportamenti di Donald Trump.

Nel 2000, il partito riformista si accingeva a correre per la terza volta alle elezioni. Era necessario scegliere un candidato, e la scelta era tra Patrick Buchanan, ex consigliere repubblicano, e Donald Trump: quest’ultimo godette di crescente popolarità e attaccò Buchanan, anche se non confermò definitivamente la candidatura. Quando decise di ritirarsi, l’immagine di Buchanan era svilita e il Partito Riformista divenne una accozzaglia di orfani politici confusi.

Nel documentario “Get me Roger Stone”, alcuni giornalisti ed opinionisti sostengono la presenza dello zampino di quest’ultimo. Il consulente politico temeva infatti un’emorragia di voti repubblicani che sarebbero confluiti verso un Partito Riformista guidato da Trump, facendo così svanire potenzialmente una vittoria di Bush Jr. nel 2000.

Nei primi anni dell’amministrazione Obama, emerse un movimento complottista: il gruppo dei birthers, che supportavano l’idea che il Presidente fosse nato in Kenya e fosse dunque privo del requisito di nascita per la sua carica. Una fandonia razzista, che però spinse la Casa Bianca a pubblicare il certificato di nascita di Barack Obama per smentire le assurde voci. Tra gli esponenti di maggiore spicco di questo complottismo c’era Trump. Fecero scandalo le sue affermazioni sulla dubbia provenienza di Obama. Diversi mesi dopo la pubblicazione del certificato, si tenne una cena alla Casa Bianca. Tra gli invitati vi era il tycoon, oggetto di una battuta del Presidente. Venne deriso dalla sala per i suoi edifici pacchiano e le sue capacità da showman. Qualcuno ipotizzò questo come il momento traumatico da cui scaturì l’idea di candidarsi nel 2016.

Questo episodio è indicativo per capire il fenomeno di Trump. Egli non credeva alle teorie sulla provenienza di Obama; ha cavalcato l’onda del momento per acquisire immagine, per focalizzare la sua personalità in modo preciso e affascinare l’opinione pubblica. Una tecnica utilizzata per screditare lo status quo neoconservatore, accusato di guerrafondaismo e condannato dalla maggior parte dell’elettorato, così come per attaccare i Clinton e suoi vecchi amici, con modi degni da manuale del politicamente scorretto. Donald Trump non propone idee, ma presenta la sua immagine di successo e di self-made man, premendo sulla nostalgia di quegli anni Ottanta di crescita e forza per gli Stati Uniti.

La politica arretra

Il climax della polarizzazione si consuma a Capitol Hill nel gennaio 2021. Trump non bada alla sconfitta e ai tradizionali “concession speech”, né tanto meno al processo di ufficializzazione del voto da parte del Vicepresidente. Egli esorta migliaia di manifestanti a protestare contro la ratifica del risultato. La situazione sfugge al controllo e si assiste a una rivolta nelle mura del Campidoglio, all’interno del Senato. Una rivolta facinorosa, distante da ogni consuetudine civile e istituzionale del mondo politico occidentale. I politici non sono indispensabili per la politica, sono un mezzo per le istituzioni. Un businessman per i propri affari, invece, risulta vitale. Incrociando le due situazioni si ottiene la personalizzazione della politica con interessi da seguire. Non esistono più principi da osservare o ruoli da occupare.

Richard Nixon si dimise dalla presidenza poiché la sua attitudine da politico non risultava più consona all’istituzione rappresentata. I Presidenti, una volta terminato l’incarico, scompaiono dalla scena politica coscienti della propria carriera temporanea. Mentre Donald Trump, venditore di sé stesso, domina la scena slegando se stesso dagli standard comportamentali. È di fatto un dietro front della politica, percepita come interessata a sé stessa e che si contorce nella dicotomia democratico-repubblicano e che, agli occhi di milioni, Trump ha spodestato come un crociato detentore della libertà e del patriottismo.

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