A pochi giorni dalla chiamata alle urne, in Spagna tutte le forze politiche si avviano alla conclusione delle proprie campagne elettorali, compresi i partiti indipendentisti attivi e predominanti in alcune aree del paese.
Il 23 luglio, giorno delle elezioni, sarà una data fondamentale per numerosi movimenti, provenienti da regioni come la Catalogna e i Paesi Baschi, che vedono la probabile vittoria della destra come una minaccia esistenziale per le loro istanze d’indipendenza e d’autonomia.
Insieme a Unidas Podemos, unione di vari partiti di sinistra più intransigenti, il premier socialista Pedro Sánchez ha guidato il primo governo di coalizione della democrazia spagnola. Sánchez e il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) si erano impegnati a ricostruire il dialogo con le varie forze secessioniste, soprattutto a seguito della disastrosa risposta alla crisi catalana del 2017. Nell’ottobre di quell’anno la pessima gestione della questione catalana dalla parte del governo del Partido Popular (PP) a guida Feijóo aveva portato a una crisi senza precedenti nella storia europea.
Da allora, nella mai nata repubblica catalana, le forze indipendentiste avevano ottenuto la maggioranza assoluta nella Generalitat, anche a seguito dalla trasformazione del panorama politico locale, con il tramonto dei liberali di Ciudadanos e l’ascesa dei neofranchisti di Vox.
Catalogna, la crisi costituzionale e la repubblica mai nata
La crisi del 2017 vede la propria genesi nelle elezioni della Generalitat de Catalunya del settembre di due anni prima, nonostante le spinte per la creazione di una nazione catalana siano ben radicate nella società civile della regione, risalenti all’Alto Medioevo.
In occasione delle elezioni autonomiche del 2015, gran parte della compagine indipendentista si riunì in una coalizione chiamata Junts pel Sí, che ottenne il 39,59%, un risultato modesto e ben distante dall’agognato plebiscito. Tuttavia, la coalizione non rinunciò alle proprie promesse programmatiche, nelle quali si prometteva un referendum per la creazione di una repubblica catalana entro 18 mesi dalle elezioni. Grazie al supporto esterno della Candidatura d’Unitat Popular (CUP), un’organizzazione bottom-up nazionalista radicale, il nuovo esecutivo tentò di forzare la mano nonostante il divieto delle autorità di Madrid. Già nel 2014 e nel 2016 il Tribunale Costituzionale aveva dato parere negativo sopra la volontà di indire un referendum nella regione, in quanto la Carta costituzionale del 1978 non prevede una modalità legale per lasciare la Corona Spagnola. Nonostante ciò, le istituzioni catalane, con a capo Carles Puigdemont, tentarono di forzare la mano e annunciarono un referendum unilaterale. La ratio era quella di costringere Madrid a misure straordinarie che legittimassero la narrazione di uno stato centrale autoritario e aggressivo. Tale esito avrebbe dato la definitiva legittimità alla fragile maggioranza nazionalista.
In questo clima di incertezza e crisi istituzionale il primo ottobre 2017 si tenne in tutta la Catalogna il tanto agognato referendum per la creazione di una repubblica catalana. In occasione del referendum, illegale quanto legittimo, non vi furono osservatori internazionali e venne schiacciato dalla violenta repressione della Guardia Civil.
Rajoy e il PP, autori e spettatori del disastro
Il governo di Rajoy alternò all’immobilismo una violenza ingiustificata verso chi si recava alle urne. La Guardia Civil distrusse seggi elettorali, sequestrò urne e schede, arrestò e ferì centinaia di cittadini. La brutale repressione sconvolse l’Europa intera e a nulla valsero gli inviti al dialogo e le proposte di mediazione da parte di paesi della comunità europea come la Croazia. In molti videro nei modelli della Scozia e del Québec delle possibili soluzioni, che vennero purtroppo sistematicamente ignorate delle istituzioni di Madrid. Attraverso l’attivazione dell’articolo 155 le concessioni autonomiche catalane vennero momentaneamente sospese, il parlamento sciolto e i principali protagonisti politici arrestati. Mariano Rajoy, il governo del PP e lo stesso sovrano Felipe VI abbracciarono la visione più irresponsabile e reazionaria, lasciando inascoltati milioni di cittadini appartenenti alla società civile.
L’assenza di dialogo e l’intransigente volontà da parte del governo centrale di dare una risposta esclusivamente giudiziaria a un problema politico come quello catalano contribuirono a lacerare i rapporti tra Madrid e Barcellona. Le partecipate elezioni post-referendum vennero vinte dai partiti indipendentisti, che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi, nonostante i vari esponenti detenuti nelle carceri spagnole con l’accusa di sedizione. In continuità, nelle elezioni anticipate del 2020, i nazionalisti conseguiranno per la prima volta nella storia la maggioranza assoluta sia ai seggi che nei voti, superando il 50%.
Il periodo Sánchez, tra dialogo e incertezza
Durante il suo governo, Sánchez si impegnò a normalizzare le relazioni con i partiti indipendentisti, specialmente quelli della Catalogna, che votarono, occasionalmente, in sostegno all’esecutivo. Il partito di Sánchez, il PSOE e la sua espressione catalana, il PSC, si sono sempre opposti all’indipendenza della regione, ma, al contempo, si sono anche mostrati disponibili a ricercare dei compromessi all’interno del campo istituzionale.
Nonostante lo scetticismo di parte delle forze dei Paesi Catalani, il dialogo tra Sánchez e Aragones, presidente della Generalitat appartenete al partito Esquerra Republicana Catalana (ERC), ha prodotto risultati concreti, orientati soprattutto verso la concessione della grazia ai politici accusati di sedizione e alla salvaguardia della lingua catalana negli ambienti istituzionali spagnoli ed europei.
La Catalogna, tuttavia, non è l’unica comunità autonoma con una forte volontà d’autodeterminazione. Nei Paesi Baschi, reduci da decenni di lotta armata indipendentista, il processo d’istituzionalizzazione del conflitto verso mezzi pacifici e democratici è ancora in atto e la tensione è ancora alta. Euskadi Ta Askatasuna, al secolo ETA, annunciò il suo scioglimento e la conseguente rinuncia al terrorismo solo nel 2018. Ciononostante, la sua sanguinaria strategia ha lasciato solchi profondi e indelebili nella società basca, che ancora cerca di fare i conti con la questione dei prigionieri politici. Per decenni Madrid ha portato avanti la cosiddetta politìca de dispersìon, con la quale circa duecento prigionieri legati alle attività di ETA, vennero rinchiusi in istituti a centinaia e centinaia di chilometri da casa, nel tentativo di distruggere i rapporti tra prigionieri e società basca. Negli anni si è sviluppato un vivace movimento popolare che ha promosso la volontà di riportare i propri “connazionali” in istituti detentivi in terra basca, sotto il motto “Euskal presoak eta iheslariak etxera”, traducibile con “Prigionieri baschi e rifugiati a casa”.
Catalogna e Euskadi, il sodalizio in vista del 23J
Nei Paesi Baschi il dialogo è riconciliazione e quello tra Madrid e Vitoria-Gasteiz, la capitale di Euskadi, ha portato lo scorso anno alla fine della dispersione e il trasferimento verso penitenziari baschi degli ultimi prigionieri. EH Bildu, il principale partito indipendentista, si presenta alle imminenti elezioni per la volontà di consegnare definitivamente alla storia il periodo del terrorismo e di trovare una strada democratica per l’autodeterminazione del popolo basco. Prevedibilmente i nazionalisti hanno guardato ai fatti del 2017 con profondo interesse e trasporto, vedendo un ipotetico referendum come un possibile mezzo per una Euskadi indipendente.
Il 23J, EH Bildu e ERC correranno insieme sotto il nome di “Sinistra per l’indipendenza”, con il fine di coniugare e rafforzare le comuni istanze presso le istituzioni madrilene. Anche la CUP, il partito di sinistra radicale catalana che più spinse per la rottura istituzionale nella crisi del 2017, ha recentemente deciso, durante l’ultimo congresso, di partecipare alle elezioni. Scelta non scontata dato il non riconoscimento delle istituzioni spagnole.
Una tragedia quasi annunciata
Il partito guidato da Abascal, Vox, è notoriamente e violentemente contrario a ogni forma di referendum e rifiuta, così come molti altri partiti, di discutere una modifica del sistema del paese verso una forma di governo federale. In numerose occasioni il partito di estrema destra ha duramente attaccato l’uso di idiomi diversi dal castigliano nelle istituzioni regionali, come quelle basche, catalane e galiziane. Anche in occasione delle elezioni Vox sposa la linea più reazionaria, proponendo la messa al bando di tutti i partiti indipendentisti dello stato iberico, i quali non solo rappresentano la volontà democratica di milioni di cittadini, ma anche il dialogo istituzionale che evita la frattura e il ritorno alla violenza. In Spagna l’illegalizzazione di partiti politici ha dei precedenti. Alla fine degli anni Novanta, vari partiti baschi delle izquierda abertzale, o sinistra nazionalista, vennero illegalizzati per presunti legami con il terrorismo, nonostante uno di questi, Herri Batasuna, fosse il secondo partito più votato nei Paesi Baschi.
Il contesto storico politico è ormai profondamente mutato e la lotta armata per come l’abbiamo conosciuta nel Novecento appartiene ormai alla storia. Tuttavia, l’irresponsabile volontà di mettere al bando partiti politici completamente inseriti nel contesto legale attuale sarebbe motivo di forti tensioni e andrebbe a minare la rappresentanza democratica laddove se ne ha più bisogno.
Nonostante la vittoria del Partido Popular di Feijóo sia considerata l’esito più probabile nessuno sa quali forze saranno in grado di formare una maggioranza. Un’alleanza post-elettorale tra PP e neofranchisti di Vox non è scontata, considerando l’eccezionalismo dei governi di coalizione nella storia spagnola. Feijóo ha alle spalle una carriera politica moderata, e a differenza di alcuni suoi compagni di partito, vicini a posizioni di Vox, si è detto più volte in imbarazzo per varie posizioni di Abascal.
Risulta evidente che nelle elezioni del prossimo 23 luglio non sia in gioco solo la guida del governo, ma la tenuta istituzionale nel paese e nel peggiore dei casi, la sua integrità. Nel caso in cui Vox dovesse avere un ruolo nel futuro esecutivo, il ritorno alla violenza potrebbe tornare a essere un timore concreto. Le conseguenze, così come nel 2017, sarebbero imprevedibili.