Circa due settimane fa, mentre aspettavo la lezione delle 11:00, sono andato a fare un giro in libreria per far passare il tempo. Giunto alla sezione horror, da anni ormai la prima tappa di qualsiasi mia ispezione letteraria, mi sono imbattuto in un titolo che mi suonava famigliare: “Lasciami Entrare”, dello scrittore svedese John Ajvide Lindqvist. L’illustrazione in copertina – un ragazzino alle cui spalle si erge una figura vampiresca – diradò la nebbia che mi offuscava la memoria.
Quando andavo in seconda media, infatti, uscì al cinema un film chiamato “Blood Story” (“Let Me In” in lingua originale, traduzione italiana come sempre sul pezzo), che non andai a vedere nonostante la grande curiosità (avevo ancora paura degli horror). Tempo dopo, scoprì che la pellicola era il remake di un lungometraggio svedese denominato “Lasciami Entrare” (“Let The Right One In”), il quale a sua volta era la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo. Preso dalla curiosità, quindi, l’ho comprato e letto nel giro di una settimana.
Una volta terminato, ho percepito quella sensazione di nostalgia immediata che mi aveva travolto quando avevo concluso “IT”, il capolavoro di Stephen King. Ho sentito, di conseguenza, l’impellente bisogno di parlare di questo libro, evidenziandone le fondamenta e gli elementi (alcuni, quantomeno) che lo rendono un’opera assolutamente imperdibile. Perché “Lasciami Entrare” non è la solita storia di vampiri. Tranquilli, non ci saranno spoiler. Buona lettura.

LA TRAMA
La storia principale riguarda Oskar, un ragazzino di dodici anni solitario e vittima di bullismo. La sua vita viene sconvolta quando incontra Eli, una coetanea che si è appena trasferita a fianco all’appartamento in cui Oskar abita assieme alla madre. La nuova arrivata appare subito molto strana: esce solo di notte, non sembra percepire il freddo, emana un odore sgradevole ed è sorprendentemente agile. In breve tempo, i due sviluppano un’amicizia sincera, che va a rafforzarsi sempre più col passare delle settimane. Contemporaneamente, nel quartiere iniziano a verificarsi alcuni omicidi che minano la tranquillità degli abitanti. Il susseguirsi di questi macabri eventi porta i numerosi personaggi a interagire tra loro, nonché a compiere scelte le cui conseguenze li conducono ad una inevitabile discesa nel baratro, sia fisico che psicologico.
L’AMBIENTAZIONE
Blackeberg, sobborgo di Stoccolma dove l’autore John Ajvide Lindqvist è cresciuto, viene descritto come un micromondo grigio, freddo e decadente. Le aree verdi e i parchi giochi sono presenti, ma infestati dai palazzoni di cemento in cui numerosi svedesi traslocarono negli anni ’50, immediatamente dopo che il quartiere venne costruito. Nel libro, tutti i personaggi, da Oskar all’ubriacone Lacke, passando per l’adolescente Tommy, detestano la realtà in cui sono imprigionati, esprimendo più volte una fortissima volontà di evaderne. Blackeberg è un quartiere in cui le voci si spargono in fretta, dove nulla passa mai completamente inosservato. Non a caso, le storie dei suoi prigionieri finiscono per intrecciarsi non solo a causa degli omicidi, ma anche perché tutti, chi più, chi meno, si conoscono o abitano a pochi metri di distanza l’uno dall’altro.
Blackeberg.
Fa pensare a quei dolci rotondi di pasta di cocco, magari fa venire in mente la droga. Una vita decente. Si pensa alla metropolitana, ai sobborghi. Poi probabilmente non viene in mente nient’altro. Anche lì, come dappertutto, ci abita della gente. È per questo che il quartiere è stato costruito, perché le persone avessero un posto dove abitare.
IL VAMPIRO
Per quanto ne riprenda buona parte degli stilemi classici (sete di sangue, carnagione pallida, pseudo-immortalità, debolezza alla luce solare, ecc.), Lindqvist accantona l’immagine sovrannaturale del vampiro per abbracciare una variante molto più terrena. Lo scrittore fa leva sul corpo, sugli organi, sulle emozioni, su tutto ciò che può rimandare all’immagine dell’essere umano per descrivere la sua creatura. Eli, infatti, definisce la sua condizione come una vera e propria “malattia”, trasmissibile non col semplice morso ma attraverso la contaminazione del sangue, uno degli elementi cardine dell’opera. Questa “malattia” rende Eli un’emarginata, impossibilitata a creare legami affettivi con chiunque. Paradossalmente, il motivo per cui riesce a instaurare un rapporto con Oskar è proprio questo: entrambi sono esclusi, ignorati e soli.
Tuttavia, il vampiro (e non solo, come vedremo tra non molto) cela una doppia faccia: seppur mantenendo una forte componente umana, egli è costretto ad assecondare i suoi istinti per sopravvivere, trasformandosi quindi in un predatore intelligente e spiegato. Blackeberg, ai suoi occhi, assume la forma di un territorio di caccia, mentre i suoi abitanti rivestono il ruolo di prede.
<<Sì. Io uccido le persone. Sfortunatamente.>>
<<Perché lo fai?>>
Un flash di ira gelida passò sugli occhi di Eli.
<<Se hai un’idea migliore, puoi benissimo dirmela.>>
I TEMI
A un occhio disattento, “Lasciami Entrare” potrebbe sembrare un’altra banalissima storia d’amore tra un umano e un vampiro. Fortunatamente, così non è. “Lasciami Entrare” è un romanzo poliedrico, in cui vengono affrontate numerose tematiche di un certo spessore. Queste vengono alla ribalta grazie ai singoli personaggi, afflitti, analogamente ad Eli, da alcune particolari “malattie”. Oskar ha i genitori separati ed è tormentato dai bulli; Tommy disprezza il compagno poliziotto della madre ed è dipendente dalle droghe; Lacke è un ubriacone che vive di rendita e si limita a sopravvivere; Håkan – il “padre” di Eli – è un pedofilo il cui feticcio non è mai scomparso del tutto. Bullismo, pedofilia, tossicodipendenza, alcolismo, separazione, solitudine e depressione agiscono alle spalle di un racconto di formazione, quello di Oskar, che grazie all’amicizia stretta con Eli matura, prende coraggio; in poche parole, cresce. Non mancano, ad ogni modo, l’amore e la sessualità, trattati in maniera toccante e per nulla scontata.
Per alcuni secondi, Oskar vide attraverso gli occhi di Eli. E quello che vide era… se stesso. Ma migliore, più attraente, più forte di quello che pensava di essere. Visto con gli occhi dell’amore. Per pochi secondi.
L’AMBIGUITÀ
Questo punto non è esattamente un tema; piuttosto, è la chiave di lettura che permette di comprendere appieno il romanzo. Ogni personaggio, come visto poco fa, nasconde una storia, un dramma che spiega la sua evoluzione psicologica e il movente dietro ai comportamenti che adotta. Non esistono buoni e cattivi (tranne uno, forse); ciascuno di essi è allo stesso tempo vittima e carnefice della propria condizione. Tuttavia, l’autore si guarda bene dal giustificare gli attori della propria tragedia. Lindqvist, grazie a uno stile freddo e cinico, si limita a proiettare al lettore l’oggettività dei fatti, senza lasciarlo immedesimare troppo in uno dei personaggi e invitandolo piuttosto a una riflessione lucida e realista sull’ambiguità del loro essere. Curiosamente, c’è una precisa tematica che mette a nudo questo caratteristico modello interpretativo, ma non posso rivelarla: sarebbe uno spoiler di dimensioni mastodontiche.
I FILM
Voglio spendere, infine, due parole sugli adattamenti cinematografici di questo libro. Il primo, datato 2008, è stato sceneggiato dallo stesso Lindqvist, che ha riassunto nella miglior maniera possibile il suo romanzo d’esordio. Il film vive della regia di Tomas Alfredson, che grazie a delle inquadrature fenomenali rende più vivo che mai l’emozionante rapporto tra Oskar ed Eli.
Il remake di Matt Reeves, uscito pochi anni dopo, rende giustizia alla perla originale, pur distaccandosi leggermente dal romanzo. Le sottili modifiche apportate alla storia rendono la pellicola meno “adattamento” e più “reinterpretazione”. L’atmosfera, a differenza di quella fredda e distaccata che permea il film svedese, appare tetra e nervosa, grazie soprattutto a una fotografia improntata su tonalità piuttosto scure. Inoltre, Owen è molto più protagonista rispetto alla controparte Oskar, così come Abby (Eli) risalta maggiormente il suo lato vampiresco. Ad ogni modo, entrambe le opere meritano assolutamente la visione.