informazione e neoliberismo
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NON TUTTE LE OPINIONI SONO IDEE

6 Aprile 2021

Premessa

La classe dirigente italiana, non solo quella politica, vive da anni una crisi (ahimè) ben più preoccupante della crisi economica che stiamo vivendo ora. Può sembrare una frase forte, ma nei fatti non lo è, ne abbiamo sotto gli occhi ogni giorno svariate dimostrazioni. Il dibattito pubblico degenerato, oserei dire marcescente, è solo uno dei sintomi di tale crisi, ma è ciò su cui vorrei concentrarmi.

Un’argomentazione degna di questo nome, ha bisogno di una struttura precisa per essere efficace e coerente. Serve partire da definizioni oggettive, presentare casi specifici, citare fonti, fatti e dati. Ovviamente sono più che legittime considerazioni personali alla luce dei propri valori, ma non devono essere il punto di partenza. Costruire impalcature teoriche su definizioni soggettive che risentono dei propri bias è il punto di partenza ideale per fare propaganda vuota. AlterThink prova ogni giorno a sfidare la corrente, ogni giorno dimostra che fare informazione bene si può. Ne ha giovamento sia chi scrive, e mi ritengo fortunato a poter essere annoverato tra gli autori, sia chi legge, che può farsi così un’idea autonoma e consapevole di ciò che realmente accade. Per questo ho deciso di scrivere questa dettagliata replica all’articolo di Mattia Marasti del 12 Febbraio.

Tra liberalismo e socialismo

L’autore si è definito liberale perché sostiene la bontà dell’ordinamento liberaldemocratico, con esplicito riferimento alla Costituzione repubblicana, e perché non crede che “il libero mercato, inteso come sistema regolato dallo Stato, sia un male assoluto“. Difendere lo stato di diritto e la democrazia non è una prerogativa strettamente liberale, la storia dell’Europa è stata fatta anche da conservatori, socialdemocratici, socialisti, popolari. Nessuno di loro può essere definito liberale, vivaddio c’è il pluralismo, eppure quei valori non sono venuti meno. Il medesimo discorso si può fare per l’accezione di “libero mercato” fatta dall’autore, quello che sfugge è la consistenza della regolazione di cui egli parla. Mi spiego: l’economia di mercato è stata accettata da tutti i Paesi occidentali, chi ha governato si è legittimamente distinto per la quota di regolamentazione che ha voluto propugnare con le proprie policies.

Si può dire, quindi, che le caratteristiche elencate siano condizioni necessarie per essere liberali, ma non sufficienti. È evidente che, fortunatamente, per fare politica in un sistema liberaldemocratico non sia necessario essere liberaldemocratici. Possiamo discutere della diatriba tra Croce ed Einaudi su liberalismo e liberismo, ma questo fatto non verrà mai meno.

L’autore si è definito anche socialista, specificando che non ha come modello l’Unione Sovietica e che comunque non è liberalsocialista, perché ritiene l’uguaglianza in tutte le sue forme un valore e perché crede che l’interventismo economico dello Stato sia necessario per una società che vuole prosperare. Effettivamente chi è socialista crede nella necessità di uniformare punti di partenza, mezzi e punti di arrivo. La certezza è, tuttavia, che, almeno per quanto riguarda l’uguglianza dei risultati, l’incompatibilità con il liberalismo sia totale. È ovviamente una posizione legittima, ma è de facto in contraddizione con quanto ha detto prima l’autore. Sul secondo punto è bene sottolineare che, a parte le frange anarcocapitaliste e minarchiche, minoritarie al punto di non esistere in Europa, i liberali ammettono l’intervento dello Stato nell’economia. Il laissez-faire può essere un modello a cui tendere perchè più efficace in linea di massima, ma nulla di più. Il problema è, come argomentato due paragrafi sopra, quale sia una quota di intervento accettabile e su cosa debba concentrarsi tale intervento. Le semplificazioni dell’autore sterilizzano il dibattito perché non si può costruire una casa con le fondamenta nella sabbia, il seguito dell’articolo ne è la dimostrazione.

Neoliberismo, ordoliberismo e altre chimere

L’autore ha poi definito il neoliberismo come “ideologia perniciosa e superficiale” che ha “influenzato il dibattito economico e politico“. Secondo Marasti il neoliberismo ha attecchito poco in Europa, per lo più sottoforma di “ordoliberismo teutonico“. Ma non era abbastanza: “Il neoliberismo -un insieme di idee alquanto superficiali, una spruzzata di dati spesso mal interpretati, idee filosofiche deboli come il terreno in pianura durante un maggio uggioso- si è imposto erroneamente come scienza economica“.

Andiamo con ordine, prima di tutto è necessario dare una definizione oggettiva di neoliberismo: è troppo facile e infantile definire mefistofelico ciò che non ci aggrada. È sintomo, inoltre, di una scarsa capacità ed attitudine ad argomentare, visto che l’autore non prova nemmeno a spiegare quali dati siano stati male interpretati, quali idee filosofiche siano deboli e in base a quali fatti asserisca che esso si sia imposto come scienza economica. Queste frasi possono piacere ai comizi o nei circoli di sinistra in cui si cerca di ostracizzare tutto ciò che non è di sinistra, ma sono rivoltanti per chi vuole fare informazione in modo rispettoso dei lettori e per chi ha cuore la verità.

Indirizzo di pensiero economico che, in nome delle riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche all’ombra del laissez faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà politiche. Gli economisti neoliberisti […] non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato, ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in costrizione.

Enciclopedia Treccani

Come il lettore può notare, non c’è nulla di pernicioso: è una teoria come un’altra. Personalmente la trovo per lo più condivisibile, ma non pretendo che sia così per tutti. In generale, mi accontenterei che nel dibattito pubblico venga definita come una teoria e non come un meccanismo satanico. Superando la propaganda stucchevole e commentando nel merito, è rilevante specificare che parlando di neoliberismo solitamente si pensa al monetarismo di Friedman e alla politica economica di Reagan e Thatcher. L’ordoliberalismo non è una versione light del neoliberismo, è solo una declinazione differente del liberalismo che ha iniziato a svilupparsi nel secondo dopoguerra in Germania dalla CDU di Adenauer ed Erhard, quindi molto prima degli anni ’80. Neoliberismo ed ordoliberismo hanno radici in comune, ma sono orientamenti politico-economici tra loro distinti. Consapevole di non poter essere esaustivo in questa sede, vi rimando a un documento dell’Università Goethe di Francoforte e al volume “La verità, vi prego sul neoliberismo” di Alberto Mingardi.

Prezzo, valore e la paura dell’economia

La dimostrazione della pericolosità di neoliberismo ed ordoliberismo, secondo l’autore, sarebbe venuta a galla tra marzo e aprile 2020 quando “uno sparuto manipolo di intellettuali afferenti all’area neoliberista ha messo in discussione non tanto l’efficacia quanto la convenienza delle misure di restrizione“. La prospettiva economicista avrebbe tentato di imporre un prezzo anziché un valore alle vite umane.

Il primo aspetto da considerare è che all’inizio della pandemia quasi nessuno aveva capito la gravità della situazione e quasi nessuno era consapevole di quanto le restrizioni fossero importanti. Zingaretti, certamente non un neoliberista, faceva gli aperitivi contro il coronavirus. Non mi sento di biasimarlo più di tanto però, nè di additare i socialisti come macellai sociali.

Il 4 Aprile invece dalle colonne dell’Economist, che l’autore non cita e quindi non so se si riferisca a questo caso di specie, per la prima volta qualcuno si è chiesto “fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo“. Nell’articolo veniva ribadito che “ogni scelta ha costi sociali ed economici“, che “va aiutato chi le paga di più” e che “sui giovani cadrà gran parte del peso [di tali scelte]“. Al di là delle impressioni a caldo, il presupposto è tutt’altro che irragionevole. Marasti è un matematico, io, invece, sono un umile studente di scienze politiche. Una delle prime cose che ci insegnano è che i fenomeni sociali vanno analizzati ed affrontati contemporaneamente con una molteplicità di punti di vista specifici. Nel caso particolare, la pandemia ha conseguenze dal punto di vista sanitario, ma anche economico, psicologico e sociale. Quindi il legislatore ha dovuto e deve valutare le consuguenze relative a ciascun ambito che ha subito e subisce l’influenza del Covid. Chi fa politica è consapevole che è ogni giorno davanti a un trade-off, ogni volta che scrive una policy sta decidendo a cosa dare priorità e cosa no. Di fatto, sta dando un prezzo maggiore ad un aspetto piuttosto che ad un altro.

Volendo entrare nella polemica prezzo-valore dell’autore, possiamo rifarci alle definizioni di entrambi i termini che dà la Treccani. “Il valore economico di un bene è cioè il prezzo al quale è possibile che sia rispettivamente venduto e acquistato, ovvero il punto d’incontro della domanda e dell’offerta“. Il prezzo invece è “l’equivalente in unità monetarie di una unità di bene o servizio“. Il lettore potrà rendersi facilmente conto che, messo in questi termini, il discorso di Marasti diventi assai debole. Qualcuno potrebbe obiettare che la definzione di valore includa, per estensione, l'”importanza che una cosa, materiale o astratta, ha, sia oggettivamente in sé stessa, sia soggettivamente nel giudizio dei singoli“. La replica in questo caso, tuttavia, mi sembra quasi superflua. Questo aspetto non può essere valutato nell’eleborazione di una policy: è evidente che la vita umana sia importante, ma non esiste una misura universale in base a cui il legislatore possa scrivere delle leggi ottimali per tutti i cittadini, in ogni momento e in ogni luogo, oltre che per parametri soggettivi e oggettivi. Chi ha provato a percorrere questa strada utopica nella politica di tutti i giorni si è dimostrato ingenuo, se non autoritario.

Liberi, oltre l’ideologia

L’autore ha scritto, in modo molto condivisibile, che “il problema del contenimento della pandemia si interseca con una dimensione sociale dell’uomo“. Nulla da eccepire. Ma poi si palesa, con un tocco di autoreferenzialità, un tic culturale tipico della sinistra: la superiorità morale, nata con Ingrao e sdoganata da Berlinguer ormai diversi decenni fa. Scrive infatti l’autore: “Cosa distingue le critiche svolte dagli intellettuali di area neoliberista da quelle svolte da me e altri? Mentre le prime riducono l’essere umano a un agente economico, le seconde cercano, nella loro piccolezza, di restituire una dimensione più alta e nobile.” Posto che sminuire delle (eventuali) tesi a priori, solo perché afferenti a un pensiero politico diverso dal proprio senza argomentare è triste, oltre che ingiusto, ci sono almeno due aspetti da analizzare. Primo aspetto, esistono reali fondamenti culturali per dire che i neoliberali, che per i detrattori sono la totalità dei liberali, hanno una visione esclusivamente economicista dell’essere umano? Secondo aspetto, davvero gli intellettuali di area neoliberale curano solo gli aspetti economici della vita pubblica? Andiamo con ordine.

Per rispondere alla prima domanda, cito innanzitutto il famoso volume di Eamonn Butler “La scuola austriaca di economia”. “Gli economisti non austriaci […] assumono come ipotesi di lavoro che gli agenti economici (cioè gli individui) siano razionali e cerchino sempre il profitto (che facciano, cioè, le proprie scelte avendo sempre presente il beneficio per sé stessi). […] Gli economisti austriaci rispondono che, proprio perché gli individui sono diversi [sulla base dell’individualismo metodologico], non è possibile entrare nella mente di ciascuno per osservarne i processi mentali. Di conseguenza, è fuori luogo parlare di individui razionali e rivolti alla massimizzazione del proprio interesse.” Tradotto, esistono anche una serie di valori e interessi, anche irrazionali, che gli individui considerano quando effettuano le proprie scelte che sono svincolate dall’interesse economico. La teoria economica della scuola austriaca, progenitrice anche del neoliberismo, è ormai considerata superata perché eccessivamente semplificatrice anche dalla maggior parte dei liberali, ma questo presupposto è stato mantenuto. Il concetto di homo oeconomicus è stato introdotto da Mill, che pure era liberale ma antecedente agli austriaci, per cui “l’economista non deve prendere in considerazione la realtà umana nella sua complessità, ma solo le ragioni economiche del suo agire, sgombrando il campo da tutte le irrazionalità, le convenzioni, i costumi morali e le altre regole di condotta che pure incidono nelle sue decisioni“. Adam Smith, padre del liberalismo per eccellenza, è famoso per la seguente citazione: “non è dalla benevolenza del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse“. Vero, ma va rammentato anche che Smith considera le relazioni umane necessariamente basate sul concetto di sympathy, che si può tradurre con solidarietà e condivisione. Evitare di mettere a sistema tanto le tesi de “La ricchezza delle nazioni” quanto quelle della “Teoria dei sentimenti morali”, sarebbe un errore da matita blu.

Per rispondere alla seconda domanda, invece, non servono tanti giri di parole. Durante il primo lockdown i cosiddetti neoliberisti, sicuramente preoccupati per la fotografia economica che si stava iniziando a delineare, sono stati i primi a parlare anche dei problemi relativi alla violenza domestica, al disagio psicologico, alle condizioni dei giovani o al diritto allo studio che non è stato garantito dalla DAD. So che può essere un esercizio non entusiasmante, ma, se il lettore volesse recuperare i video di Liberi Oltre di questi 13 mesi, troverebbe molto materiale a proposito. In linea generale, invece, chi afferisce a quest’area culturale mette eccome al centro la persona: eutanasia, unioni civili, scuola, aborto, divorzio, laicità. Spesso anche i temi economici vengono declinati in questa direzione, basti pensare al focus che da sempre Oscar Giannino propone sull’importanza di avere un’occupazione femminile e giovanile sostenuta, piuttosto che al diritto dei lavoratori ad avere una formazione durante tutta la vita lavorativa in modo da non rimanere senza stipendio.

La famiglia dei liberali e di chi gravita intorno a questo mondo, a volte senza definirsi liberale (per esempio Michele Boldrin), è sicuramente vasta ed esistono delle contraddizioni tra coloro che hanno contribuito a questa dottrina politica nel corso dei secoli. In linea di massima, ad ogni modo, è sbagliato dire che coloro che appartengono a tale area culturale vedano gli esseri umani esclusivamente come agenti economici e che le uniche policies considerate siano a tema economico. Solo qualcuno che legge la realtà esclusivamente con gli occhiali dell’ideologia può permettersi di ignorare e travisare tutto questo.

Conclusione

Ci sarebbero tante altre affermazioni date per assolute, ma perfettamente senza senso, da confutare, come “l’intersezione tra il socialismo e il liberalismo, quindi, deve essere l’essere umano”. Potrei chiedermi se l’autore veramente crede che i neoliberali non si siano occupati, a differenza sua, dei congiunti fuori regione e comune: è nato addirittura un movimento. Potrei argomentare sul modo in cui questi famigerati neoliberisti pensano di combattere le disuguaglianze tra garantiti e non garantiti, per esempio con una riforma del fisco.

La replica diventerebbe troppo lunga e la pazienza del lettore però verrebbe giustamente meno, chi è arrivato a questo punto merita un applauso per lo stoicismo. Quando ho avuto l’ardore di asserire duramente che l’articolo in questione fosse “una paccottiglia confusionaria di bias, definizioni non oggettive e fatti travisati”, prima di bloccarmi sui social l’autore rispose “indosso il vostro disprezzo con orgoglio”. Non so che fine farà l’orgoglio di costui, ma, dopo aver dimostrato che avevo ragione, mi interessa ribadire che dibattere è una delle attività più gratificanti e costruttive che esistano, soprattutto parlando di politica, ma bisogna farlo usando definizioni oggettive, fonti precise, fatti e dati verificabili. Buttare un ammasso di pensieri in ordine sparso è ben diverso da avere un’idea. Marasti ha scritto di auspicare un Paese in cui sia favorita “l’accettazione del diverso con cui sempre più spesso ci troviamo a combattere“. Sono fortemente d’accordo con lui, magari potrebbe dare il buon esempio. Potrebbe evitare di demonizzare gli avversari politici e iniziare a dibattere nel merito, in un ottica di conflitto costruttivo degna di Dahrendorf.

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