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Normalizzazione e mosaico israeliano nel mirino del terrorismo palestinese

4 Aprile 2022

Mentre l’opinione pubblica internazionale è in altre faccende affaccendata Israele è di nuovo vittima del terrorismo palestinese. Undici sono i morti soltanto nelle ultime due settimane, numerose le località colpite: Beer Sheba, nel deserto del Negev; Hadera, sulla costa; Bnei Brak e Ramat Gan, nell’area metropolitana di Tel Aviv (per citare soltanto le città in cui ci sono state vittime).

Città diverse per composizione etnica e sub-culture, accomunate dall’essere tutte pienamente entro i confini internazionalmente riconosciuti dello Stato di Israele. Non si tratta, dunque, degli insediamenti ebraici in Giudea e in Samaria, nella West Bank palestinese, né di Gerusalemme, con il suo portato simbolico, politico e religioso. Si tratta di città qualsiasi, dove non vi è nessuna delle invero caricaturali rappresentazioni che gli oppositori di Israele fanno dello Stato ebraico (ammesso che tali caricature giustifichino in alcun modo gli attentati sui civili). Non è un caso, peraltro, che questo si traduca tragicamente anche nella conta dei morti: delle undici persone uccise, sette erano ebrei, uno era druso, uno era un arabo israeliano e due erano immigrati ucraini.

Le immagini del funerale cristiano del poliziotto arabo israeliano, con la sua bara avvolta nella bandiera di Israele, i fiori a forma di croce sul tessuto, i numerosissimi ebrei (anche Haredim, ossia “ultraortodossi”) a rendergli l’ultimo saluto, sono al contempo la più straordinaria immagine di Israele come ecosistema della diversità e della tolleranza in un contesto largamente anti-democratico e illiberale, da un lato, e come società che è vittima del terrorismo palestinese nel suo complesso, senza distinzioni di appartenenza ai sub-collettivi del proprio mosaico.

L’immagine, al fondo, risponde dolorosamente alla domanda: “che succede quando il terrorismo colpisce la popolazione di uno Stato multiculturale come Israele?” L’esito è purtroppo scritto: terroristi che dicono di difendere gli arabi contro gli ebrei finiscono con l’uccidere anche arabi e drusi che lavoravano quotidianamente per difendere lo Stato ebraico. Infelice paradosso, questo, che evidenzia ancora una volta la fallacia logica e morale del terrorismo.

Dalle indagini pare che alcuni degli attentatori fossero collegati più o meno alla rete di Daesh, il sedicente “Stato islamico”, mentre quello di Bnei Brak sarebbe un lavoratore palestinese illegalmente introdottosi in Israele attraverso una falla nella barriera che divide la West Bank dallo Stato ebraico. Non è da sottovalutare, peraltro, che tutto ciò sia avvenuto a ridosso di Ramadan, di Pesach (la Pasqua ebraica) e della Pasqua cristiana, né che ciò sia avvenuto nei giorni del Negev Summit, che ha visto i ministri di Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco ed Egitto incontrare il Ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid e il Segretario di Stato americano Antony Blinken a Sde Boker, luogo di sepoltura di Ben-Gurion che in quel kibbutz passò gli ultimi anni della propria vita.

Tutto ciò avviene nel periodo in cui Naftali Bennett è volato a Sharm el-Sheikh per incontrare gli omologhi emiratino ed egiziano e in cui il presidente dello Stato di Israele Isaac Herzog ha visitato non soltanto Ankara, ma anche Amman: in entrambi i casi la bandiera israeliana ha sventolato orgogliosamente a fianco di quella del Paese ospitante, in nuove manifestazioni simboliche dei riallineamenti mediorientali. Questi eventi fanno da contesto all’inasprirsi del fenomeno del terrorismo palestinese, che mira da un lato a contrastare politicamente la normalizzazione che è ormai realtà, e che vede gran parte degli Stati della regione intrattenere con lo Stato di Israele sempre più proficue relazioni diplomatiche, e dall’altro a esacerbare la tensione sociale in Israele e nei Territori palestinesi in vista delle festività religiose delle tre grandi religioni monoteistiche.

Ancora più tristemente curioso, peraltro, è che questi attentati avvengano in concomitanza con l’annuncio israeliano di voler garantire l’ingresso regolare in Israele per lavoro a 20.000 palestinesi residenti nella Striscia di Gaza, in un contesto in cui le misure prese dal governo israeliano vanno nella direzione del cd. shrinking the conflict, ossia di alleviare le esternalità negative del conflitto israelo-palestinese sulla popolazione palestinese stessa pur senza risolverlo alla radice. Non è un caso che il governo israeliano, proprio nei giorni degli attentati, abbia annunciato di non voler cancellare le misure decise per allentare le restrizioni sui palestinesi della West Bank in occasione del Ramadan.

La situazione di tensione dovuta ai numerosi attentati terroristici ha, naturalmente, fatto scattare l’allarme delle istituzioni israeliane e dei loro apparati di sicurezza. Il rischio è quello di assistere a una escalation in un contesto – quello delle festività religiose – che di per sé può diventare esplosivo, in Israele e nei territori. Da qui, in coordinamento con il Ministro della Difesa di Israele Benny Gantz, le parole del presidente palestinese Abu Mazen contro gli attentati, che certamente costituiscono un fatto non comune, stante anche la politica dell’Autorità Nazionale Palestinese che prevede il foraggiamento delle famiglie di chi compie attentati terroristici. Anche Turchia, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Marocco e Giordania hanno condannato gli attacchi. Naturalmente, dentro Israele, la società araba si è largamente schierata contro la violenza, anche se non è mancata la stonatura delle condoglianze rivolte sulla pagina Facebook ufficiale della città araba di Umm al-Fahm ai due terroristi – provenienti proprio dalla città e legati a Daesh – che hanno colpito ad Hadera: il sindaco, che aveva già condannato l’attentato, ha poi preso le distanze dal post e ha anche valutato le proprie dimissioni, poi rientrate.

In generale, la società araba d’Israele ha reagito, anche attraverso la voce di Mansour Abbas, il leader del partito Ra’am che fa parte della coalizione di governo in Israele. Tuttavia, di fronte a questo crescendo di insicurezza, è inverosimile che Israele possa rimanere a guardare: contromisure vengono infatti prese, a cominciare dal dispiegamento di ulteriori forze a sostegno delle attività di polizia, contro-spionaggio e detenzione di minacce entro i propri confini e nella West Bank. Ultimo in linea temporale è il caso dello scontro a fuoco che ha visto coinvolte le Forze di difesa israeliane e alcuni sospettati di attività terroristica all’interno della Jihad islamica palestinese nella West Bank, culminato con la morte dei tre palestinesi che avrebbero dovuto essere oggetto di arresto da parte di Israele. Il Primo Ministro, nel frattempo, ha invitato gli israeliani con licenze d’armi ad andare in giro armati e cresce in generale la percezione di pericolo nel Paese, memore della pervasività del terrorismo palestinese ai tempi dell’intifada, bloccata anche a seguito dell’edificazione della barriera di separazione che separa la Cisgiordania dalle città israeliane.

Di fronte a questo scenario, uno degli obiettivi del terrorismo palestinese sembra essere la crescente e inarrestabile integrazione dello Stato ebraico in Medio Oriente: gli Accordi di Abramo tra Israele e Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan, Marocco hanno certamente aperto la strada a nuovi allineamenti interni alla regione, anche in funzione della crescente influenza della proiezione iraniana, e il fatto che il Negev Summit si sia svolto nel kibbutz di Ben Gurion rappresenta senz’altro un pieno riconoscimento del diritto del popolo ebraico a trovare il proprio spazio di autodeterminazione in Medio Oriente.

Questa normalizzazione, che è stata criticata con diversi gradi di asprezza dal mondo palestinese, è la pietra tombale per chi ritiene che Israele sia un fatto transitorio della storia globale ed è altresì un ostacolo insormontabile alle prospettive di chi crede che la soluzione dello Stato binazionale sia una soluzione praticabile per la striscia di terra che va dall’alta Galilea fino al Mar Rosso. Anzi, il rafforzamento dei legami tra lo Stato ebraico e i suoi nuovi partner, così come il rafforzamento dei legami esistenti coi Paesi che già intrattenevano rapporti pur tiepidi con Israele, appaiono una definitiva sterilizzazione della posizione araba sulla illegittimità dello Stato ebraico. Ciò appare ovviamente inaccettabile per coloro che fondano la propria esistenza sulla missione di cancellare Israele dalle mappe geografiche, come nel caso del terrorismo palestinese e di quello di matrice islamista.

Accanto a questa valutazione, infine, tornare alla fotografia del funerale del poliziotto arabo israeliano ucciso dal terrorismo pochi giorni fa appare utile per comprendere l’altro obiettivo del terrorismo, ossia Israele come società aperta e democratica, in cui le minoranze godono di diritti civili, sociali e politici inimmaginabili in qualsiasi altro luogo del Medio Oriente e in cui il conflitto tra le diverse componenti della società viene incanalato nei processi della partecipazione civile e democratica pur in un contesto che richiede allo Stato ebraico misure di sicurezza inimmaginabili nelle nostre società.

Alla luce dei fatti degli ultimi giorni trovano risposta anche molte delle nostre domande sulle scelte di sicurezza nazionale di Israele, senz’altro discutibili e discusse (soprattutto nella stessa opinione pubblica israeliana) ma certamente impossibili da analizzare con le lenti con cui guardiamo a ciò che succede in casa nostra. D’altronde, come ci dimostrano il recente conflitto in Ucraina e le preoccupazioni del fianco orientale dell’Unione Europea, non vi può essere lettura dei conflitti (e delle scelte politiche per affrontarli) senza comprensione e analisi della minaccia.

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