Nella serata di domenica, Viktor Orbán è stato riconfermato a capo del governo di Budapest per il suo quarto mandato consecutivo. Questo significa che per i prossimi 4 anni continuerà a essere un problema per l’UE. Orbán esce, però, sconfitto dal referendum consultivo sulla legge “anti-Lgbtq”, che non raggiunge il quorum.
“Una vittoria che si può vedere anche dalla luna”
Nella serata di domenica 3 aprile, si assisteva col fiato sospeso alle elezioni più cruciali per il futuro degli equilibri democratici in Europa.
L’immarcescibile Viktor Orbán, leader del partito Fidesz, in Ungheria al potere dal 2010, è stato riconfermato per il suo quarto mandato consecutivo. La coalizione formata dai sei partiti di opposizione uniti non è riuscita a segnare un cambio di passo per il Paese, raggiungendo soltanto il 33% delle preferenze, contro l’oltre 55% della coalizione composta dal partito democristiano Kdnp e dal partito di governo.
Le prime dichiarazioni del premier ungherese dopo la rielezione sono state immediatamente dirette ai propri avversari: i burocrati di Bruxelles, Soros e i media internazionali. La lista, questa volta, ha incluso anche il presidente ucraino Zelenskyi, che proprio alla veglia del voto aveva fatto appello ai cittadini ungheresi a prendere le distanze da “l’unico in Europa a sostenere Putin”.
Si tratta di una vittoria che spaventa molto la democrazia e che si pone in linea di continuità con la stagione riformatrice inaugurata da Orbán nel 2010, finalizzata alla costruzione di una società nazionalista, omogenea ed autoreferenziale.
Le tappe incrementali susseguitesi negli anni consistono nella neutralizzazione della Corte costituzionale, nella sostituzione del corpo giudiziario tramite pensionamenti anticipati e nella riforma della legge elettorale che ha, di fatto, consentito di favorire il partito di maggioranza e controllare le elezioni, così da vulnerare il valore democratico dell’alternanza al potere. A ciò si sono affiancate le limitazioni di una serie di libertà fondamentali (come la libertà accademica e di espressione) e dei diritti delle minoranze e dei migranti. Misure che hanno evidenziato la reiterata messa in discussione, all’interno del Paese, di tutte quelle garanzie fondamentali che dovrebbero fare da comune denominatore a tutta l’Unione.
Anche la pandemia ha costituito per Orbán un’occasione per mascherare un uso strumentale del potere oltre ogni limite democratico, finalizzato alla realizzazione di un sistema personale e autoritario, che non può essere tollerato all’interno dell’Unione europea. Basti pensare che, in soli due mesi di pieni poteri, il governo guidato dal premier Viktor Orbán ha emesso ben 180 decreti senza voto parlamentare, di cui solo la minima parte riguardante l’emergenza sanitaria. A titolo esemplificativo, con tali decreti si è provveduto a introdurre il divieto per le persone transessuali di operarsi e cambiare il proprio sesso biologico, togliere fondi ai partiti dell’opposizione e adottare misure contro i media e i migranti.
Quali sono allora i fattori che possono spiegare un tanto insperato quanto prevedibile risultato?
Innanzitutto, la sconfitta dell’alleanza guidata da Péter Márki-Zay si spiega con un sistema elettorale costruito ad hoc che, come già accennato, rende quasi impossibile battere Orbán.
Ancora, il leader ungherese ha esteso il proprio controllo sui media mediante un progressivo azzeramento della stampa libera.
Centrale poi il ruolo svolto dalla guerra in Ucraina. La propaganda del premier ha infatti sfruttato a proprio vantaggio la paura della guerra, sostenendo che l’opposizione avrebbe trascinato l’Ungheria nel conflitto, consentendo a Orbàn di ergersi a garante della pace.
Sulla correttezza del voto, inoltre, è stata gettata l’ombra dei brogli, in seguito al ritrovamento in Romania di schede bruciate.
Nemmeno lo scandalo abbattutosi su Budapest qualche mese fa, secondo il quale il governo ungherese avrebbe utilizzato lo spyware “Pegasus” per sorvegliare giornalisti e oppositori politici, è valso a scalfire l’immagine del premier.
La rielezione di Orbán significa che per i prossimi 4 anni l’Ungheria continuerà a rappresentare un problema per l’UE. Essa si traduce infatti in ulteriori scontri sul rispetto dello Stato di diritto e degli altri valori fondamentali dell’Unione europea, oltre a resistenze alla linea dura con Mosca.
Al contrario, la vittoria di domenica rappresenta una buona notizia per Putin, che può fare ancora affidamento sul proprio cavallo di Troia in Europa. La vicinanza del capo di governo a Putin, lo ha portato infatti a negare la fornitura di armi all’Ucraina e a opporsi a un embargo energetico contro la Russia, segnando una posizione, rispetto al conflitto ucraino, di rottura anche nei confronti degli altri Paesi del gruppo di Visegrád [1].
La sconfitta sulla legge “anti-Lgbtq”
Orbán esce tuttavia sconfitto dal referendum consultivo sulla legge che vieta la “promozione dell’omosessualità” ai minori.
La legge, approvata a larga maggioranza nel giugno 2021, prevede il divieto di mostrare ai minori qualsiasi contenuto che ritragga o promuova l’omosessualità o il cambio di sesso. Un provvedimento che ha provocato una ferma reazione dell’Unione europea e che ha condotto all’apertura da parte della Commissione europea di una (nuova) procedura d’infrazione contro l’Ungheria.
Il premier ungherese aveva allora deciso di tenere una consultazione referendaria, convinto dell’appoggio da parte dei cittadini ungheresi. l quattro quesiti non avevano infatti alcun valore abrogativo, ma una funzione puramente dimostrativa dell’appoggio della società civile alla legge.
Il referendum, svoltosi nella stessa giornata dedicata alle elezioni politiche, tuttavia, è risultato nullo per il mancato raggiungimento del quorum di partecipazione fissato dalla legge.
Ad ogni modo, se pare che la Commissione abbia atteso lo svolgimento delle elezioni prima di attivare il nuovo discusso meccanismo di condizionalità [2], per evitare ogni azione che potesse essere interpretata dal governo in carica come un tentativo di interferenza, all’indomani della rielezione di Orbán, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato l’attivazione dell’inedita procedura nei confronti dell’Ungheria.
Pare che il tempo per un’azione decisa dell’Unione sia finalmente arrivato.
Tanto più dopo le sentenze della Corte di giustizia dello scorso febbraio [3] che hanno attribuito piena legittimità al Regolamento, respingendo i ricorsi introdotti rispettivamente da Ungheria e Polonia.
Note:
[1] Il Gruppo di Visegrád è un accordo di cooperazione politica siglato nel febbraio 1991 da Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, alla vigilia della caduta dell’Unione Sovietica. Nel 1993, la divisione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Slovacchia portò a quattro il numero di componenti del nuovo “V4”. Tutti i membri del Gruppo di Visegrád sono entrati nell’Unione europea il 1° maggio 2004.
[2] Il 16 dicembre 2020 è stato definitivamente adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio il regolamento 2020/2092 relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione europea. Il nuovo regolamento stabilisce le norme necessarie alla protezione del bilancio in caso di violazioni dei principi dello Stato di diritto negli Stati membri, introducendo un meccanismo che subordina la distribuzione dei fondi europei all’effettivo rispetto della rule of law.
[3] Sentenza 16 febbraio 2022, Ungheria/Parlamento e Consiglio, causa C-156/21, ECLI:EU:C:2022:98 e Sentenza 16 febbraio 2022, Polonia/Parlamento e Consiglio, causa C-157/21, ECLI:EU:C:2022:98.