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Quattro domande a Giorgio Comai

30 Maggio 2022

Un paio di settimane fa Giorgio Comai, che è un esperto di questioni post-sovietiche, ha scritto questo pezzo molto bello sulla guerra e su quello che accadrà dopo, quando bisognerà riallacciare dei rapporti con la Russia. Gli ho fatto quattro domande.

Enrico Zappatore: Più o meno due mesi fa Paul Berman per «Linkiesta» ha scritto questa cosa: «[…] Putin non è stato più abile di Chruščëv e di Brežnev nel tentativo di raggiungere un successo definitivo, e cioè la creazione di uno Stato russo abbastanza solido e resiliente da evitare ulteriori collassi. La cosa lo preoccupa. Con tutta evidenza lo getta nel panico. E le sue preoccupazioni lo hanno condotto a considerare il problema dal punto di vista che in passato hanno adottato, uno dopo l’altro, tutti i suoi predecessori – un punto di vista che ha versioni diverse, ma che di fatto è sempre lo stesso. Questo punto di vista è come una specie di paranoia climatica. Si tratta della paura che i princìpi caldi della filosofia liberale e delle pratiche repubblicane provenienti dall’Occidente, spostandosi verso Est, possano scontrarsi con le nubi ghiacciate dell’inverno russo e che da questa collisione nascano delle violente tempeste a cui nulla sopravvivrà. Si tratta, in breve, della convinzione secondo cui i pericoli per lo Stato russo sono esterni e ideologici e non interni e strutturali». Puoi dirmi cosa ne pensi?

Giorgio Comai: Stento a identificare effettiva continuità tra le preoccupazioni principali dei leader sovietici della seconda metà dello scorso secolo e quelle di Putin oggi. Da molti punti di vista, non vi è continuità neppure tra i primi due mandati presidenziali di Putin e quelli successivi all’interludio della presidenza Medvedev. A inizio anni 2000, una forte preoccupazione per la debolezza statuale della Federazione russa aveva determinato una politica interna che aveva come obiettivo esplicito quello di creare una “verticale del potere” con al vertice il Cremlino, rafforzando anche istituzionalmente il controllo del presidente sugli enti federati  e riducendo a un ruolo subordinato gli “oligarchi” degli anni Novanta (“oligarchi”, che quindi ormai da vent’anni non dovrebbero essere chiamati tali, considerato che sono molto meno influenti dei grossi gruppi economici nei paesi occidentali). Anche se eventi come la “Rivoluzione arancione” del 2004 in Ucraina erano percepiti a Mosca come parte di un tentativo occidentale che mirava a cambiare il volto del Cremlino, il tratto unificante più riconoscibile dei primi mandati di Putin era effettivamente quello del consolidamento interno.

Mi convince poco anche il riferimento a una minaccia “ideologica” esterna. Da parte del Cremlino, non c’è alcuna condanna del capitalismo occidentale, che anzi continua ad essere preso da modello, seppure adattato e reso ancor più disfunzionale nella sua versione russa. Se, come credo, non bastano una retorica “conservatrice” e omofobia a creare un’ideologia, non è davvero chiaro quale sia lo scontro ideologico di riferimento. Un sistema autoritario che basa la propria piramide di potere su clientelismo e corruzione per mantenere coesione interna tra le élite, che trova risorse attraverso un capitalismo estrattivo con poche prospettive di sviluppo economico sostenibile già nel medio periodo, e che si mantiene in controllo del paese anche grazie a un crescente controllo dello spazio informativo e reprimendo ogni forma di opposizione, non rappresenta né un’ideologia alternativa né un modello di successo che susciti invidia o desiderio di emulazione dall’esterno, in nessuno dei continenti del pianeta.

Più in generale, per quanto riguarda la dimensione ideologica, la Russia non può certo fungere da erede dell’URSS come principale oppositore ideologico di un Occidente liberale, ammesso che questo esista come tale, in primo luogo perché non ha effettivamente un’ideologia alternativa da offrire.

Zappatore: In un lungo pezzo sul sito dell’Osservatorio Balcani e Caucaso scrivi che c’è un grosso equivoco su cosa voglia dire nazista in Russia, un equivoco che dipende in gran parte da una diversa memoria della Seconda Guerra mondiale, che in Russia si tende a ricordare come una guerra contro l’URSS, e contro i russi, più che contro il totalitarismo. In sintesi, per la Russia non ha alcuna importanza che ci sia o meno una massiccia presenza dell’estrema destra in Ucraina: “nazista” è chiunque sia “anti-russo”. Ora, l’uso politico della memoria non è una novità né una prerogativa russa (lo abbiamo fatto, lo facciamo, anche in Italia: ne hanno scritto molto bene, tra gli altri, Jonn Foot, Sergio Luzzatto e Aram Mattioli); ma di solito il conflitto che ne segue è interno, e cioè subordinato a logiche di legittimazione e delegittimazione tra partiti. Insomma, la posta in gioco (semplifico un po’) è capire chi ha il diritto di governare, anche secondo una certa prospettiva storica, e le mistificazioni servono a dimostrare appunto questo: che l’altra parte farebbe di tutto per demolire l’identità del paese, per tradirne la storia. Nel caso della Russia mi pare che l’asse si sposti: ad essere minacciata è sempre l’identità, solo che la minaccia proviene da fuori, è esterna. E una cosa è sentirsi minacciati da un partito, un’altra è pensare che la minaccia sia l’esistenza di una nazione che ha scelto di non essere come noi. Ecco, se la premessa è questa, che genere di negoziati si possono portare avanti? Come si rassicura un paranoico?

Comai: La preoccupazione identitaria, ovvero la presunta “minaccia esistenziale” che ha spinto Putin a ordinare l’invasione dell’Ucraina, non può trovare una risposta in sede di negoziato. L’unica rassicurazione che cerca è quella della non-esistenza di una nazione ucraina indipendente, e non c’è davvero modo di rassicurare Putin da questo punto di vista. Per fortuna, lo scopo dei negoziati non è quello di rassicurare Putin, bensì quello di porre fine all’attuale guerra, idealmente sulla base di accordi che consentano una pace duratura e la tutela dei diritti umani delle popolazioni coinvolte. Si tratta di obiettivi ambiziosi, ma non impossibili, né attivamente controproducenti, come sarebbe invece il desiderio di rassicurare Putin.

Nonostante l’azzardo dell’invasione, Putin è sempre stato tradizionalmente avverso al rischio, come evidenziava ad esempio anche Mark Galeotti in un recente libro sul presidente russo (We Need to Talk About Putin – How the West gets him wrong – si veda il capitolo 6, «Putin is Risk-Averse, Not a Macho Adventurer»). L’avversione al rischio, apparentemente abbandonata con l’invasione, si è manifestata in questo caso in altra forma: nei messaggi promossi nei media russi, non si trova una definizione coerente né delle motivazioni né degli obiettivi di questa guerra. In Russia, non si è lasciato spazio per l’opposizione alla guerra, ma non si è lasciato spazio neppure a gruppi più esplicitamente militaristi che possano togliere libertà d’azione al Cremlino.

In questa fase, Putin non ha ancora del tutto abbandonato obiettivi massimalisti, né ha definito quali condizioni sarebbero accettabili per la Russia – né in termini di obiettivi politici, né di ambizioni territoriali. Da questo punto di vista, Putin ha effettivamente conservato una grande libertà, e quindi ha grande flessibilità nel definire quali circostanze sarebbero per lui accettabili senza bisogno di arrivare all’impossibile: ammettere una sconfitta. Proprio per questo non ha bisogno di nostre rassicurazioni: si è tutelato in tutti i modi possibili per poter continuare a raccontare in ogni fase delle guerra – e nonostante l’evidenza – che tutto sta andando secondo i piani, e per poter dire a fine negoziati che l’obiettivo originale dell’«operazione speciale» è stato raggiunto.

Zappatore: Nel pezzo scrivi che a un certo punto, quando la guerra finirà (che sia per un cessate-il-fuoco o, meno probabilmente, per un accordo di pace), le sanzioni andranno ritirate. Un po’ perché continuare ad accanirsi sulla popolazione civile non ha senso e un po’ per non alimentare un sentimento revanscista che finirebbe per esacerbare l’ostilità e l’autoritarismo della Russia. Molto giusto. Ma, posto che un approccio punitivo non conviene a nessuno, come si riallacciano i rapporti con una nazione da cui ci si è appena allontanati (e per delle ottime ragioni)? Prendiamo la questione del gas: la grandissima parte dei paesi si sta riorganizzando per dipendere molto meno dalle importazioni di gas russo, ed è uno sforzo che costa fatica, risorse, anche energia. Cosa bisognerà fare finito il conflitto? Ricominciare ad acquistare gas russo in quantità più ridotte? O tenersi prudentemente alla larga? Insomma, dato che una qualche forma di collaborazione bisognerà trovarla, come ci regoliamo? A me pare che lo scoglio più grosso in questo senso siano le élite russe, o meglio il ruolo che le élite russe vogliono giocare sul piano internazionale e il modo in cui vogliono giocarlo: perché se manca il polo dialogico, mancano i presupposti per riallacciare delle relazioni che non siano puramente economiche.

Comai: Purtroppo, in questo momento è difficile immaginare negoziati sulla guerra in Ucraina che si concludano con un accordo che giustifichi a politici e pubblico occidentale la fine delle sanzioni. Realisticamente l’attuale quadro delle sanzioni rimarrà in vigore per i prossimi anni. Se si ragiona nel medio periodo – poniamo tra i 3 e i 10 anni – allora sono molte le cose che possono succedere per determinare scenari diversi da quelli concretamente immaginabili in questo momento. Se questo è l’orizzonte temporale di riferimento, allora non si può non immaginare una Russia senza Putin, che probabilmente non sarà fondamentalmente diversa da quella attuale, ma in cui elementi di rottura con la Russia di Putin oggi potrebbero farsi più evidenti. Con tutti i limiti dei paragoni storici, per fare un esempio senza allontanarsi da Mosca, il XX congresso del PCUS del 1956 – avvenuto a tre anni dalla morte di Stalin – non ha rinnegato completamente il passato staliniano, ma ha offerto una rielaborazione di quegli anni che ha creato nuovi spazi in politica interna e internazionale.

È davvero difficile dire quali saranno le circostanze in una Russia senza Putin, o come potrà avvenire un passaggio di potere nel contesto sempre più autoritario della Russia contemporanea. Quello che si può dire è che sicuramente nei prossimi anni ci saranno delle finestre di opportunità, durante le quali l’Occidente e in particolare l’Unione europea potrà avere un ruolo importante nel creare spazi, circostanze e narrative che possano favorire un riavvicinamento progressivo, non a scapito ma piuttosto favorendo la sicurezza dell’Ucraina stessa.

Questo comunque non vuol dire rassegnarsi all’idea che le sanzioni, per come le conosciamo o ulteriormente rafforzate, debbano rimanere in vigore fino alla fine del regime di Putin. Se vi saranno le circostanze, sarà importante favorire dinamiche positive: è importante, ad esempio, non esigere riparazioni di guerra come premessa per ogni riavvicinamento o riduzione delle sanzioni, ma piuttosto considerare iniziative di sviluppo regionale tutt’altro che estranee alla natura dell’Unione europea.

Considerato che vi sono poche ragioni per sperare che le sanzioni possano essere interrotte nel prossimo paio d’anni, in particolare per quanto riguarda settori direttamente legati allo stato e che quindi contribuiscono al rafforzamento delle capacità belliche russe, aziende e attori del mercato dell’energia dovrebbero effettivamente lavorare a soluzioni sostenibili di lungo periodo che non dipendano in alcun modo dalla Russia. Per fortuna, in questo caso gran parte delle attività necessarie sono coerenti con un piano di transizione energetica mirato a ridurre la dipendenza da gas e petrolio che – per tanti motivi – avremmo dovuto iniziare a implementare con molta più convinzione da parecchi anni. Se tra qualche anno vi dovessero essere delle prime aperture che possano consentire cooperazione economica tra UE e Russia, sarà quindi meglio per entrambe le parti se queste non si concentreranno nel settore degli idrocarburi.

Per chiarire: sarà meglio per la Russia, per l’Unione europea e per il pianeta se nuove aperture economiche non si tradurranno in nuovi flussi di investimenti e tecnologia per estrarre gas da giacimenti altrimenti difficili da sfruttare nel nord della Siberia, di fatto ostacolando una diversificazione dell’economia russa e la riconversione a energie rinnovabili in Europa. Una rinnovata e più indirizzata cooperazione in settori non collegati direttamente all’apparato dello stato e al potenziale bellico della Russia, come ad esempio l’ambito agro-alimentare, sono un chiaro esempio di filoni di attività possibili anche a prescindere da una completa normalizzazione dei rapporti, per i quali vi è grande interesse sia da parte di attori europei che russi.

In senso più ampio, se l’obiettivo effettivo delle sanzioni è quello di ridurre materialmente la capacità del governo di Mosca di portare avanti l’invasione dell’Ucraina – non quindi di punire la popolazione civile del paese – è utile iniziare a ragionare al più presto su quali aspetti di queste sanzioni possono essere aggiustati per ridurne l’impatto su cittadini comuni. Iniziative di carattere sociale e culturale, inclusa una massima apertura da parte europea a cittadini russi desiderosi di studiare o lavorare in Europa, devono essere incoraggiate. È quindi importante promuovere politiche e narrative che insistano su quanto da parte europea vi sia effettivo interesse per il benessere di tutte le popolazioni più direttamente coinvolte in questa guerra: non solo ucraini, ma anche russi e bielorussi.

Nel lungo periodo, anche dando priorità alle ambizioni europee espresse dal governo ucraino e senza dimenticare le incoraggianti proteste che hanno coinvolto la Bielorussia nel 2020, lo scenario preferibile – anche per la stessa Ucraina – non è uno in cui vi è una spaccatura netta tra un’Ucraina democratica e integrata con l’UE da una parte, e una Russia e Bielorussia isolate e sempre più autoritarie dall’altra. Chiarire – con parole e politiche – che l’obiettivo di lungo periodo non è quello di isolare o punire Russia e Bielorussia è importante per rendere più probabile che benessere e pluralismo trovino spazio anche in questa parte d’Europa.

Zappatore: Uno ha la sensazione che dal 2004 si sia pian piano delineato un nuovo quadro ideologico che ruota, per esempio, intorno a Putin in Russia, a una certa sinistra woke e al trumpismo negli Stati Uniti, ai Cinque Stelle in Italia; un quadro ideologico che, mi pare, ha molto a che fare con una crisi che una certa idea di Occidente attraversa da qualche tempo. È possibile che Putin abbia visto con chiarezza questa crisi e che la sua decisione di iniziare una guerra sia dipesa anche da questo? O semplifico troppo?

Comai: Putin ha iniziato questa guerra convinto di affrontare un’Ucraina debole e divisa, un’Europa ancora più debole e divisa e Stati Uniti lontani e ossessionati dalla propria politica interna.

L’invasione trova motivazione in un’ossessione identitaria, ma certo è presente anche una dimensione geopolitica. In particolare, prendere il controllo dell’Ucraina sarebbe stato un modo per dimostrare l’inconsistenza di una presunta egemonia americana, di cui l’Unione europea sarebbe solo appendice. Si tratta quindi anche di un modo per umiliare gli Stati Uniti a livello internazionale, e dimostrare ancora una volta come la Russia sia capace di imporre la propria volontà al proprio vicinato, come sia un attore imprescindibile del sistema di sicurezza internazionale (basti pensare alla Siria), e quindi debba essere considerata a tutti gli effetti una grande potenza con cui anche gli Stati Uniti dovrebbero negoziare da pari, non da una posizione di superiorità.

Le spaccature interne alle democrazie liberali occidentali sono probabilmente colte come dimostrazione della debolezza, frammentazione e strutturale decadenza dell’Occidente, ma, di per sé, si tratta di dibattiti di limitata rilevanza sia nella Russia contemporanea, sia tra le mura del Cremlino.

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