Chad Davis/Flickr

SENTIMENTALISMO E SOCIAL: LA MORTE DI GEORGE FLOYD

3 Giugno 2020

Una sintesi caustica. Smettiamola di condividere compulsivamente materiale. E i problemi americani non sono necessariamente nostri: guardiamo prima casa nostra.

Lo premetto: non è il mio minimo interesse fare polemica, o scagliare colpe. Mi piacerebbe soltanto iniziare a parlare delle cose, perché è l’unico modo per capirle.

Il 25 maggio 2020 George Floyd è morto secondo la dinamica che ormai tutti conosciamo. Definire agghiacciante quella scena è riduttivo. Vedere la banalità con cui la vita di un essere umano svanisce è di per sé un’esperienza sconvolgente, traumatica.

Una visione forzata

È proprio sulla semplice brutalità della scena che vorrei fermarmi per primo. La massiccia condivisione dei video e delle immagini dell’accaduto è stata tale che nessuno ha avuto la possibilità di scegliere se trovarvisi o meno di fronte, se guardare o meno il video e le foto nitide.

Per alcuni questo potrebbe essere un punto positivo in quanto “finalmente” i social rappresentano lo strumento che ti sbatte davanti agli occhi la “vera” versione del mondo, con la sua brutalità (come in questo caso) o la sua straordinarietà, senza edulcorazioni o filtri. Così diventa quasi un dovere guardare la “vera” faccia del Globo, e un dovere fare il più possibile affinché tutti la guardino. Solo in questo modo si può avere un’informazione attendibile: fidarsi solo dei propri occhi e orecchie. È in quest’ottica, a mio avviso, che si potrebbe spiegare la foga con cui abbiamo condiviso le storie-Instagram su questo evento.

Questo atteggiamento è condivisibile, e sinceramente anche io ne sono attratto. Però cerchiamo di immedesimarci nelle persone più sensibili, vedere una scena simile potrebbe veramente rappresentare un trauma per costoro. Lo stesso Instagram non è estraneo a questa sensibilità: in un primo momento è riuscito a gestire il materiale applicando la sua sfocatura per contenuti potenzialmente sensibili; tuttavia non appena le storie e i post sono dilagati, questo filtro è venuto meno.

Vedere, non più leggere

In generale questo atteggiamento di forzare alla visione lede la possibilità, propria delle persone, di scegliere se e come approcciarsi a un evento.

Un testo può essere evocativo, finanche vivido nel rappresentare, ma necessita sempre di un certo impegno cognitivo da parte del lettore. Questo impegno viene invece bypassato dall’immediatezza dell’immagine, la quale allo stesso tempo innesca una risposta emotiva più forte, polarizzata. Tutto questo mi spinge anche a dire che il solo racconto verbale della morte di Floyd non avrebbe generato un’analoga reazione. Ma questa è solo un’impressione.

Un punto rimane. Da un lato potremmo considerare un dovere civico informarsi sui fatti del mondo. Dall’altro però dovremmo tenere bene a mente le modalità con cui questo processo possa avvenire. L’utilizzo di immagini porta con sé sì dei grandi vantaggi, ma al contempo delle responsabilità aggiuntive.

Filtrare un mondo

Inoltre si deve ben tenere a mente che il mondo che ci costruiamo nei social, seguendo alcuni e non altri, ecc. ecc., non è mai veritiero. Anche il meccanismo dei trends porta in evidenza i contenuti più discussi, falsando la percezione. Tenere sempre a mente questa dinamica non è sempre facile, e ciò ha delle conseguenze.

È per questo che i giovani italiani hanno risposto con così tanta forza alla morte di George Floyd (dico morte in quanto, ricordiamocelo, in un Paese democratico spetta ai tribunali stabilire circostanze e gradi di responsabilità, e per ora anche le perizie autoptiche sono contrastanti). Invece è profondamente più blando l’interesse per le migliaia di persone che, mese dopo mese, rischiano la vita nel tentativo di raggiungere le coste europee. Certo, le migrazioni sembrano ormai risalire alla notte dei tempi; e per le cose lunghe si perde slancio, interesse. Eppure è proprio su questo impegno sul lungo termine che si dovrebbe basare una democrazia. L’esplosione di sconcerto e rabbia non bastano, mai.

America, un altro mondo.

In conclusione tengo a sottolineare come le dinamiche statunitensi non siano così facilmente accessibili a noi europei. La realtà americana è molto complessa, piena di contraddizioni radicate nella breve ma intensa Storia del loro Paese. E proprio per questo, sebbene sia onorabile la nostra pretesa di pari diritti per tutti gli americani, quella razziale rimane una questione del tutto statunitense sulla quale il nostro punto di vista ha poco da dire. Sebbene Europa e USA siano state, e saranno, vicine culturalmente, politicamente ed economicamente, sono due entità distinte. La stessa amministrazione Trump non ha mancato occasione di ricordarcelo.

Due entità differenti, ognuna con i propri problemi, degli enormi problemi da risolvere. Per questo è sulle continue violazioni dei diritti che circondano il nostro Paese, che dovremmo scagliarci giornalmente. È su queste che dobbiamo essere più attivi e fare pressione sulle istituzioni statali ed europee affinché vengano eliminate, poiché è qui che siamo direttamente coinvolti e responsabili. Perché tentiamo di togliere la pagliuzza (certo molto grande) che è nell’occhio del nostro alleato ma non ci accorgiamo della trave che è nel nostro?

Giovanni Duca.

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