Come per altri prima di lui ho iniziato a esplorare Zerocalcare da una “via traversa”. Da qualcosa di suo che però non fosse parte della sua comfort zone. E sono felice di averlo fatto.
È stato facile capire perché abbia raggiunto un tale livello di popolarità in così poco tempo. Strappare lungo i bordi è un prodotto straordinariamente genuino e autentico, che racconta lati della personalità di cui oggi parlano in pochi e zone geografiche certo dure, ma con una seconda personalità fluida e caratteristica. Sono partito dalla prima serie animata della matita d’oro di Rebibbia, per poi fare retromarcia e recuperarmi tutti i fumetti. Volevo analizzare SLIB con qualche elemento di background in più, da bravo narratore onnisciente. E credo di aver capito cosa ho di fronte.
Punto uno. La vicenda.
Non si parte da nulla di nuovo o di mai visto, ma si giunge a qualcosa di mai completamente o definitivamente esplorato. Zerocalcare comincia da un viaggio per circostanze tragiche, fornendo una scusa narrativa per il vero viaggio, quello mentale. Inizia (in realtà finisce…) da una tragedia, allo stesso modo del prologo de La profezia dell’armadillo, continuando attraverso le collaudate riflessioni su tutti i periodi della vita, sulle esperienze, sul rapporto con la nuova protagonista, Alice, e gli amici di sempre. Ci sono i saliscendi di emozioni, ci sono le chiacchierate spensierate e i monologhi dalla profondità quasi teatrale, le riflessioni realiste e crude fino all’osso e quelle tragicomiche schifosamente divertenti.
È il solito Zerocalcare, eccellente nel trasformare qualunque inezia in un evento apocalittico. Senza nessun tipo di spoiler, in un certo episodio c’è una sequenza ambientata su un treno, che personalmente ho adorato. Tutti noi almeno una volta nella vita ci siamo lamentati dell’aria condizionata nelle carrozze. Rech prende questa sommossa popolare e la trasforma in allegoria in un modo che non solo coinvolge, ma fa ridere di gusto. Subito poi dopo distrugge tutto in un attimo, descrivendo una scappata in bagno devastante psicologicamente e fondamentale a livello narrativo. Intrattenimento allo stato più puro, capacità descrittiva allo stato dell’arte.
Michele Rech ha la fortuna di saper tradurre perfettamente su carta l’inquietudine che ogni singolo evento delle nostre giornate ci causa. Riesce a rappresentare le sensazioni di una fetta molto grossa dei lettori, dipingendo quadri di inquietante fedeltà. Sa far scaturire un mondo di incubi e ombre da una semplice domanda a bruciapelo. Un senso di tremenda sicurezza e pace dal contatto col nostro armadillo personale. Un sentimento di sconcertante angoscia derivato dal vedere sé stessi perfettamente disegnati da un perfetto sconosciuto in un fumetto. Un tutto da un nulla. Una cosa che amo profondamente.
Punto due. La tecnica.
A livello tecnico ed estetico, a colpire non è tanto lo stile in sé per sé. I contorni decisi e i colori in prevalenza chiari o sbiaditi fanno parte del classico vocabolario di Calcare. Quello che impatta è il dislivello presente tra le scene di rappresentazione narrativa e quelle introspettive. Il fatto che parliamo di una serie tv sicuramente amplifica la cosa, ma posso assicurare che è un fattore evidentissimo anche a stampa. Rech riesce a passare da un livello di tensione zero a una sensazione di angoscia pungente nello spazio di una vignetta. Lo fa con cambi di tavolozza improvvisi, a volte in direzione di un tratto più munchiano, più divisionista, più stilizzato sotto il profilo cromatico, altre volte invece in uno sguardo più hardcore, dove i contrasti sono più decisi, quasi rabbiosi.
Terzo. La produzione.
Essendo una creatura targata Netflix è scontato che si parli di un progetto a budget considerevole, ma questo non implica per forza che si perda il tratto per così dire casalingo dell’autore. Ciò traspare, più che dal risultato finale, dai video esplicativi che narrano tutta la costruzione della serie. Animazioni ed effetti visivi sono stati costruiti da un team composto da un centinaio di persone, da Movimenti Production, BAO Publishing, Doghead Animation Studios e RainFrog. Ma Rech ha supervisionato l’intero processo. E si vede.
Il doppiaggio è al 90% dell’autore stesso. Ovviamente non si sta parlando di un Pannofino, o un Luca Ward, ci mancherebbe. Eppure, per lo scopo che vuole raggiungere il racconto, è molto più che sufficiente. Stiamo guardando, per lo più, le mille voci del subconscio del protagonista, e il fatto che la sua voce assuma diversi caratteri e intonazioni è molto fedele e coerente. L’unica presenza talmente soverchiante da meritare un doppiatore specifico è l’amico armadillo. E Valerio Mastandrea è semplicemente perfetto. Il suo tono a metà tra il saggio del villaggio e l’infingardo burino di Roma Sud casca a fagiolo con il quadro dipinto da Zerocalcare.
Personalmente temevo che le mire commerciali dell’editore compromettessero la comunicazione dell’autore, ma sono oltremodo felice di essere stato smentito. Il romanesco, imprescindibile e unico mezzo di espressione calcariano, resta in tutte le sue smascellanti inflessioni e tipiche espressioni goliardiche. Ed è un bene, perché secondo me aggiunge un che di autentico a tutta la baracca. E avrebbe fatto lo stesso effetto se fosse stato in napoletano (come in Gomorra, per nominarne uno…), o in milanese. Ciò che farebbe ridere fa sganasciare, il profondo diventa vissuto, e tutto sa, allo stesso tempo, di più familiare e di duro da digerire.
Infine uno dei punti più riusciti. Il reparto sonoro.
La colonna sonora di Giancane è semplicemente clamorosa, e riuscitissimi sono gli accostamenti brano-momento. Le tracce originali sono composte con grande cura dei testi e profonda ricerca emozionale, e quelle di contorno di Tiziano Ferro, Manu Chao, Ron, Billy Idol e molti altri coprono lo sfondo in maniera sublime. Dovessi sceglierne una come esempio, considererei la scena in cui il protagonista ritorna a notte fonda a casa dopo aver visitato Alice. Semplicemente da pelle d’oca.
Strappare lungo i bordi è una gran serie. Perfetta per i gusti di chi scrive e, dico io, anche di molti altri. Corta, in una serata si finisce anche due volte, tanto intensa in certi momenti quanto leggera in altri. Personale e collettiva, autoriale come poche, ossessiva nel dettaglio e nelle descrizioni. Divertente assai, perché ci si riconosce chiaramente nel protagonista, e sorprendente a più riprese.
Perché tra il pensare e il disegnare c’è di mezzo Zerocalcare.