La sera del 18 Aprile pensavamo di essere di fronte alla più grande rivoluzione sportiva della storia, oggi, solo cinque giorni dopo, ne stiamo già commentando l’esito totalmente fallimentare. Errori comunicativi grossolani e imperdonabili, analisi del rischio mal ponderata e scarsa convinzione sono all’origine della débâcle. Gli elementi in gioco per valutare la breve vita della Super League sono moltissimi, quindi andiamo con ordine.
I motivi della scissione
I club che hanno sottoscritto l’accordo per fondare la Super League erano dodici: AC Milan, Arsenal FC, Atlético de Madrid, Chelsea FC, FC Barcelona, FC Internazionale Milano, Juventus FC, Liverpool FC, Manchester City, Manchester United, Real Madrid CF e Tottenham Hotspur. La Spagna avrebbe quindi portato in dotazione tre squadre, come l’Italia, mentre l’Inghilterra addirittura sei. Non pervenute Germania e Francia, nonostante gli inviti a partecipare recapitati a Bayern Monaco, Borussia Dortmund e Paris Saint-Germain. I club firmatari avevano estremo bisogno di ripianare i propri debiti, diventati una vera e propria spada di Damocle a causa della pandemia.
Per questo motivo negli scorsi mesi il pressing sulla Uefa è stato sempre più insistente. I grandi club chiedevano infatti di aver voce in capitolo sulla governance. In particolare pressavano per essere coinvolti nei rapporti con gli sponsor, nelle decisioni relative ai diritti tv e nella modifica del format. L’ostilità di Ceferin, tuttavia, ha eroso la fiducia dei proprietari, soprattutto per la formula della nuova Champions League che dovrebbe entrare in vigore solamente dalla stagione 2024/2025. Al di là del giudizio negativo sul format, per tali club sarà troppo tardi, i loro problemi economici (quindi di tutto il sistema) vanno risolti prima.
Il numero di partecipanti crescerà, da 32 a 36, e un girone unico sostituirà la fase a gironi, le cui posizioni finali saranno la base per la fase a eliminazione diretta. Ogni squadra giocherà 10 match contro 10 squadre diverse in base al ranking, 5 in trasferta e 5 in casa. La qualificazione dipenderà dal posizionamento dei campionati nazionali, a parte due società che accederanno attraverso delle wild card. Non qualificate per la Champions ma per l’Europa League o la neonata Conference League, tali società verrebbero invitate in base al ranking Uefa e ai risultati dei cinque anni precedenti.
Ampliare il mercato
Attualmente da Champions League ed Europa League scaturiscono ricavi per 3,1/3,2 miliardi di euro, suddivisi in questo modo: 2 miliardi sono destinati ai 32 club che partecipano alla Champions, 510 milioni ai 48 dell’Europa League, 295 milioni servono a coprire i costi organizzativi, 163 milioni rimangono alla Uefa per i suoi progetti e 275 milioni sono distribuiti tra Federazioni e altri club nell’ambito della mutualità europea. Questi dati si riferiscono all’ultima stagione senza Covid, ovvero quella 2018-2019, l’anno scorso infatti i ricavi sono stati di “soli” 2,4 miliardi.
La NFL conta 300-400 milioni di appassionati e ottiene ricavi per circa 7 miliardi. I campionati europei ne contano quasi 3 miliardi e mezzo ma i ricavi sono meno della metà. Il potenziale sembra enorme rispetto allo status quo. Con il progetto di Super League si stimava di ottenere 5/6 miliardi nel breve termine e 10 nel medio lungo.
L’investimento di 3,5 miliardi della banca d’affari JP Morgan avrebbe garantito ai partecipanti di staccare subito un ticket di almeno 200 milioni. Per i club indebitati sarebbe stata una boccata d’ossigeno considerevole. Marco Bellinazzo, giornalista esperto di business dello sport, ha riportato su Il Sole 24 Ore che il contributo di mutualità sarebbe potuto salire del 60%, raggiungendo i 434 milioni. Numeri che smentirebbero la tesi per cui solo i grandi club si sarebbero arricchiti. Per raggiungere questi obiettivi sfondare nel mercato asiatico e tra i giovani sarebbe stato fondamentale. In questo senso il format della Super League risultava molto più adatto della nuova Champions.
Nella giornata della fuga dei club della nuova lega, Bloomberg ha riportato che il presidente della Uefa, Ceferin stesse negoziando con Centricus Asset Management un finanziamento da 6 miliardi di euro. Centricus è una società finanziaria che gestisce asset per 30 miliardi di dollari. Tuttavia, non è stato raggiunto ancora nessun accordo.
Quello sapevamo davvero sulla Super League
La comunicazione intorno alla Super League è stata a dir poco dilettantesca. I dodici club secessionisti hanno comunicato la nascita della nuova lega a mezzanotte di domenica. Dopo mezz’ora sono usciti anche dall’ECA, l’organismo che rappresenta le società calcistiche a livello europeo. Sono stati resi noti solo il funzionamento del torneo, che sarebbe consistito in due gironi da dieci squadre e una fase a eliminazione diretta, i nominativi di chi avrebbe ricoperto ruoli apicali e le stime sui ricavi. Florentino Pérez, presidente del Real Madrid, sarebbe stato presidente anche della nuova lega, Andrea Agnelli, presidente della Juventus, e Joel Glazer, amministratore delegato del Manchester United, sarebbero stati i due vicepresidenti. Infine, sapevamo che gli organizzatori non volevano ostacolare lo svolgimento dei campionati nazionali. Essi si sarebbero potuti svolgere, analogamente a ciò che accade per la pallacanestro.
Mancavano, tuttavia, troppi elementi per dare un giudizio definitivo. L’incertezza è rimasta sia riguardo ai nomi di tre soci fondatori, sia a proposito dei meccanismi di partecipazione delle altre cinque squadre. Inoltre, non sono state comunicate le caratteristiche delle licenze annuali e pluriennali, di conseguenza quanto il sistema sarebbe stato effettivamente chiuso e il margine per eventuali cambiamenti. Ciò ha innanzitutto vanificato il tentativo di capire l’eventuale necessità di un intervento dell’antitrust. In secondo luogo, ha fatto inimicare la totalità dei tifosi delle squadre medio-piccole. La meritocrazia, almeno in teoria, è un pilastro storico del calcio europeo: avrebbe meritato più attenzione sia dal lato comunicativo che da quello del design.
Le dichiarazioni rilasciate man mano che il progetto si stava sgretolando, come se non bastasse, sono state improbabili. Tanto è vero che Agnelli ha dovuto smentire a Reuters un’intervista rilasciata poche ore prima a Repubblica. In sintesi, hanno comunicato poco e male.
I campionati nazionali sempre più monopolizzati
La verità è che i club invitati sono stati quasi gli unici a vincere i rispettivi campionati nazionali.
Negli ultimi vent’anni in Italia hanno vinto lo scudetto solo Juventus, Milan e Inter, con l’eccezione della Roma nell’ormai lontano 2000-2001. Invece in Germania, negli ultimi 15 anni, il Bayern Monaco ha alzato undici Meisterschale, di cui gli ultimi otto, le restanti edizioni della Bundesliga sono state vinte dal Borussia Dortmund (2010-11 e 2011-2012), dal Wolfsburg (2008-2009) e dallo Stoccarda (2006-2007). In Inghilterra le squadre che hanno inizialmente aderito alla Super League hanno vinto tutte le edizioni della Premier League dal 1995-1996, ad eccezione della stagione 2016-2017 vinta dal Leicester City di Ranieri.
A partire dalla stagione 1984-1985, in Spagna hanno sempre vinto Barcellona, Real Madrid e Atletico Madrid, escludendo i due primi posti del Valencia (2001-2002 e 2003-2004) e quello del Deportivo La Coruña (1999-2000), ora in Segunda División B. In Francia è necessario porre lo spartiacque più avanti, ovvero da quando è iniziata la presidenza del qatariota Nasser Al-Khelaïfi al Paris Saint-Germain nel 2011. Da quel momento il PSG ha vinto sette campionati su nove e si è posizionato al secondo posto quando ha vinto il Montpelier (2011-2012) e il Monaco (2016-2017).
Non è diversa la situazione in Champions League. Negli ultimi vent’anni l’unico club che ha trionfato al fuori dalla lista delle 15 squadre invitate a far nascere la Super League è stato il Porto di Mourinho nell’ormai lontana stagione 2003-2004. Quall’anno la squadra sconfitta era stata il Monaco, che risulta l’unica finalista perdente degli ultimi 19 anni non appartenente alle 15 grandi.
Una riforma (im)possibile?
È evidente, quindi, che il numero di successi delle squadre underdog non solo è molto basso rispetto al totale, ma è in costante diminuzione. L’attuale struttura dei campionati e l’attuale ripartizione interna dei diritti tv della Serie A, ad esempio, sono parte del problema. Ogni anno partecipano squadre molto poco competitive, quest’anno come Crotone e Shalke 04, e un plotone di squadre mediocri che passano metà campionato senza poter ambire alle qualificazioni europee nè rischiano di retrocedere.
Ne nasce un calendario che, combinato con gli impegni delle competizioni europee e delle nazionali, presenta poche pause e molte partite di scarso interesse domestico e internazionale. Un discorso analogo si può fare per LaLiga spagnola. Bisogna fare dei distinguo, invece, a proposito della Bundesliga tedesca, visto che partecipano 18 squadre anziché 20 e che è molto diffusa la pratica dell’azionariato popolare. La Premier League, invece, è il caso più virtuoso. Infatti è caratterizzata da una gestione diversa dei diritti tv e da meccanismi redistributivi sostanziosi. Tali peculiarità, uniti alla presenza storica di un alto numero di club ambiziosi, rendono il campionato inglese più equilibrato, competitivo e spendibile dal punto di vista commerciale.
In generale, tuttavia, si può dire che l’urgenza di una riforma dei campionati nazionali sia impellente, anche se i meccanismi per modificarli rendano questa riforma ai limiti dell’infattibile.
La politica e i suoi interessi
L’opposizione durissima di tutti i governi non viene dalla volotà di tutelare il merito, ma le istituzioni che hanno un monopolio. Sarebbe bello vivere in un mondo dove la politica si batte solo per gli ideali, ma non è così. Al limite hanno lavorato per accontare i tifosi, ovvero per conquistarne il voto. La prova si trova nell’inazione in seguito alla denuncia dell’UE agli ostacoli alla concorrenza, ma anche nel bassissimo consenso riscosso dalla Super League. Posto che è anche colpa dei dodici club che, non avendo curato la comunicazione diretta ai tifosi, li hanno lasciati davanti al mero dato di fatto. Tuttavia, la politica ha strumentalizzato questo tema, la dimostrazione è la solidità del veriegato fronte dei contrari. Macron, Orban, Boris Johnson, Conte, Fratoianni, Salvini. Tra i pochi non ostili si annovera Luigi Marattin di Italia Viva.
Uefa e Fifa non sono enti di beneficienza
Con l’avvento della globalizzazione, il calcio è cambiato. Il giudizio su tale evoluzione va di pari passo con quello che ognuno di noi dà della globalizzazione e di come essa è – o non è – stata governata. Sempre più business, sempre meno seconde opportunità per chi sbaglia. Può piacere o non piacere, ma il gioco è diventato funzione del business non viceversa. Non abbiamo assistito una lotta di classe marxista tra ricchi e poveri, ma tra due cartelli: Uefa e Fifa contro la Super League.
L’attuale sistema, di cui l’Uefa è fiera promotrice, è quello che ha portato poche squadre a vincere sempre più spesso e ad arricchirsi. L’attuale sistema di Financial Fair Play è quello che ha favorito Manchester City e Paris Saint-Germain nonostante le spese folli delle due proprietà. Ricordiamo che pochi anni fa uno scandalo relativo a presunti reati corruttivi ha travolto Uefa e Fifa. Ceferin, presidente della Uefa, due giorni fa ha alzato il proprio stipendio a 2,19 milioni di euro. Poi, secondo indiscrezioni del Mundo Deportivo, avrebbe offerto dei soldi alle squadre inglesi per far rientrare la scissione. In questo momento, il nuovo presidente dell’Eca è Al-Khelaïfi, che evidentemente sta incassando il gettone per non avere ceduto alle sirene di Florentino Pérez.
La Fifa ha affidato l’organizzazione dei prossimi mondiali al Qatar, non certo un paradiso per poveri e diritti umani. A causa del caldo torrido, ha stabilito di disputarli d’inverno, rivoluzionando i calendari di tutti i campionati. Infantino, presidente della Fifa, orgogliosamente difensore del merito sportivo, è appena tornato da un tour in Africa in cui sta organizzando una Super League africana. In sintesi? It’s politics!
Oltre l’ipocrisia romantica e proletaria
Una volta ricordato l’albo d’oro e il ruolo delle istituzioni, vorrei soffermarmi sulle proteste dei tifosi delle grandi squadre. Abbiamo visto i supporters dei blues lamentarsi del “calcio dei ricchi”, peccato che il Chelsea prima di essere acquistato dal magnate russo Abramovič non fosse una pretendente al titolo. Dubito che in questi anni non siano andati allo stadio per protesta. Lo stesso si può dire per i tifosi del Manchester City, un club minore prima dell’arrivo di Al-Mubarak nel 2008. Lo stesso Leicester, per quanto sfavorito, era di proprietà di un miliardario tailandese, Vichai Srivaddhanaprabha.
Un discorso analogo va fatto per i giocatori. Funzionano letteralmente come delle multinazionali, guadagnano milioni di euro e gonfiano il portafogli dei loro agenti. Se volessero davvero il calcio della gente, potrebbero giocare per un decimo del loro attuale stipendio in una piccola piazza. Ma, ovviamente, non lo fanno. Non ho intenzione di fare retorica pauperista – diamine, sono un neoliberista – auspico solo un minimo di coerenza. Sono le loro richieste (e dei loro agenti) a dare i prezzi di mercato, nessuno li obbliga. Lo stesso discorso è valido per Guardiola e Klopp.
In conclusione
La Super League aveva tutti i motivi per esistere, ma è un progetto nato zoppo. Oltre alla comunicazione deficitaria verso i tifosi e della manifestazione in generale, non è stato considerata l’opzione di far gestire la Super League a un soggetto terzo rispetto a Uefa e club. In questo modo sarebbe stato più semplice gestire la dialettica istituzionale e popolare. Aver messo in secondo piano il merito sportivo ha fatto sembrare lo status quo il migliore dei mondi possibile. Eppure non sono sicuro che il Ferencváros meritasse di partecipare all’ultima edizione della Champions rispetto al Milan, nè che il Midtjylland meritasse più del Tottenham. Il criterio geografico è legittimo, ma è almeno in parte distinto da quello meritocratico.
L’arroganza con cui è stata gestita tutta l’operazione, che a quanto pare non ha mai contemplato un piano b, probabilmente pregiudicherà la nascita di una competizione più spendibile per i tifosi di tutto il mondo. L’Uefa si trova ora in una posizione di estrema forza visto che, dopo le minacce di esplusione dai campionati e i divieti ai di giocare per le proprie nazionali, tutti i club hanno battuto in ritirata. Inoltre, l’opinione pubblica si è polarizzata e si porrà con ostilità anche verso proposte più ragionevoli, ma che andranno nella medesima direzione. Come se non bastasse, i proponitori hanno perso credibilità personale e ciò inibirà i loro margini di manovra nell’immediato futuro.
A mio avviso, deve essere trovata una soluzione che contempli tanto l’esigenza di fare business quanto la preservazione di ciò che il calcio ha rappresentato. Non perché serva difendere le tradizioni in sé o perché serva coltivare un romaticismo ormai estinto, ma perché servirà consenso popolare per un tale cambiamento. Per questo auspico una leale (sic!) collaborazione tra Uefa e grandi club. Questo errore ha solo rinviato l’inevitabile.