CAPTAIN RAJU, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Trasporto pubblico: la concorrenza che ci piace

Questo articolo è stato scritto da Claudio Cacciavillani e Giuliano Isoni, membri dell’Associazione Tematica Piero Capone.

Ancor prima della caduta del governo Draghi il problema della concorrenza, in Italia, era un elefante nella stanza. La scusa per bloccarla, sostituita dopo parziali riforme da quella della strategicità del settore, è sempre stata la solita: lo sviluppo economico-sociale. Non servono grandi ricerche per rendersi conto di quanti siano i settori dell’economia italiana, con i loro rispettivi protagonisti, ad osteggiare la concorrenza.

Con settore dei trasporti intendiamo il trasporto aereo, quello ferroviario, sebbene in quest’ultimo caso siano stati fatti dei passi avanti (il riferimento è all’ingresso nel mercato di Italo), e quello non di linea. Possiamo affermare senza timor di smentita che una serie di riforme che hanno agito in maniera troppo timida sulla concorrenza, ed una elevata parcellizzazione di compagnie pubbliche, abbiano portato ad un sotto investimento da parte degli enti locali, mentre la spesa a livello nazionale non ha conosciuto significative variazioni. Il risultato? Un aumento dei prezzi dei servizi la cui qualità non è andata certamente di pari passo.

Soffermiamoci sul trasporto pubblico locale. Secondo quanto documentato dalla Banca d’Italia, infatti, c’è stata una diminuzione del numero delle imprese concorrenti, un lieve aumento degli investimenti, una diminuzione del costo del lavoro e del fatturato, e un leggero aumento del numero delle società in perdita soprattutto nel periodo tra il 2015 e il 2020, per non parlare di aspetti (età e manutenzione su tutti) legati alla qualità di tutto il parco mezzi. Elementi che, sommati, portano a un risultato sostanzialmente negativo.

Non sorprende dunque che, sempre secondo il rapporto di Banca Italia, il grado di soddisfazione dei cittadini italiani nei confronti del Trasporto Pubblico Locale (TPL) non sia affatto elevato, sebbene vi siano differenze tra Nord, Centro, e Sud, e tra aree metropolitane e le altre città.


In Italia la presenza di un enorme problema in questo settore è ben fotografata dal fatto che, ad eccezione di pochissimi comuni, il TPL è affidato a un’unica controllata, e dunque con un’assenza di bandi e gare che aprano a player sia pubblici che privati, con il risultato che il monopolio e la rendita siano garantiti. L’ATAC di Roma è l’esempio più limpido: la municipalizzata romana è da anni al centro di un lungo dibattito, che solitamente segue le tragicomiche notizie riportate dalla stampa, sul da farsi per migliorarne i problemi (tra cui: assenza di manutenzione, autobus che saltano in aria, ritardi oramai proverbiali, fermate centrali della metropolitana chiuse per mesi, costi del personale elevati, l’enorme debito, il tasso di assenteismo).

Ma i problemi del TPL a Roma vanno al di là del semplice, per quanto sintomatico, caso ATAC. Come giustamente sottolineato da Andrea Giuricin, docente di Economia dei Trasporti, il problema centrale è proprio, a monte, l’assenza di gare per l’assegnazione del servizio. In particolare Giuricin fa notare che nella capitale, così come nel resto del paese, manca un’agenzia indipendente che si occupi di gestire le gare: colmare questa lacuna sarebbe il primo passo verso la risoluzione del problema.


Nel 2018 il TPL romano è stato oggetto di un tentativo di liberalizzazione mediante un referendum promosso dal deputato di Più Europa Riccardo Magi con l’obiettivo, come ha dichiarato lo stesso Magi durante un’intervista rilasciata a Formiche.net, di fornire: ”un’alternativa all’attuale sistema nel quale il Campidoglio continua ad affidare per inerzia la gestione del trasporto pubblico ad ATAC, controllata dal comune al 100%”. Magi mette inoltre in risalto il mancato rispetto del regolamento europeo del 2007, il quale prevede che la gara per l’erogazione del servizio sia equa e aperta a tutti gli operatori. Un referendum che non ha avuto un lieto fine: solamente il 16,4% dei cittadini romani si è recato alle urne e la strada verso la liberalizzazione del servizio si è interrotta prima ancora di cominciare.


Un risultato spiacevole non solo perché il sistema attuale non è adeguato allo standard della qualità della vita nelle capitali europee, ma anche dal punto di vista del portafoglio dei cittadini stessi: ATAC, dal 2009 al 2019, è infatti costata ai cittadini romani circa 9 miliardi di euro. Un costo sostenuto tramite una delle tassazioni più elevate di tutto il paese, come ci fa notare nuovamente Andrea Giuricin. A ciò si aggiungano i 40 miliardi in più di sussidi che la municipalizzata romana ha ricevuto tra il 2016 e il 2019.


La liberalizzazione, con conseguente apertura alla concorrenza nazionale e/o straniera, è un passo imprescindibile per la risoluzione di questo problema, da affrontare senza alcuna pregiudiziale ideologica, con metodo, e con pochi obiettivi ma chiari: fornire un servizio di qualità ai cittadini gestito da un‘impresa che, pubblica o privata, nazionale o estera, possa fare profitti riuscendo, beninteso, ad offrire sia attraenti opportunità di occupazione, sia gli investimenti necessari per rimanere al passo con le esigenze del mercato e gli standard ambientali più moderni; il tutto riducendo il costo per il cittadino sia in quanto fruitore del servizio, sia in quanto contribuente: questi sono, in fin dei conti, i vantaggi della concorrenza!


In nessun paese europeo, incluso il Regno Unito pre-Brexit, vi sono aziende trasporto pubblico completamente private, ma ci sono piuttosto molti esempi di imprese controllate dai consigli comunali che riescono ad operare garantendo la qualità e l’efficienza del servizio, con profitto, e in alcuni rari casi senza percepire alcun sussidio pubblico. Un esempio è quello della linea LUAS a Dublino, che riesce a fare profitti non ricevendo alcun sussidio pubblico dal 2005. Quali sono gli elementi che hanno portato al successo il caso irlandese? Buona progettazione a livello governativo delle linee tramviarie, la riforma dei bandi pubblici, cooperazione tra il pubblico e il privato, e un uso efficiente dei fondi europei per lo sviluppo.


Un altro esempio è rappresentato da Transport for London (Tfl), ente pubblico di proprietà della città di Londra che gestisce i bandi per l’erogazione del servizio di trasporto pubblico, incluso quello fornito dai taxi, e si rivolge a ben 17 compagnie alcune delle quali addirittura straniere come la francese RATP e la tedesca Arriva. Come già sottolineato, Transport for London si occupa anche del trasporto pubblico non di linea, e qui arriviamo alla nota dolente per noi italiani: infatti, TfL fa da ente appaltatore per soggetti privati che forniscono servizio di trasporto su taxi, e lo fa erogando licenze alla modica cifra di 120 sterline a chiunque voglia operare nel mercato, naturalmente previo rispetto di alcuni criteri.


Conosciamo bene la situazione del trasporto su taxi in Italia, e possiamo affermare che esistono delle differenze sostanziali col modello inglese: è un settore che, in Italia, presenta forti barriere all’entrata, costituite in primis dalla mancanza di bandi a livello locale e regionale; inoltre, il costo da sostenere se si vuole acquistare una licenza può andare dai 100.000 ai 200.000 euro; a ciò aggiungiamo che l’erogazione di licenze a privati è di fatto impossibile sia per una mancata liberalizzazione dei concorsi, a livello locale e regionale, sia per l’atteggiamento corporativistico dei tassisti stessi che lottano con le unghie e con i denti per il mantenimento dello status quo, come dimostrato anche dalle furiose proteste contro Uber e, segnatamente, contro l’articolo 10 del Dl Aiuti che mirava a una maggiore trasparenza e concorrenza nel settore. La protesta dei tassisti, a ben vedere, non era unicamente contro Uber ma contro l’arrivo di nuovi e futuri player nel mercato che possano erodere i privilegi e il monopolio garantito ai tassisti dalla politica. Basti pensare al fatto che, nel mezzo della protesta con epicentro a Roma, la stampa italiana parlava già di un compromesso in arrivo proprio sull’articolo 10 del decreto Aiuti nel tentativo di sedare le proteste e accontentare ancora una volta i tassisti.


Quello che noi auspichiamo è un maggiore grado di concorrenza e trasparenza nei servizi, con mercati e bandi che potenzialmente lascino la porta aperta a chiunque sia idoneo all’erogazione dei servizi di TPL. Ci rendiamo conto tuttavia che, restiamo sul caso dei tassisti, nel momento in cui ci si pone l’obiettivo di porre in essere una situazione che permette la concorrenza, sarà necessario avviare dei meccanismi di compensazione. Una applicazione possibile di questo meccanismo di policy viene esposta a grandi linee su lavoce.info da Mario Sebastiani: la prima questione che lui pone è che i taxi e i possidenti delle licenze siano gravati da obblighi di servizio pubblico. La questione è reale e vera, ma a causa di varie ragioni non sappiamo nulla della qualità del servizio pubblico e se sia realmente gravoso per i tassisti il modo in cui viene erogato. Infatti, come anche Mario Sebastiani dice, mancano dati sia per calcolare la compensazione, ma, aggiungeremmo, anche per comprendere quanto universalmente sia erogato questo servizio dal monopolio per ora pubblico dei taxi e l’efficienza di questa copertura.


La seconda questione nasce dalla prima: come può esserci un meccanismo di compensazione degli avversari meno gravati dal servizio pubblico se il monopolio stesso non accetta questi concorrenti? Il meccanismo di compensazione deve avvenire solo dopo l’arrivo di nuovi concorrenti: sarebbe quantomeno paradossale che la compensazione debba essere pagata dalla fiscalità generale fino all’arrivo dei fantomatici concorrenti.

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