Andy Miccone/Flickr
/

UNA CINA, UN SISTEMA

A Hong Kong hanno ripreso vigore quelle che nella prima metà del 2019 sono nate come proteste contro una legge controversa. Dopo alcuni mesi di silenzio (quantomeno mediatico) a causa della pandemia, i cittadini dell’ex colonia britannica sono tornati a far sentire la propria voce attraverso le maschere protettive, con le quali tutto il mondo ha imparato a convivere. I risvolti per la vita democratica del Porto Profumato preoccupano il resto del mondo a vario titolo, passando dagli interessi di principio a quelli commerciali. Quale futuro si prospetta per la regione autonoma della Cina?

Le proteste dei movimenti pro-democrazia di Hong Kong fanno ormai parte della scena internazionale in maniera piuttosto stabile. Nell’ultimo anno la popolazione mondiale ha potuto conoscere i volti che hanno animato le rivolte, e l’opinione pubblica si è schierata, come era auspicabile, al fianco di una popolazione in lotta per la salvaguardia delle proprie libertà. L’empatia provocata dal senso di costrizione dovuto all’ombra del regime dittatoriale cinese ha mosso larga parte della popolazione globale.

La resilienza ai soprusi provenienti da Pechino non è una novità del resto. Già nel 2014 vi fu un tentativo di riforma del sistema elettorale di Hong Kong tramite una preselezione dei candidati da parte della leadership del Partito Comunista. Le proteste che scoppiarono non sono ancora svanite dalla memoria, né della regione speciale né dell’amministrazione di Pechino.

Tuttavia, oggi la situazione è leggermente diversa. Nonostante le proteste di questi mesi siano arrivate a coinvolgere anche diverse decine di migliaia di persone, le possibilità di un effetto diretto sull’amministrazione filo-cinese di Hong Kong sono sempre sembrate poche. L’obiettivo è stato visto come ideale più che concretamente realizzabile. Un disincanto dovuto probabilmente alla preponderanza dell’ingerenza cinese sulla regione. Certamente, e giustamente, questo non ha fermato la popolazione di Hong Kong. Un ideale, semplice nei concetti ma ambizioso nella realizzazione, ha mosso i cittadini in massa.

Il vero ostacolo ai movimenti di rivolta è stata la pandemia dovuta al coronavirus, un avversario ben più difficile da evitare rispetto alle forze di polizia in tenuta anti-sommossa. Sicuramente meno visibile e fisicamente affrontabile. Il COVID-19 e il lockdown che ne è seguito hanno frenato molte delle iniziative fondamentali per i movimenti di Hong Kong. Il rallentamento di alcuni dei settori vitali per la regione è stato uno dei metodi utilizzati per far sentire all’amministrazione locale il peso dei dimostranti. Ciò nonostante, l’appoggio dei sindacati al movimento non è bastato per evitare una diserzione da parte dei lavoratori in questo periodo di crisi. La paura della perdita del posto di lavoro in un momento di aumentata disoccupazione ha tolto vigore e numeri alle fila dei cittadini in strada.

Inoltre, l’impossibilità di movimento dovuta alle misure restrittive ha portato a degli arresti stile gatto col topo. La polizia ha sfruttato il momento di chiusura imposta per identificare e trattenere molti dei manifestanti accusati di aver agito al di fuori della legge. Tra essi figura anche Martin Lee, uno dei fondatori del partito democratico e coautore della costituzione di Hong Kong, regolante i rapporti sino-hongkonghesi in base al principio “una Cina, due sistemi”.

Lo statuto speciale di Hong Kong prevederebbe che il governo locale sia responsabile della sicurezza, ma l’intromissione di Pechino nell’amministrazione è ormai nota e questo preoccupa ancora di più i dimostranti. Gli eventi degli ultimi giorni hanno poi rinvigorito i movimenti, visto il giro di vite dato dalla Cina continentale con una proposta di legge alquanto minacciosa. Tale “legge sulla sicurezza nazionale” – che deve ancora passare dal Comitato Permanente del Partito Comunista – rischia di diventare effettiva in breve tempo e potrebbe mettere la Cina nella posizione di punire qualunque atto ritenuto poco sicuro per la nazione. Non è necessaria la fantasia per intuire i rischi in termini di libertà, basti pensare alle restrizioni sui mezzi di informazione che già sono in vigore in Cina.

Oltretutto, questa legge rischierebbe di far morire le manifestazioni, o quantomeno di renderle estremamente pericolose per i manifestanti. Vi è il timore che si possa dare l’autorizzazione a  giustiziare chiunque commetta atti lesivi nei confronti della sicurezza nazionale, e i comportamenti passati dell’amministrazione di Hong Kong non fanno presagire il meglio. Già con le prime avvisaglie di disordini infatti, i manifestanti erano stati tacciati di lanciare “segnali di terrorismo”. Questo sarebbe un sostanziale precedente che potrebbe essere usato ai danni dei dimostranti, i quali ricadrebbero più facilmente nella categoria di terroristi.

Perché Pechino ha voluto imporsi con un’azione così pesante da un punto di vista interno ed internazionale? La risposta va probabilmente ricercata nella necessità di stabilità interna del paese.

La solidità e la fissità sono alcuni degli indici sui quali più punta lo stato del dragone per un’imposizione di soft power a livello globale. Tuttavia, la sostituzione degli input culturali provenienti dalla terra del sol levante a quelli americani è molto precaria a causa della risaputa gestione dittatoriale degli affari cinesi. Quindi l’appiglio quantomeno ad una stabilità interna funge da ancora per le ingerenze sugli altri paesi. Le proteste di Hong Kong sono problematiche anche per questo, in quanto l’immagine di una Cina incapace di gestire delle sommosse non giova alla sua reputazione globale.

Entrando più nello specifico, la stabilità economica di Pechino è sempre andata di pari passo con la stabilità sui territori che controlla direttamente o indirettamente, e la mancata presentazione di un obiettivo di crescita per il PIL della nazione è indicativa della tensione interna al Partito Comunista Cinese. Questo è certamente riconducibile in prima istanza alle problematiche dovute alla pandemia, ma sicuramente i disordini interni alla regione a statuto speciale sono un pensiero in più per la Repubblica Popolare Cinese, e troncarli darebbe più respiro all’amministrazione nella gestione della ripresa economica post-COVID.

In ogni caso è necessario riflettere sul fatto che un intervento legislativo di questo tipo potrebbe essere il male minore rispetto all’alternativa: un’azione di forza diretta. Un intervento militare da parte della Cina continentale sarebbe devastante per gli attivisti democratici di Hong Kong, e sfortunatamente non è ancora da escludere visto che già erano state mobilitate delle truppe sul confine continentale. La differenza tra le squadre in tenuta anti sommossa e i militari può non sembrare eccessiva, ma è comunque sostanziale. Ad ogni modo, un aumento della violenza da parte delle forze di polizia è ormai evidente.

La difficoltà dei manifestanti, seppur resilienti, comincia a farsi sentire, e il peso che potrebbero avere i paesi esterni sulla situazione è aumentato molto. Tuttavia, ci sono dei rischi insiti nell’intervento dall’estero. La decisione USA di sospendere il trattamento speciale alla regione ad esempio, è sì un segnale forte all’amministrazione cinese, ma potrebbe avere effetti gravi sull’economia di Hong Kong.

Un aspetto da non trascurare rispetto all’intervento di potenze occidentali come gli Stati Uniti è il rischio di un’ipocrisia di fondo. Parafrasando il collega Pietro Maccabelli, gli USA rischiano di essere visti come un attore fortemente opportunista. Quando l’interesse strategico è forte, non hanno remore nell’andare contro Pechino per dimostrare la superiorità del sistema occidentale. Tuttavia, quando le problematiche si presentano all’interno dei confini della land of the free, come nel caso delle proteste attuali, per loro diventa più difficile porsi come garanti delle libertà e dei diritti fondamentali nel mondo.

In ogni caso, nonostante le defezioni tra le fila dei manifestanti dovute alla violenza, alla pandemia e alla disoccupazione, la negazione della formula “una Cina, due sistemi” non sembra essere una possibilità per i cittadini di Hong Kong. Questa regione ha una sua identità culturale, in parte evolutasi anche a seguito dell’occupazione inglese. Il sistema giuridico della regione ha risentito positivamente della colonizzazione britannica e questo ha portato alla protezione e alla valorizzazione di alcuni diritti che invece la Repubblica Popolare Cinese sembra calpestare da tempo immemore. Per non parlare della trasparenza delle operazioni nazionali, concetto che la Cina ci ha abituato a non ritenere scontato.

Il diritto di protestare dei cittadini di Hong Kong va protetto e preservato dai soprusi dell’amministrazione filo-cinese e della Cina stessa. In un periodo storico come quello che stiamo vivendo, la lotta per la liberà dalla costrizione e dalla violenza di chi abusa del proprio potere è una questione di importanza fondamentale. Non dobbiamo lasciare che possibilità di partenariati strategici o accordi favorevoli ci trattengano dal condannare derive antidemocratiche pericolose. Questi mesi del resto ci hanno dimostrato che non vi sia limite al peggio.

Leonardo Marchesini

LASCIA UN COMMENTO

Your email address will not be published.

DANCE WITH THE DEVIL: LA DANNAZIONE IN MUSICA

INNAMORATO DI NOWITZKI