Yássef Briloz/Flickr

Viva la Vida (o come rivalutare i Coldplay)

3 Settembre 2021

Sarò sincero: non mi piacevano i Coldplay. Anzi, a dirla tutta, facevo proprio fatica a sopportali. Non riuscivo a spiegarmi come le loro canzoni, apparentemente così scialbe e povere di personalità, fossero riuscite a scaraventare la band a un tale livello di successo e popolarità. Perché sì, stiamo parlando della rock band più popolare degli ultimi vent’anni. Oltre cento milioni di dischi venduti, un ultimo tour dall’incasso monstre di circa 564 milioni di dollari, ma soprattutto una miriade di brani divenuti stendardi del loro tempo. Di questi ultimi, solo due mi garbavano parecchio: Clocks e Viva La Vida. La prima mi ipnotizzò grazie al suo iconico giro di piano, della seconda invece mi catturò la sua fastosità sonora, generata da un solenne sistema di archi. Per molti anni questa coppia di eccezioni mi fece tenere in considerazione l’idea di poter rivalutare – e approfondire, eventualmente – la band di Chris Martin.

Il momento giusto si presentò l’anno scorso. Approfittai del periodo di lockdown per recuperare il disco d’esordio, Parachutes, una piccola perla dell’indie rock che fa del caldo tepore delle chitarre acustiche il suo cavallo di battaglia. Mi convinse così tanto che decisi di proseguire l’avventura. Bypassai temporaneamente il secondo e il terzo album per virare direttamente a Viva la Vida, opera che più di ogni altra mi incuriosiva. Giunto alla conclusione, rimasi stupefatto: mai avrei pensato che un disco dei Coldplay potesse piacermi così tanto. Ciò che troverete di seguito non è una puntigliosa recensione traccia per traccia di Viva la Vida, sia perché di quelle il web è già abbastanza saturo, sia perché non sono un critico musicale. Piuttosto, la mia intenzione è quella di raccontarvi il disco – o quantomeno come l’esperienza che ho vissuto (e vivo) ascoltandolo -, spiegando parallelamente perché lo consideri la vetta artistica dei Coldplay.

“VIVA LA VIDA”

Per comprendere un disco penso che occorra sempre partire dal suo titolo, anche qualora risulti a prima vista sconnesso dai contenuti interni (come può di fatto accadere). “Viva la Vida”, a detta di Chris Martin, è una frase che è stata tratta dall’ultimo dipinto di Frida Kahlo prima della morte di quest’ultima. In un’intervista a Rolling Stone, il frontman della band rivelò di essere rimasto colpito dall’ “audacia” di quella scritta, specie considerando la storia della pittrice messicana.

Laddove la singola espressione suona quasi come un motto liberatorio sulla totalità esperienziale della vita, l’omonima canzone narra la storia di un monarca decaduto, che decanta dietro a un velo di nostalgia i tempi in cui “governava il mondo”. Attraverso il racconto – di per sé inventato, ma caratterizzato da una verosimiglianza che lo rende particolarmente credibile e coinvolgente – del re, Chris Martin esplora alcune delle tematiche più vaste e massive dell’intera opera: il potere, la guerra e l’intangibilità del tempo. Gli scenari imponenti e maestosi celebrati nelle prime strofe collassano rapidamente al pari dell’etica del sovrano, le cui smanie di successo e ricchezza portano prima a dei conflitti distruttivi, poi alla ribellione del popolo stanco e assetato di libertà. Al re, ormai confinato nella sua desolazione, non resta che rimpiangere i ricordi di quel glorioso passato, riflettendo con amarezza sulla fugacità dello stesso.

“OR DEATH AND ALL HIS FRIENDS”

Come anticipato pocanzi, Viva La Vida affronta argomenti tanto affascinanti quanto difficili e problematici. Fortunatamente, il titolo completo del disco – “Viva la Vida or Death and All His Friends“, la cui seconda metà viene spesso omessa o trascurata – indica un punto di partenza per trovare il minimo comun denominatore di tutti gli undici brani. Esso presenta, infatti, un’immediata suddivisione dicotomica tra due cardini tematici: vita e morte. In ogni canzone appaiono dei frammenti lirici che esprimono la pura voglia di vivere esperienze, avventure, sensazioni e – perché no – delusioni. Dall’altra parte, non mancano degli espliciti riferimenti alla paura verso l’inafferrabile nulla garantito dalla morte e da tutto ciò che è correlato ad essa. Nel caso di Violet Hill (forse il primo tentativo dei Coldplay di scrivere una canzone di protesta), ad esempio, la manifestazione della morte ha sede nell’oppressione dei ceti altolocati e dei politici nei confronti dei più deboli.

STORIE DI VITA (E DI MORTE)

Il disco ramifica la sua esamina ideologica andando a trattare le molteplici messe in scena che vedono protagonisti i macroargomenti principali.
Due puntuali illustrazioni di queste visioni scenografiche sono Cemeteries of London e Strawberry Swing. Se la prima inquadra una marcia spettrale – accompagnata da un battimani in stile flamenco – nel panorama tetro e cupo della Londra Vittoriana, la seconda, al contrario, intinge una dolce storiella d’amore negli allucinanti suoni e colori della psichedelia, generati dall’unione dei sintetizzatori con la chitarra di Jonny Buckland.

L’instabilità e l’interconnessione dei temi portanti si rispecchiano anche nelle strutture composite di alcuni brani. 42, bislacca elucubrazione sul senso della vita, inizia infatti con un rassegnato lamento al pianoforte. Non appena Chris Martin allude alla possibilità dell’esistenza di qualcosa oltre la morte, però, il beat accelera, si trasforma, diviene straordinariamente carico di positività. Viceversa, Lovers in Japan trova una metaforica speranza nel sole mattutino di Osaka, prima di tramontare e risorgere nella soffusa Reign of Love.

A seguito di una giostra emotiva notevolmente provante, la conclusione dell’opera emerge in tutta la sua magistralità. Death and All His Friends, anch’essa animata da una natura “schizofrenica”, si congeda con un ottimistico e imponente grido di rifiuto verso la violenza, il dolore e la sofferenza, prima di riprendere le note di Life in Technicolor e far ripartire un nuovo ciclo di ascolti.

MUSICA, MAESTRO

Il maestro, in questo caso, è Brian Eno, figura leggendaria del panorama musicale mondiale oltre che produttore di immani capolavori come Low (David Bowie), Remain in Light (Talking Heads) e The Joshua Tree (U2). Ciò che rende questo disco un grosso passo avanti rispetto al pallido X&Y è proprio la mano di Eno. Non a caso, rispetto ai tre dischi precedenti l’ossatura dei pezzi si fa più complessa e variegata, nonché incline a mutare anche in corso d’opera (42, Death and All His Friends)

Per quanto riguarda le singole peculiarità, oltre ai già citati handclaps di Cemeteries Of London colpisce sicuramente l’intro strumentale Life In Technicolor, così come il groove tribale di Lost!. Il gioiello più splendente della corona, tuttavia, è sicuramente Yes. Qui Chris Martin, su consiglio di Eno, si cimenta in un cantato dal registro basso, talvolta interrotto da comparsate di archi stridenti. Quando la traccia sembra conclusa, compare a sorpresa la ghost track Chinese Sleep Chant, un’evanescente cantilena dream pop che annega in un chiassoso mare sonoro di chiara matrice shoegaze.

UN CONSIGLIO

Dopo “Viva la Vida“, i Coldplay hanno attraversato un periodo di prosperità economica grazie ad una svolta pop particolarmente efficace. Sfortunatamente, non uno degli ultimi album vale anche solo la metà di “Viva“. Con l’ultimo singolo Coloratura – dieci minuti di una versione più accessibile del rock progressivo del tutto inaspettati -, tuttavia, sembra che stia bollendo in pentola qualcosa di potenzialmente interessante. Non resta che attendere. Nel frattempo, però, correte a recuperarvi i primi dischi. Io non me ne sono pentito. Anzi, sono estremamente contento di essere stato smentito da un band che, contrariamente all’opinione dei detrattori, in vent’anni ha saputo regalare perle davvero grandiose.

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