Di GG Da Flickr

Colloqui con il sig. L

5 Maggio 2023

Prima di cominciare, qualche premessa.

(1) Questo ciclo di conversazioni risale ai tempi del lockdown. Lo dico prima perché può anche darsi che alcune delle cose che cito uno nel frattempo se le sia dimenticate, anche se a me pare che dimenticarsele del tutto sarebbe un peccato. (2) Sono una di quelle persone a cui il lockdown è piaciuto. Un po’ perché per me, come per Larkin, la vita è sempre stata più una questione di solitudine ravvivata dalla compagnia che una questione di compagnia ravvivata dalla solitudine, e quindi i domiciliari forzati non hanno davvero cambiato molto; e un po’ perché il lockdown mi ha dato un mucchio di ore libere per fare delle cose che non facevo da tempo, come a tutti. Alcune, come capita, ho di nuovo smesso di farle una volta finito l’isolamento (come provare a imparare il russo – sì, sono velleitario persino nelle mie velleità) e alcune sono velocemente precipitate nella lista dei buoni propositi (e quindi ho sempre smesso di farle, certo, ma questa volta la resa ha più a che fare con il fatto che gioco da professionista nella categoria dei procrastinatori seriali e meno con le mie velleità da poliglotta). (3) Sono storie che non hanno alcuno scopo edificante o parenetico. Vale a dire che non voglio convincervi di qualcosa e che non c’è una morale: è solo che ho aperto una cartella di note e appunti che era finita in qualche angolo dimenticato del pc. Tanto valeva farci qualcosa. 

Il primo approccio.

Non sono mai riuscito a spiegarmi con chiarezza la circostanza, a dire il vero per nulla anomala, che il mio vicino di casa e io comunichiamo a malapena. In realtà almeno una ragione ci sarebbe: si dà il caso che il mio vicino sia anche il proprietario dell’appartamento in cui alloggio da qualche mese – il che mi mette in una posizione piuttosto scomoda: sia perché alla caduta del contratto vorrei mi fosse riconsegnata intera la caparra che ho versato, e non è il caso di inimicarsi proprio il tizio che appigliandosi a qualche cavillo ha la facoltà di trattenerne una parte o anche l’intero ammontare, sia perché potrei dover rimanere nell’appartamento per un tempo più lungo dei dodici mesi previsti dal contratto, e instaurare un buon rapporto di vicinato mi aiuterebbe a non ritrovarmi tra qualche mese nella spiacevole condizione di dover convincere chissà quante e quali persone di essere un buon affittuario, senza per altro avere la ragionevole certezza di non trovarmi di fronte a degli stronzi. Oltretutto, combinazione, si dà anche il caso che io soffra di una particolare forma di nevrosi che mi spinge a limitare allo stretto indispensabile i contatti sociali. Brutta faccenda.

 A cavarmi da questo impiccio, come capita, è stato un guaio decisamente peggiore, ossia la pandemia. Ora, io e il mio vicino di casa nonché locatore, che per comodità chiamerò sig. L, condividiamo, nel senso che entrambi possiamo starci liberamente, il piccolo giardino che dal suo ingresso di casa si estende per una ventina di metri fino al mio e prosegue all’incirca per altri cinque metri fino all’enorme portone giallo ocra (ingiustificabile, ingiustificabile, scelta cromatica) del garage, che naturalmente è di esclusiva pertinenza del sig. L – fatto che rende irragionevole pensare a una recinzione: il sig. L ha il sacrosanto diritto di andare e venire dal proprio garage senza dover ogni volta scavalcare una rete alta un metro e mezzo. C’è che nei giorni di quarantena questa convivenza, come era prevedibile, è diventata più assidua: un po’ perché, se sei costretto a passare i giorni tra le pareti di casa, avere un giardino diventa improvvisamente un dono del cielo, e un po’ perché pare scemo, già che si tratta di metratura inclusa nel canone d’affitto, non approfittarne e passare qualche ora all’aperto. Ma dato il carattere piuttosto scontroso che mi ritrovo, e dato anche che al momento sembrava legittimo volersi tenere prudentemente alla larga dagli altri, non ho dato al sig. L alcuna confidenza: attaccasse lui bottone, iniziasse lui a conversare.

Può darsi che a un certo punto il sig. L, un esperto e pachidermico boxeur che sa leggere molto bene il linguaggio del corpo, questa ritrosia, sotto molti aspetti poco intrigante, l’abbia intuita e smascherata, ossia che abbia capito che nutro nei suoi confronti una simpatia diciamo così epidermica e nascosta dal continuo maquillage a cui mi costringe la nevrosi. Così un paio di settimane fa abbiamo iniziato a chiacchierare, e cioè il sig. L ha raccolto la pazienza e la buona volontà necessarie per rivolgere la parola a un tizio evidentemente frustrato e poco socievole. È il tipo d’uomo serio, competente e sinceramente affezionato al proprio lavoro per cui di solito si nutre una profonda stima. Uno che organizza disinteressate zoomate di gruppo – non ci ha guadagnato il becco di un quattrino – per tenere in allenamento gli iscritti alla sua palestra, con cui ha condiviso «tempo, fatica e lividi. Un Everest di lividi». Perché scopro – e, considerato quanto pago, la notizia mi sembra a dir poco sconvolgente – che per vivere al sig. L non basta il mio affitto, perciò arrotonda insegnando come boxare per difendersi ai ragazzini che ogni anno entrano nella sua palestra. Informazione che mi da dopo appunto aver menato per due ore buone un sacco appeso accanto al gazebo dove ho trascorso gran parte dei miei pomeriggi di quarantena e che ha tutta l’aria di pesare almeno mezzo quintale.

«Vabbè», me ne esco io, «ma imparare a usare le mani non è una cosa pericolosa? Non è brutto?».

«Diciamo», mi risponde il sig. L già un po’ seccato, «che dipende da come uno insegna. Però credo che sapersi difendere sia una cosa utile, anche giusta. Perché guarda che le cose brutte capitano, che i prepotenti esistono».

Certo, come non vedere che la violenza fa parte della vita? È che reagendo alla violenza limitandosi a usare altra violenza si finisce per avallare un circolo di legnate e controlegnate che non mi sembra possa portare a qualcosa di buono. E Santo Cielo, se una reazione deve esserci, e che debba esserci mi sembra abbondantemente sensato, sia una reazione che porti da qualche parte, non a un granguignolesco cul-de-sac. Alla fin fine, se uno ci pensa sopra, la differenza la fa la solitudine. Voglio dire che se uno stringe legami, vincoli, rapporti, se insomma è solidale con gli altri e gli altri lo sono con lui, la violenza diventa uno strumento meno efficace, perché non si sa più verso cosa indirizzarla. Faccio notare al sig. L che questo modo di pensare molto liberale ci ha permesso di non perderci reciprocamente a randellate per qualche decennio, varrà pure qualcosa?

Lo sento riflettere tantissimo, poi – in quel modo un po’ condiscendente di chi è sicuro dell’outillage che gli ha consegnato la Vita – parte a raccontarmi di questo ragazzino che ha iniziato ad allenarsi nella sua palestra un paio di anni fa, dopo essere uscito da un pestaggio con una clavicola rotta e due costole incrinate. «E lo sai cosa aveva fatto? Lo sai per cosa l’hanno menato? Per uno spogliarello davanti a degli amici in un posto di merda che è ancora aperto, ecco per cosa. E non gli è andata peggio solo perché due ragazzine si sono messe in mezzo per fermare le botte». Chiedo, ingenuamente, se i responsabili sono stati denunciati. No, niente denuncia: la paura che possa ricapitare, se si reagisce, paralizza. «È per gente del genere che le mani bisogna saperle usare, e anche bene. Andassero a fanculo», conclude il sig. L rivolto verso il sacco. C’andassero davvero.

Penso molto a George Floyd, al ginocchio schiacciato sulla sua gola, alle suppliche, a quelli che erano là ad assistere e che forse avrebbero potuto, che so, lanciare degli oggetti, fare una cosa qualsiasi per allentare la pressione di quel corpo, per salvare una vita. Faccio anche uno sforzo di immaginazione, e mi chiedo cosa avrei fatto io. La risposta più sincera che riesco a darmi è che probabilmente non avrei fatto niente, che avrei avuto paura come ne ha avuta chi era là. Così va a finire che nel mio inconscio si mette in moto un pericoloso complesso di colpevolezza, cosa anche abbastanza sgradevole dal momento che uno si aspetta che l’educazione per la quale ha versato tasse e contributi riesca a seppellire tutto in angoli inaccessibili della psiche; e invece no, perché una ridda di apprensioni e sentimenti rimasti a macerare per anni in qualche ansa dell’intestino aggalla togliendomi del tutto la forza di replicare dato che da bambino ho quasi ammazzato uno mio compagno (o è come se l’avessi fatto, non avendo avuto il coraggio di intervenire, di fermare il pestaggio). Quindi devo concentrarmi parecchio per recuperare la lucidità, e il primo pensiero che mi viene in mente è che anche il contesto conta, come le occasioni, i tempi, i modi; e insomma – lo ripeto anche per convincermene – non è affatto detto che a un sopruso si debba per forza reagire con una violenza direttamente proporzionale a quella ricevuta. Bisogna vedere. Altrimenti quali sarebbero le ragioni per preferire una giustizia riparativa a una punitiva? Perché sforzarsi di distinguere tra la colpa e il colpevole, tra la violenza e chi se ne serve? Perché combattere questa difficile battaglia di civiltà? Anche perché non vale tutto, e a un certo punto uno deve scegliere. Assodato che gli stronzi esistono, ci sono due opzioni: o si è convinti che la violenza si possa disinnescare, e quindi si pensa a dei modi per correggere chi sbaglia senza accanirsi; o si pensa che il gioco non valga la candela, e allora tanto vale votare per il populismo penale di chi vuole chiudere celle e buttare chiavi e dare ragione una buona volta a Durkheim, che scriveva pressappoco che la pena serve più a confermare l’irreprensibilità morale di chi processa – e quindi spesso di un pubblico – piuttosto che a rieducare il processato. Lo dico al sig. L, che però non la prende benissimo. Bisogna che mi spieghi meglio. Cerco e gli faccio ascoltare questo pezzo magnifico di Regina Spektor, Laughing with, che mi ha sempre fatto molto piangere: 

[…]

No one laughs at God

When the cops knock on their door

And they say “We got some bad news, sir”

No one’s laughing at God

When there’s a famine, fire, or a flood…

But God could be funny

At a cocktail party while listening to

A good god-themed joke

Or when the crazies say he hates us

And they get so red in

The head you’d think they’re about to choke

[…]

Ma serve solo a peggiorare le cose: il sig. L, che a metà della prima strofa aveva già iniziato a mostrare una certa insofferenza (non a torto), è ora visibilmente incazzato. «Ma insomma che c’entra? Che vuol dire». Vuol dire, rispondo io, che forse un po’ di gentilezza è tutto ciò di cui c’è bisogno, tutto ciò che dobbiamo chiedere. E insomma può anche darsi che questi menino perché il mondo attorno a loro si è guastato troppo presto, perché per anni non hanno visto e sopportato che ignoranza e violenza, e adesso si limitano a portare il testimone che gli è stato consegnato. Non si può mica far finta che il carattere, l’orientamento generale di una persona verso il mondo, sia innato: lo formano i tempi, le occasioni, il posto in cui uno nasce e cresce. Ma il sig. L non è convinto: «Ma scusami eh ma se molestano una tua amica tu che fai? Resti a guardare? Ti metti in mezzo per prenderle e basta? No perché non è che veda molte altre opzioni». Ma insomma io proprio, si capisce che… Mi blocco. E mi blocco perché ha ragione: non è che alla vita, alle cose che ci capitano nella vita, si reagisca sempre ragionando. Anzi. A questo punto però mi viene il dubbio che il sig. L pensi che stia cercando di fargli una lezione sul valore della compassione, di dirgli che dovrebbe sforzarsi di pensarla come me, che è quello che ci si aspetta da una persona gentile come lui. E invece no. Se il sig. L pensa che due schiaffi ben assestati siano un buon modo per scoraggiare la violenza (soprattutto quella esercitata dai più vigliacchi), va bene. Un sacco di gente la pensa così, e non è detto che abbia torto. Tranne per il fatto che non tutti hanno la stessa esperienza della vita che ha il sig. L (attivista per i diritti civili, ex pugile professionista); e, spesso, chi parla a cuor leggero della possibilità di usare la violenza come un deterrente non ha mai davvero visto qualcuno menare le mani, e soprattutto è sicuro che non toccherà mai a lui farlo. E quindi? 

E quindi niente, perché il sig. L è di fretta: ci sono i percorsi da preparare, il piano d’allenamento da fare, i webinar da seguire per le nuove attrezzature. E forse è meglio così.  Forse, alla fine, la sola cosa che conta, la sola cosa vera, è che niente di tutto questo ha a che fare con la morale: è solo che la storia di un uomo non è altro che la storia di un uomo, con le sue scelte, le sue contraddizioni, i suoi passi falsi. Resta fuori, in un angolo, il figlio. «E tu», attacco io, «che ne pensi?».

«Mah, secondo me c’è il problema che hai rotto i coglioni».

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