Jakob Schlesinger, Public domain, da Wikimedia Commons

Contro l’Amore Universale

2 Giugno 2024

Esistono eventi nella storia in grado di innescare processi ideologici senza che questi emergano alla superficie rendendosi visibili. Succede che tendenze importanti, che non mancano nell’attuale quadro post-pandemico, passino in secondo piano a causa dell’incessante susseguirsi di stravolgimenti e sorprese di cui siamo spettatori. A volte invece le manifestazioni concrete di tali processi avvengono sotto gli occhi di tutti, senza però che ci siano le condizioni adatte a cogliere quanto sta avvenendo, non riconoscendolo quindi nella sua essenza storica. Fatti concreti relativi a determinati trend vengono raccontati e rappresentati al pubblico attraverso chiavi di lettura e narrazioni che rendono complesso coglierne il significato profondo.

In quest’ultima casistica rientrano le rivendicazioni politiche portate avanti da realtà giovanili italiane negli ultimi 4 anni. Complice l’innegabile situazione di difficoltà psicologiche e sociali delle ultime generazioni, che i periodi di distanziamento sociale hanno contribuito in misura importante ad acuire, si è creato un consenso generale nel considerare i giovanissimi italiani come arresi, svuotati, senza speranza. Eppure, al tempo stesso, proprio in questi ultimi anni si è assistito al riappropriarsi da parte di movimenti e collettivi di pratiche di natura conflittuale.

Dal blocco di autostrade all’imbrattamento di opere d’arte come grido di disperazione per la catastrofe climatica che incombe, passando per l’imponente risposta in termini di partecipazione ai cortei per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, incitata dall’appello “bruciate tutto” di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, fino ad arrivare alle incessanti manifestazioni a sostegno del popolo palestinese, nonostante il crescendo di episodi di repressione poliziesca, a cui si aggiungono su base settimanale nuove occupazioni universitarie. Non mancano esempi di rottura con anni, decenni, di lenta ma inarrestabile smobilitazione della sinistra giovanile.

Non si é evidentemente di fronte ad una svolta radicale rispetto alle forme di lotta politica tipiche di questo presente. Se però molte di queste azioni hanno suscitato interesse mediatico, soprattutto in funzione di una canalizzazione di un’indignazione che stigmatizzi, lo si deve all’elemento di relatività novità che esse rappresentano.

L’elemento di novità è relativo in quanto l’Italia è un paese che ha già conosciuto nel suo passato stagioni di forte contestazione politica, economica e culturale da parte di movimenti sociali composti principalmente da giovani. Alcune tra le pagine più tragiche della storia della Repubblica vedono come protagoniste realtà che hanno assunto un approccio di contrapposizione totale rispetto all’ordine costituito, con tutte le conseguenze in termini di vittime di violenza politica che ciò ha causato. Si tratta tuttavia di stagioni politiche e culturali che distano ormai nel tempo mezzo secolo, ragione per cui la loro persistenza nella memoria collettiva si è affievolita, rendendo sostanzialmente l’esercizio attivo del conflitto sociale un elemento assente dall’immaginario generale dell’Italia di oggi. Eppure, per quanto leggere siano le forme con cui si concretizza, l’azione conflittuale è tornata ad essere un fatto reale e non ci si può esimere dal cercare un significato di quanto sta avvenendo, soprattutto se si considera il conflitto quale motore del progresso storico concreto.

Per comprendere essenza e prospettive di una potenziale nuova stagione conflittuale è necessario mettere in relazione le caratteristiche del contesto politico e culturale in cui tale conflitto viene esercitato con l’impostazione ideologica del soggetto che lo esercita.

L’Italia del 2024 è un paese segnato da un livello di disuguaglianza economica che mai prima d’ora aveva conosciuto. Ad essa va unita una drastica riduzione degli strumenti e delle opportunità a disposizione delle nuove generazioni non solamente per potersi emancipare da una prospettiva materiale, bensì anche solo per poter dare ai propri progetti di vita un lungo respiro, essendo le garanzie di stabilità oramai inesistenti.

Se a questo contesto economico aggiungiamo l’ansia per una situazione ambientale drammatica, la distanza culturale, in particolar modo in relazione alle questioni di genere, con le generazioni immediatamente precedenti, nonché la presenza di un governo che mai come ora è poco rappresentativo dei valori e dei desideri di una fetta importante dei giovani italiani, il quadro che otteniamo sembrerebbe essere il contesto ideale per una rinascita del conflitto politico. 

Condizioni sociali ed economiche per un ritorno del conflitto non sono tuttavia sufficienti, accanto ad esse è fondamentale che sia presente un’impostazione ideologica da parte del soggetto politico che lo esercita che dia ad esso gli strumenti concettuali necessari al fine di elaborare strategie ed approcci funzionali ad una maturazione di tali esperienze di lotta. 

Per poter comprendere la struttura del pensiero politico dei giovani progressisti odierni è necessario tornare indietro nel tempo e ripercorrere i processi di cambiamento ideologico che ha attraversato la sinistra giovanile in questo ultimo mezzo secolo.

Traiettorie ideologiche

Il Movimento del Sessantotto è stato un fenomeno socioculturale che ha indubbiamente ricoperto un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento ideologico ed organizzativo della sinistra italiana dell’epoca. 

Tra il progressivo disvelamento di ciò che furono gli orrori dello stalinismo e le modalità militari con l’URSS ha represso la Rivoluzione Ungherese del 1956, nonché la Primavera di Praga, avvenuta nel corso dello stesso 1968, il socialismo italiano, soprattutto nelle sue componenti più giovanili, aveva da tempo iniziato a sviluppare una perdita di fascinazione verso quella che era stata l’esperienza sovietica. Parallelamente a ciò, come ulteriore elemento di disillusione negli ambienti più rivoluzionari, procedeva inarrestabile il processo di istituzionalizzazione e di normalizzazione del Partito Comunista Italiano nella sua partecipazione alla vita democratica del paese. È in questo quadro complessivo di crisi dell’ortodossia marxista che il Sessantotto svolge la propria funzione. 

L’ondata globale di rivendicazioni contro le esistenti strutture di potere e dei relativi apparati ideologici è arrivata anche in Italia in tutta la sua eterogeneità, portando con sé elementi che hanno avuto un impatto notevole nella cultura progressista dell’epoca. Con il suo supporto alle lotte di liberazione nazionale di matrice socialista nel terzo mondo e la contestazione del moralismo conservatore in favore di una liberazione sessuale, essa ha favorito una rigenerazione degli immaginari e delle estetiche di riferimento della sinistra giovanile.

Il rinnovamento che la Controcultura del Sessantotto ha portato con sé è consistito anche nella diffusione di nuove categorie e concezioni. Tra i concetti che questa nuova cultura antiautoritaria ha introdotto quello che ha avuto più successo, tanto da essere di per sé rappresentativo di tale stagione culturale e politica, è quello di Amore Universale. Questo forte focus sull’amore è facilmente riscontrabile osservando le scelte artistiche e comunicative dell’epoca.

All you need is love” cantavano i The Beatles nel singolo figlio della collaborazione tra John Lennon e Paul McCartney, in quello che è forse il brano più simbolico di quel particolare momento storico. “Fate l’amore, non la guerra” era il marco comunicativo onnipresente nelle manifestazioni giovanili contro le guerre imperialiste. 

Tanta era la voglia di rompere totalmente i ponti con il passato che ad esserne uscita trasformata fu l’impostazione ideologica della giuventù progressista stessa. L’antiautoritarismo divenne un valore fondamentale, ben espresso dal celebre slogan “vietato vietare”. La strategia della disciplina di partito venne messa in discussione a favore di un approccio maggiormente spontaneista. Alla volontà di superare il capitalismo portando la società ad una forma più avanzata di razionalità venne sostituito il paradigma de “l’immaginazione al potere” del filosofo marxista eterodosso Herbert Marcuse, esponente di spicco della Scuola di Francoforte e riferimento intellettuale della Controcultura sessantottina.

Le tendenze ideologiche a cui il Sessantotto ha aperto la strada sono state poi ulteriormente amplificate dagli eventi che hanno fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino. La sconfitta del socialismo reale non ha significato solamente la sparizione di ogni orizzonte storico che prevedesse rapporti di produzione differenti da quelli caratteristici del capitalismo, bensì anche l’avvento dell’egemonia culturale del liberalismo. In assenza di una minaccia sistemica esterna essa si è espansa ininterrottamente per tutti e tre decenni che ci separano da tale fase storica. 

In Italia, come nel resto dell’Occidente, l’impostazione ideologica di partiti e movimenti di sinistra, anche tenendo in considerazione quelli più radicali, testimonia un completo assorbimento del campo progressista nell’unica ideologia di questo presente: il liberalismo.

La contrapposizione tra alternative sistemiche si è sostituita da una nuova dialettica che avviene tra due interpretazioni, una progressista ed una conservatrice, interna alla stessa sfera ideologica, quella liberale. Non esistono ad oggi partiti o movimenti di dimensioni significative che non considerino la democrazia liberale la miglior forma di governo possibile e le libertà individuali come cardini imprescindibili su cui si fonda la nostra civiltà. 

Mettendo in relazione l’impostazione ideologica prevalente nel progressismo italiano antecedente al Movimento del Sessantotto con quella del presente è possibile ricavarne una traiettoria complessiva. Essa va dalla richiesta di una democrazia sostanziale alla difesa di quella formale, da un universalismo concreto ad uno astratto, dall’emancipazione collettiva alla liberazione individuale assoluta, dalla concezione del ruolo storico dello stato quale strumento a disposizione dei subalterni alla sua demonizzazione, dalla volontà di conquistare il potere al suo ripudio. Si tratta di una traiettoria in cui evoluzione ideologica e processi storici hanno interagito favorendosi vicendevolmente. Nonostante ciò, problematizzando il concetto chiave della stagione politica all’origine di tale percorso, ossia quello di Amore Universale, si possono individuare i semi concettuali di quella che sarà la direzione di tale traiettoria.

Amore e lotta per il riconoscimento

Il concetto di Amore Universale ha conquistato cuori e menti della giuventù progressista italiana nonostante, analizzandolo nel suo significato più prettamente politico, esso non rappresentasse una novità assoluta. Si tratta di una riproposizione in chiave post-moderna del già ampiamente conosciuto amore-carità cristiano, espresso dal comandamento “amerai il tuo prossimo come ami te stesso”. Si tratta essenzialmente dello stesso approccio interpersonale e ne ripropone di conseguenza la problematicità: cominciare la totalità delle relazioni umane da una prospettiva d’amore significa non riconoscerne fin dal principio l’implicita conflittualità.

Una definizione utile del sentimento che si vorrebbe rendere universale, ossia l’amore per l’altro, viene enunciata da Hegel nel testo Filosofia del diritto:

«L’amore esprime in generale la coscienza della mia unità con l’altro, per cui io, per me, non sono un isolato, ma la mia autocoscienza si afferma solo come rinuncia al mio essere per sé e come unità di me con l’altro»

Rinuncia all’essere per sé e unità di sé con l’altro sono i presupposti indispensabili per un riconoscimento dell’altro che sia totale. Tuttavia, se l’amore é riconoscimento, allora c’è una logica conseguenza da tener presente: l’unico amore possibile è l’amore tra uguali.

Non c’è possibilità alcuna per un amore che sia universale in una realtà politica segnata dalla disuguaglianza, perché laddove c’è disuguaglianza non c’è riconoscimento. È proprio il mancato riconoscimento dell’altro nella tua totalità l’elemento che permette alla disuguaglianza di continuare a persistere nel corso della storia.

Se la storia istituzionale ha un suo corso e non è statica lo si deve prevalentemente ad un fattore che è sempre esistito di pari passo alla disuguaglianza: il conflitto politico, motore della trasformazione storica che ha portato l’umanità verso la progressiva conquista di forme più mature di libertà.

Uno dei migliori interpreti della lezione hegeliana, il filosofo francese Alexandre Kojève, ha ben esposto tale concetto nel libro Introduzione alla lettura di Hegel: «Certo la storia é, se si vuole, una lunga discussione tra gli uomini. Ma questa discussione storica reale è tutt’altro che un dialogo o una discussione filosofica. Si discute non a colpi di argomenti verbali, ma a colpi di clava, di spada o di cannone da una parte, a colpi di falce, di martello o di macchina dall’altra. E, se proprio si vuol parlare d’un metodo dialettico di cui si serve la storia, bisogna precisare che si tratta di metodi di guerra e di lavoro. É questa dialettica storica reale, anzi attiva, a riflettersi nella storia della filosofia».

L’Amore Universale può esistere solo in uno Stato Universale, nella storia compiuta. Fino ad allora il conflitto politico resterà un elemento essenziale e primitivo dei rapporti umani. Esso sarà strutturalmente presente in ogni interazione finché il contesto in cui questa interazione avviene sarà quello della storia in processo. Finché vivremo nella storia il contesto delle nostre vite sarà il regno della lotta, non dell’amore.

I conflitti si accentuano quindi laddove non ci si perde in false forme d’amore. Senza di esse le contraddizioni oggettive emergono e con loro si palesa l’insostenibilità di determinate dinamiche e rapporti di potere. Da ciò nasce la possibilità dell’esercizio del conflitto e della più alta forma di libertà umana: la libertà di negare il presente. È dall’apertura di nuovi spazi di conflitto che si aprono nuove possibilità di distruzione e trasformazione della struttura del reale. Si sarà in grado di aprire e sfruttare nella loro piena potenzialità questi spazi di conflitto solamente attraverso una maturazione ideologica da parte di movimenti e collettivi giovanili. Serve vincere contro la capacità della cultura liberale di anestetizzare la lotta politica riassorbendo le questioni al proprio interno e rendendole sempre e comunque una questione di liberazione individuale. La storia della filosofia non manca di fornire le categorie necessarie a questa maturazione. Per realizzarla serve basarsi su un pensiero sociale che concepisca innanzitutto la società come un equilibrio instabile di forze antitetiche che, attraverso la loro tensione, generano la trasformazione sociale, nel contesto della storia quale evoluzione logica ed interna delle forze sociali stesse.

Questa maturazione ideologica non può avvenire se non attraverso un superamento degli approcci all’azione politica figli del liberalismo. Così come l’amore-carità del cristianesimo traspone la questione dell’uguaglianza nell’aldilà, dove tutti saremo servi uguali in funzione di un solo signore, così l’Amore Universale, che permea la sinistra postmoderna e post-Sessantotto, presuppone la disuguaglianza e lascia intatte le distinzioni sociali.

Non mancano le contraddizioni da far emergere. Non mancano questioni aperte su cui teorizzare e costruire lotte che riescano a minare l’egemonia ideologica del liberalismo nel campo del progressismo giovanile. Basta pensare a come il possesso di una casa, simbolo dell’indipendenza che il liberalismo promette agli individui attraverso l’istituto della proprietà privata, sia ormai una prospettiva quasi inesistente per la maggior parte dei giovani. Si tratta di un esempio di tematica su cui mancano esperienze di lotta concreta di dimensioni significative in rapporto alla gravità della situazione.

Altre questioni sono invece state aperte da collettivi e movimenti, senza però che l’impostazione ideologica abbandonasse una chiave di lettura liberale. Si pensi a come il femminismo maggioritario nel nostro paese, quello liberale, glorifichi le forme di schiavitù femminile del presente: la prostituzione e la maternità surrogata. Entrambi temi su cui un’inversione di tendenza è non solo possibile, bensì doverosa: la tradizione filosofica europea è sufficientemente ricca di strumenti ed approcci da rendere ingiustificabile che le posizioni del progressismo italiano siano così spesso un copia e incolla di quanto viene detto oltreoceano.

Esistono quindi spazi di conflitto sostanzialmente inesplorati, da cui si può iniziare a ragionare circa strategie di lungo periodo che compartecipino alla realizzazione di due obiettivi più grandi: la rottura con cinquant’anni di progressiva penetrazione ideologica del liberalismo in movimenti e collettivi giovanili, di pari passo con la legittimazione dei sentimenti politici che accompagnano e incentivano tali lotte.

Finché vivremo nel regno della lotta l’odio giocherà un ruolo fondamentale nella richiesta di riconoscimento, nell’azione negatrice dello status quo. La sua delegittimazione come sentimento politico svolge l’unica funzione di contribuire alla preservazione delle strutture esistenti e dei relativi rapporti di potere.

Non sarà l’Amore Universale a far superare storicamente le dinamiche Servo-Signore verso uno Stato Universale. Non sarà l’Amore Universale il sentimento che condurrà le nuove generazioni progressiste all’apertura di una nuova stagione conflittuale ed alle conquiste che potrebbero seguirne. Perché l’amore reale, e non ideale, non lo si otterrà ignorando le opposizioni, bensì sopprimendole dialetticamente attraverso la lotta negatrice.

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