Da Roe v. Wade al 2022: la storia non si cancella

4 Maggio 2022

Nella prime ore della mattinata di ieri Politico ha diffuso in esclusiva la bozza dell’attesissima decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sul caso Dobbs v. Jackson Women’s Health (dal nome del capo del dipartimento di Salute del Mississippi, Thomas Dobbs, e da quello dell’unica clinica dello stato in cui si effettuano ancora servizi di interruzione di gravidanza).

Riteniamo che Roe e Casey debbano essere annullati“, ha scritto per conto della Corte il giudice Samuel Alito, sostenendo come il diritto all’aborto non esista nella costituzione americana: “è tempo di restituire la questione dell’aborto ai rappresentanti eletti del popolo“.

La notizia segue di qualche settimana l’approvazione da parte del Senato dell’Oklahoma della Senate Bill 612, firmata il 12 aprile dal governatore repubblicano Kevin Stitt, il quale da mesi prometteva che avrebbe approvato «qualsiasi legge sul diritto alla vita fosse finita sulla [sua] scrivania». La legge prevede che l’aborto sia consentito solo per «salvare la vita di una donna incinta nel caso di un’emergenza medica», mentre negli altri casi (compresi lo stupro e l’incesto) i medici o le persone che eseguono l’interruzione di gravidanza all’interno dello stato siano punite con multe fino a 100mila dollari e pene fino a 10 anni di carcere.

Da tempo, in realtà, negli Stati Uniti sempre più governi di orientamento conservatore stanno cercando di limitare il diritto all’aborto: per questo la decisione definitiva della Corte sul caso Dobbs, attesa per il prossimo giugno, è di importanza storica. Se sarà quella anticipata l’impatto immediato sarebbe quello di far saltare mezzo secolo di garanzie di accesso all’aborto a livello federale, permettendo ad ogni stato di legiferare per conto proprio.  

L’esito è difficile da prevedere, benché ormai sembri certo che verranno fatti dei passi indietro rispetto alle sentenze del 1973 (Roe v. Wade) e del 1992 (Planned Parenthood v. Casey). L’ipotesi più probabile è che siano accolte soltanto le richieste più puntuali, come quella sull’interruzione di gravidanza entro le 15 settimane: una decisione che sarebbe comunque piuttosto pesante, dato che restringerebbe la finestra per l’interruzione di gravidanza di circa due mesi rispetto a quella prevista in Casey.

Fiumi di parole verranno, giustamente, spesi da qui a giugno: secondo alcuni riconsiderare il “diritto assoluto all’aborto” sarebbe il frutto di un’evoluzione del diritto, in linea con una lunga storia di giurisprudenza costituzionale riconosciuta come salda base dei poteri divisi e dei controlli voluti dai Padri fondatori della democrazia americana; secondo altri, sempre da un punto di vista giuridico, è difficile dare torto alla Corte Suprema: Roe aveva infatti radicato l’aborto, un trattamento sanitario, nel diritto alla privacy; altri ancora hanno decretato la fine dell’egemonia degli USA come “Paese delle Libertà“.

Ciò che appare evidente è come la notizia abbia avuto l’effetto di una bomba sull’opinione pubblica di tutto il mondo occidentale.

Già il 12 aprile, ripercorrendo i 44 anni che ci separano dalla legge 194 del 1978, scrivevamo di come il tema dell’interruzione volontaria di gravidanza, anche in Italia, sia ancora molto distante dal dirsi compreso in tutta la sua importanza, profondità e centralità all’interno di un dibattito pubblico informato.

Ci pare dunque fondamentale ripercorrere, seppure a passo svelto, alcune tappe della storia dell’aborto negli Stati Uniti: solo così ciascuno potrà trarre le proprie conclusioni.

Roe v. Wade

Benché già negli anni ’50 una nuova generazione di femministe iniziò ad opporsi alle pretese di controllo sul proprio corpo da parte dello Stato, ottenendo risultati storici come le sentenze della Corte Suprema Griswold v. Connecticut del 1963, con la quale si legalizzò l’utilizzo della pillola anticoncezionale per le donne sposate, e Eisenstadt v. Baird del 1972, che estese questo diritto anche alle nubili, è nel corso degli anni ’70 che si mossero i più importanti passi pro-aborto. 

Il 22 gennaio 1973, due anni dopo la pubblicazione di “A Defence of Abortion” di Judith Jarvis Thomson, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì come una regolamentazione statale indebitamente restrittiva in materia di aborto fosse incostituzionale.

Nel 1970 “Jane Roe“, nome fittizio usato per proteggere l’identità della querelante Norma McCorvey, rimasta incinta del terzo figlio, rivolgendosi in tribunale chiese di poter abortire: ogni stato, all’epoca, aveva una propria legislazione sull’aborto, ed almeno in trenta era considerato reato di common law (basato cioè sui precedenti giurisprudenziali). Dichiarò, mentendo, di essere stata stuprata: la legislazione texana ammetteva infatti l’aborto in questa ultima fattispecie e in caso di incesto. Ma non essendoci nessun rapporto della polizia locale sul caso la sua richiesta venne respinta.

Presentò allora ricorso alla Corte distrettuale del Texas: la difesa venne assunta dal procuratore distrettuale Henry Wade. La Corte distrettuale diede ragione a Norma McCorvey, basandosi sull’interpretazione del Diciannovesimo emendamento della Costituzione, in cui si dichiara che l’elenco dei diritti individuali può essere integrato da altri diritti non specificamente menzionati nella Costituzione.

Dopo la sentenza, Wade fece ricorso in appello alla Corte Suprema. La decisione di quest’ultima, presa a maggioranza di 7 giudici (sui 9 totali), si basò su una nuova interpretazione del Quattordicesimo emendamento, ritenendo che le limitazioni poste alla decisione della donna di abortire violassero il suo “right to privacy”. In particolare, la Corte Suprema ritenne che:

This right of privacy, whether it be founded in the Fourteenth Amendment’s concept of personal liberty and restrictions upon state action, as we feel it is, or, as the District Court determined, in the Ninth Amendment’s reservation of rights to the people, is broad enough to encompass a woman’s decision whether or not to terminate her pregnancy

Tale diritto venne però concepito come condizionato e limitato dalla presenza dell’interesse statale alla tutela della vita potenziale, la cui rilevanza si manifesta in maniera crescente nel corso della gravidanza.

L’interesse dello Stato alla protezione della salute della donna, da un lato, e quello alla protezione della vita potenziale, dall’altro, vennero quindi delineati dalla Corte distinguendo tre diverse fasi in riferimento all’evoluzione della gravidanza.

In particolare:

  • (a) For the stage prior to approximately the end of the first trimester, the abortion decision and its effectuation must be left to the medical judgment of the pregnant woman’s attending physician.
  • (b) For the stage subsequent to approximately the end of the first trimester, the State, in promoting its interest in the health of the mother, may, if it chooses, regulate the abortion procedure in ways that are reasonably related to maternal health.
  • (c)  For  the  stage  subsequent  to  viability  the  State,  in  promoting  its  interest  in the potentiality of human life, may, if it chooses, regulate, and even proscribe, abortion  except  where  necessary,  in  appropriate  medical  judgment,  for  the preservation of the life or health of the mother

Planned Parenthood v. Casey

In data 29 giugno 1992, nel caso Planned Parenthood v. Casey, la Corte Suprema si trovò nuovamente a dover decidere sul diritto di una donna di interrompere volontariamente la gravidanza.

Questa volta la questione di costituzionalità riguardava cinque articoli del Pennsylvania Abortion Control Act del 1982, ed in particolare: che il dottore informasse la donna dei rischi collegati all’aborto e che lo stesso non venisse praticato prima di 24 ore; che le minori dovessero ricevere il consenso da parte di un genitore o di un rappresentante legale; che il marito delle donne sposate fosse d’accordo con l’intervento.

La Corte d’appello del terzo circuito aveva confermato l’incostituzionalità del solo spousal consent (con il dissent del giudice Samuel Alito, che avrebbe voluto legittima anche tale clausola).

Ciò che interessa in questa sede è che in una decisione divisa (4 a 3) la Corte Suprema ha in seguito riaffermato la propria decisione in Roe v. Wade di riconoscere il diritto di una donna a poter abortire, sottolineando in particolare come i limiti al diritto di accedere all’aborto si debbano basare sul cosiddetto “undue burden test”, o prova dell’onere eccessivo, per cui la legislazione statale non può né vietare l’aborto entro i limiti stabiliti da Roe, né ostacolare una donna che desideri ricorrervi. Sulla base di questi criteri, la plurality opinion confermò l’incostituzionalità del solo spousal consent, che poneva le donne in una situazione di oggettiva difficoltà e debolezza nei confronti del partner.

Inoltre, in ragione degli sviluppi scientifici intervenuti dal tempo della pronuncia del 1973, il principio del primo trimestre venne abrogato in favore di quello basato sulla viability, secondo cui l’aborto è permesso non più soltanto nel primo trimestre di gestazione, bensì fino al momento in cui il feto non è in grado di sopravvivere fuori dall’utero materno: circa 24 settimane dopo il concepimento. 


Il terzo millennio

La storia dell’aborto negli USA non si ferma però a questi due casi, (certamente i più importanti, non a caso richiamati nella bozza del caso Dobbs). Basti citare alcune delle sentenze più importanti degli ultimi due decenni come quella del caso Gonzales v. Carhart (2007), con cui la Corte ha confermato il Partial-Birth Abortion Ban Act (2003), o del caso Whole Woman’s Health v. Hellerstedt (2016), con cui la Corte ha invocato la sua decisione in Casey per colpire due disposizioni di una legge del Texas che richiedevano alle cliniche abortive di soddisfare gli standard dei centri chirurgici ambulatoriali e ai medici abortisti di avere i privilegi di ammissione in un ospedale vicino.

Il profilo degli admitting privileges, in base al quale un medico che effettua un intervento di interruzione di gravidanza deve risultare membro dello staff di una struttura ospedaliera distante non più di 30 miglia dalla clinica abortiva ed avere quindi la possibilità di inviare presso la medesima i propri pazienti per trattamenti diagnostici o specialistici, imponeva infatti un “undue burden” che avrebbe condizionato nella sostanza le scelte delle donne e che, quindi, avrebbe inciso negativamente sul loro diritto all’autodeterminazione. La finalità che la legge si prefiggeva di perseguire per mezzo di tale requisito era quella di garantire la sicurezza e la salute delle donne in caso di complicazione successive all’intervento; tuttavia, le relazioni delle principali società medico-scientifiche portate in giudizio dimostravano come le percentuali di insorgenza di complicazioni per questo tipo di interventi fossero talmente basse da rendere, appunto, sproporzionato l’obbligo imposto dalla legge.

Una svolta importante è avvenuta nel 2019, quando alcuni Stati sono riusciti, anche grazie alla spinta conservatrice dell’amministrazione Trump (e alla morte di Ruth Ginsburg) a far approvare una serie di nuove leggi piuttosto restrittive, tra cui il Texas Heartbeat Act, approvato dal Senato del Texas il 19 Maggio 2021, che vieta l’interruzione di gravidanza dopo il rilevamento di attività cardiaca embrionale o fetale. Questo limite temporale è stato individuato sulla base dell’assunto per cui il battito fetale dovrebbe rappresentare un fattore di probabilità rilevante delle possibilità di sopravvivenza del feto fino alla nascita. È evidente come dichiarare la viability del feto dopo sole 6 settimane di gravidanza riduca in maniera sensibile la finestra temporale entro cui sarebbe legale abortire.


E così, infine, torniamo al caso “Dobbs v. Jackson Women’s Health.

Prima della nomina dei tre nuovi giudici conservatori (Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett) da parte dell’ex presidente statunitense Donald Trump, la Corte si era sempre rifiutata di esaminare i casi che riguardavano l’interruzione di gravidanza prima dei limiti fissati nella sentenza del 1992.

È difficile, come già detto, prevedere ciò che succederà nelle prossime settimane.

In ogni caso, ripercorrere e conoscere i passi fatti negli ultimi 50 anni è condizione fondamentale per poterlo comprendere a fondo. Ciò che importa sempre di più, infatti, è che il dibattito sia veramente informato: non è più tollerabile che la libertà di scelta e il diritto all’autodeterminazione della donna siano solamente passerelle per lo scontro politico e per opinioni che abbassano ulteriormente il livello di un dibattito già piuttosto scadente.

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