Il COVID19 non ha solamente evidenziato le tante debolezze strutturali del nostro Paese, ha anche inspessito la linea che separa in due gruppi gli uomini, ricordandoci che ci sono alcuni animali più sociali degli altri, terrorizzati dalla solitudine, incapaci di “staccare la spina”, di leggere un libro, di guardarsi un film, di stare a casa.
Era il 2004 quando Patrick McGinnis, studente della Harvard Business School, in un editoriale per la rivista studentesca “Harbus”, descrisse per la prima volta un disturbo sociale che chiamò “FoMO”: Fear of missing out. Letteralmente “paura di mancare”, la “FoMO” è una forma di preoccupazione compulsiva di perdere l’opportunità di interazione sociale, di un’esperienza nuova o di un’esperienza gratificante, per lo più suscitata da post sui social. È un’ansia sociale ubiquitaria e dai contorni molto sfumati: se per gli adolescenti questa paura si delinea nei termini dell’essere davvero “tagliati fuori” da esperienze che i loro pari possono star facendo senza di loro, per chi ha superato la soglia dei 25 anni la “FoMO” può assomigliare a una perenne sensazione di non aver fatto la scelta giusta perché c’è sempre qualcuno online che sembra si stia divertendo, o realizzando, meglio di loro. È un disturbo sociale che ci accompagna da quando la nostra società si è fatta “social”, confessionale. Si manifesta come una sorta di prurito emotivo ogniqualvolta ci capita di fare qualcosa, appunto, che si soleva definire utile per “staccare la spina” dalla frenetica vita di tutti i giorni. Un pensiero secondario disturbante che non ci lascia godere “quel” momento e che ci porta ad allungare la mano verso il cellulare per vedere se sono arrivate notifiche. Dobbiamo controllare se, per caso, nei 5 minuti in cui ci siamo “distratti” non sia successo qualcosa di importante che rischiamo di perderci. Secondo uno studio condotto dalla società di ricerca Dscout, l’utilizzatore medio tocca il suo cellulare 2.617 volte al giorno, mentre gli utenti dallo “sblocco spasmodico”, ovvero il 10% del totale, toccano i loro telefoni 5.400 volte al giorno. Se ve lo steste chiedendo, ai fini della ricerca, Dscout ha valutato azioni come digitare, premere e scorrere lo schermo del telefono come un solo “tocco”.
IL LOCKDOWN: OPPORTUNITÀ O CONDANNA?
Negli ultimi 3 mesi, però, e soprattutto a partire dalle progressive fasi di “riapertura” delle interazioni sociali, la “FoMO” ha assunto connotati ben più concreti. Se alcuni hanno accolto il lockdown come un’opportunità di solitudine, un ritrovarsi per potersi in seguito aprire al mondo esterno con spirito rinnovato, altri, meno avvezzi alla sola compagnia di sé stessi, lo hanno percepito come una condanna all’isolamento. E ora, per una parte di questi ultimi, la paura di mancare alle prime esperienze piacevoli, di riunione tra amici, cozza immancabilmente con gli imperativi categorici più marcati, con il timore di mettere piede in un mondo dove il virus circola ancora o, magari, con la maggiore necessità di tutelare qualcuno, un famigliare, più fragile di noi. E allora il messaggio “alle 18 aperitivo?” che dopo 4 mesi torna a rimbalzare sulla home dello smartphone li costringe nella scomoda posizione del non poter “né scendere, né salire” o, meglio, del non voler “né uscire, né stare a casa”. E li costringe alla scelta, non per forza “più razionale”, dell’imporsi di non uscire, ancora, per un po’. È in quel momento che la “FoMO” si palesa nel dubbio “chissà cosa staranno facendo i miei amici, cosa si staranno raccontando. Che magari poi loro, visto che manco io, diventano più amici di prima, dimenticandomi. E io? E io sto a casa, proprio ora che riparte la vita, che ripartono gli aperitivi, e i ristoranti”. È un non partecipare consapevole, voluto, che rende ancora più asfissiante, per coloro che trovano ingombrante condividere una stanza con sé stessi, l’isolamento. Se la virtualità è per così dire ambivalente, poiché nasconde la doppia possibilità di ‘essere’ e di ‘poter essere’, permettendoci di scegliere tra un ambiente altro, in grado di assorbirci completamente o di isolarci dal resto del mondo, e consentendoci un’esistenza in bilico tra l’essere e l’esserci in senso heideggeriano, la riapertura alla vita dopo 4 mesi ci espone al dover esserci, senza possibilità di mediare tale presenza o assenza attraverso i social. Se su questi la FoMO si manifestava egualmente o in una presenza annunciata, ma mai materialmente partecipata, o in un’assenza solamente percepita dagli altri ma mai reale, in un bussare alla porta senza poi trovare davvero qualcuno, la pandemia ha portato questo disturbo al tavolino di un bar, in una sedia lasciata vuota, in una birra non bevuta, in una sigaretta non fumata, in una chiacchiera non scambiata. Là, fuori da queste 4 mura entro le quali siamo rimasti costretti da quel 9 Marzo in cui tutta Italia divenne zona protetta.